«Ma quale autofiction, ho raccontato i cazzi miei!». Sono sbottato così, rispondendo a un amico che mi aveva chiesto di che cosa parla La verità e la biro. Gli avevo appena spiegato che tratta della sincerità nelle relazioni umane: è il resoconto di una vacanza con mia moglie in Grecia, dove abbiamo avuto un incidente e poi siamo finiti in una spiaggia per nudisti. E soprattutto contiene tanti episodi della mia adolescenza e gioventù: descrivo certe situazioni in cui le persone mi hanno detto la verità, in amore, a scuola, nel lavoro, ferendomi o spiazzandomi, svezzando la mia ingenuità. Dopo avermi ascoltato, il mio amico aveva commentato: «Ah, ho capito. Hai scritto un’autofiction».

Sono sempre più insofferente verso questo termine: autofiction, autofinzione. Quando venne concettualizzata dagli studiosi di letteratura, questa categoria del narrare prevedeva che l’autore o l’autrice entrassero nei loro romanzi usando sé stessi come personaggi semi-fittizi. Ci si getta con il proprio nome e biografia all’interno di una trama inventata. Si mescolano elementi fantasiosi con altri reali che riguardano sé stessi.

Schiaffi e carezza

Quel che non sopporto è che nel frattempo il termine “autofiction” si stia mangiando tutto il campo della scrittura autobiografica. Qualunque libro in cui l’autore o l’autrice parli di sé ormai viene sbrigativamente definito “autofiction”. Come se fosse scontato che chi scrive su di sé ci metta della finzione, pasticciando con i propri ricordi, inscenando sé stesso con una manipolazione strategica, in vista dell’effetto che vuole ottenere. Mi irrita questo allargamento indebito della parola autofiction perché mortifica il valore dell’esperienza individuale effettivamente vissuta, e della possibilità di raccontarla e condividerla.

In quella vacanza ho vissuto delle cose che mi hanno messo in discussione, e ne ho intuite altre che poi ho approfondito a casa, cercando nei miei ricordi e nella mia libreria. E poi è successo che ho scoperto di essere ammalato, me la sono vista brutta, con delle conseguenze che hanno intaccato la mia identità di maschio. Tutto questo non è indifferente. La vita ci fa delle domande, ci dà schiaffi e carezze che lasciano il segno.

Le teorie letterarie giustamente disgiungono il testo dal suo autore, considerando il libro un’entità autonoma rispetto a chi l’ha scritto: ma ciò non deve far credere che la scrittura nasca in una bolla separata, dove esistono solo le scelte estetiche. Non è così. Non tutto dipende dalle nostre decisioni. Esistono gli eventi, che piombano sulla pagina, come le tempeste che sfondano il tetto di casa e si infiltrano nelle pareti. Esiste la vita.

Letteratura ombelicale?

Come mai oggi si scrive molto di sé? Come mai gli scrittori e le scrittrici sfornano sempre più libri che raccontano le loro vite? Le risposte più stolte liquidano questo fenomeno come “letteratura ombelicale”. Chi la definisce così ha tutto il mio disprezzo. Lo considero un servo del capitalismo, di Hollywood, delle riviste di gossip, dell’alienazione, del maccartismo, dei tribunali sovietici, dei maiali orwelliani, di Gargamella.

Lo stesso vale per chi taccia gli autobiografi di narcisismo o di speculazione esibizionistica. Sono modi per sminuire il valore dell’esperienza personale: come se le vite vissute dai singoli non avessero niente di significativo da offrire alla comunità, e il discorso pubblico dovesse essere monopolizzato da vip e star o chiacchiericci da social.

La salute del romanzo

Come mai, allora, tutta questa scrittura autobiografica? Per rispondere propongo di equiparare l’immaginazione romanzesca alla salute, e l’autobiografia allo stare male.

In un saggio, il romanziere Michel Tournier riflette sulla definizione di salute del filosofo Georges Canguilhem. Ne ricava che «essere in buona salute significa poter abusare impunemente della propria salute». Chi è in salute ha a disposizione «un sovrappiù di risorse che permette all’essere vivente di rispondere alle infedeltà dell’ambiente». Essere in salute significa per esempio che se c’è un terremoto noi abbiamo le forze per catapultarci fuori in strada: eravamo seduti, ci ritroviamo a scappare di corsa; di punto in bianco possiamo fornire una prestazione fisica efficiente che va al di là della gestione ordinaria.

E poi c’è lo scrittore giapponese Kenzaburō Ōe: in un racconto giovanile, a un certo punto descrive un ragazzo che si mette a correre senza motivo. Un’amica gli chiede come mai; lui risponde: «Sono giovane e ogni tanto mi piace fare una corsa». La gioventù è un’energia che trabocca, che non sta dentro i propri limiti: è un’eccedenza della salute.

Perché ho fatto queste due citazioni? Perché credo che l’immaginazione romanzesca sia qualcosa di simile alla salute. Un’eccedenza della facoltà inventiva, un sovrappiù di risorse dell’anima e dell’intelligenza, che traboccano e si mettono a inventare storie. L’immaginazione narrativa, il romanzo inventato sono la prestazione di chi sta bene. Chi sta male si ripiega a esaminare le proprie magagne. Racconta i propri guai. Il dolore si fa sentire, e chiede di essere riconosciuto e descritto. Vuol dire che l’attuale proliferare di libri autobiografici indica un male diffuso? È possibile. Ci fa male la vita, e la raccontiamo.

Sessantenne scassato

In questo libro non ho voluto fare lagne. Non mi piace il dolorismo, la retorica del trauma. La verità e la biro fa ridere e meditare. Oltre a raccontare i fatti miei, per capire che cos’è la sincerità e come sconvolge l’ipocrisia sociale ho fatto sulla pagina ciò che faccio nella vita: ho cercato aiuto nei libri; un romanzetto distopico in cui un regime totalitario obbliga la pubblicità e i manifesti elettorali a dire la verità; il misantropo sincero di Molière; i saggi di G. K. Chesterton; gli epigrammi di Marziale; le poesie di Saffo

Prima che il libro cominci davvero ho inserito un’avvertenza iniziale, in cui accenno alle mie disavventure di salute. Serve a mettere in prospettiva alcune mie gesta erotiche di ventenne: racconto quelle vicende, spesso comiche, con la malinconia di un sessantenne scassato. Ho deciso di dare questa informazione ai lettori, altrimenti temevo di essere considerato il solito maschio frivolo che attraversa la vita con passo leggero, mentre le donne, loro sì, soffrono e si disperano.

Non ho raccontato cose troppo tragiche, perché certe esperienze dolorose che ho vissuto non appartengono solo a me, e non volevo coinvolgere chi le ha subite. Tutelare gli altri nel racconto di sé causa effetti letterari bislacchi: certe volte, per non rendere riconoscibili le persone, ho dovuto ritagliare via tutto l’ambiente intorno a me, occultando le circostanze, un po’ come succede nelle videochiamate al computer, su Zoom, quando metti lo sfondo neutro per non far vedere da dove chiami. 

Verità inaspettate

La verità e la biro è un’indagine narrativa sulla sincerità nelle relazioni umane. Dentro ci sono tanti episodi in cui la verità arriva inaspettata.

C’è la signora che, quand’ero giovane, mi diede un appuntamento di notte nella sua casa buia; io non sapevo nemmeno che faccia avesse; la vidi affiorare nuda alla luce dell’alba, la mattina dopo.

C’è l’anziano amico di famiglia che mi rivelò di avere fatto trasferire un prete pedofilo, lo stesso che quand’ero ragazzino mi aveva fatto spogliare per sbirciarmi nudo nelle docce in piscina.

C’è il dipendente di un’azienda editoriale dove lavoravo, che riempì le bozze del numero zero di una rivista con la confessione di essere scontento della vita.

C’è la studentessa con cui andavo a letto all’università che mi raccontava i dettagli della sua relazione con un suo professore, e allo stesso tempo riferiva a lui le tecniche amatorie che noi due sperimentavamo insieme.

C’è il professore d’italiano che in seconda media mi prese da parte e mi rimproverò di aver scritto un tema insincero, e mi disse una cosa che, non esagero, mi cambiò per sempre: «Dilla, la verità!» Se ho scritto questo libro lo devo anche a lui.


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