- Era l’ultimo sabato dell’Oktoberfest, e il commissariato di Ettstrasse suonava vuoto come una cattedrale abbandonata.
- Solo il commissario Sauer, che non beveva, non cantava e di certo non si sarebbe mai messo a ballare, si era offerto per il turno di servizio
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Era l’ultimo sabato dell’Oktoberfest, e il commissariato di Ettstrasse suonava vuoto come una cattedrale abbandonata. Nonostante l’austerità di quel faticoso 1930 – o forse proprio in virtù dell’austerità, che almeno una volta all’anno era possibile, se non necessario, accantonare – tutta Monaco sembrava essersi riversata al Wies’n per bere, cantare e ballare fino a tardi. Solo il commissario Sauer, che non beveva, non cantava e di certo non si sarebbe mai messo a ballare, si era offerto per il turno di servizio.
«Ma siamo sicuri?» gli chiese il commissario aggiunto Forster, universalmente noto come Mutti, suo braccio destro e miglior amico, con un tono che esprimeva più sconcerto che incertezza. «Lo sai che finiremo per seguire tutte le chiamate, vero? Dall’omicidio al gatto sull’albero».
Sauer si strinse nelle spalle. «I gatti sanno scendere da soli dagli alberi. Non c’è bisogno di intervenire».
Così i due commissari finirono a presidiare il distretto centrale dalle otto di mattina alle otto di sera, annoiandosi per quasi tutto il tempo, perché anche i criminali, come aveva previsto il sergente Julian, avrebbero passato la giornata nei tendoni della Paulaner. «Forse dovremmo fare un salto per controllare» propose Mutti verso le cinque, quando entrambi iniziavano a sperare in un turno liscio. «Che dici, Siggi? Una ronda veloce, per mostrare ai cittadini che le forze dell’ordine non perdono di vista il dovere nemmeno nei giorni di festa!».
Sauer si limitò a rivolgergli uno sguardo scettico, cui Mutti rispose sollevando le mani aperte. «Era solo per dire».
Vennero le sei, annunciate dalle campane della vicina Frauenkirche. Vennero le sette, ribattute dal campanile del Vecchio Pietro, che vegliava secolare sul Viktualienmarkt. Al pensiero della sua mansarda affacciata proprio sul mercato, dove lo aspettava il vecchio pianoforte di famiglia e un passaggio complicato dell’amato Rachmaninoff, Sauer si trovò a desiderare che l’ultima ora di servizio volasse via in un lampo. Ma naturalmente non era quello il suo destino.
Poco dopo le sette e mezza, quando Mutti si era già messo a riordinare la scrivania gettando occhiate speranzose all’orologio sulla parete, il telefono della sezione Omicidi prese a trillare, un suono sempre troppo allegro rispetto alle notizie che annunciava.
«Sauer» disse il commissario nella cornetta.
«Siggi» gli rispose una voce nota. Era Treffl, il sergente di ronda a Haidhausen, un quartiere operaio di Monaco. «Abbiamo una morte violenta in un appartamento di Brisestrasse 28, sesto piano. Un uomo sui trent’anni, ucciso con un colpo in fronte da distanza ravvicinata».
«Un’esecuzione».
«Sembrerebbe».
«Lo conoscevamo? Precedenti?».
«Ho chiamato te per primo» rispose Treffl. «Sono arrivato da poco, e non c’è nessuno cui chiedere, qui. Nessuno di affidabile».
Sauer si voltò verso Mutti, che all’altra cornetta aveva ascoltato tutto e annuì. Sul suo volto, nessun segno che fosse contrariato per quella chiamata a fine turno. Solo la determinazione ad agire del poliziotto coscienzioso.
«Arriviamo» disse Sauer, e riattaccò.
Scesero nei garage e presero un’automobile di servizio, anche se lui non guidava e Mutti era un pericolo pubblico.
«Questa volta resta sulla strada, d’accordo?» disse Sauer.
«Siggi, ti pare il caso di farmi certe raccomandazioni?».
«Sì, mi pare il caso».
Mutti sospirò. «Uomo senza fede. D’accordo: niente marciapiedi, e niente scorciatoie. Starò sulla strada».
Sauer approvò. «Un morto c’è già, non ne aggiungiamo altri».
«Però farebbe statistica» rispose il commissario aggiunto mentre si immetteva nel traffico pressoché inesistente dell’ultimo sabato dell’Oktoberfest.
Lasciarono il centro diretti a nordovest e presto raggiunsero i casermoni operai di Haidhausen. Brisestrasse era una via decorosa stretta come un canyon tra due alti edifici di mattoni rosso sangue. Mutti parcheggiò su un marciapiede («Qui posso, sì?») e da lì continuarono a piedi fino al civico segnalato da Treffl. Superato un portone anonimo tenuto aperto da una tanica di metallo, salirono sei rampe di scale – agilmente Sauer, ansimando e imprecando contro il fumo, il sovrappeso e l’architettura moderna Mutti – fino a raggiungere la porta spalancata dell’appartamento 621.
«Permesso?» chiese Sauer.
Treffl li chiamò dall’interno. «Siamo in bagno!».
I due commissari si infilarono nella casa, spartana ma ordinata. Oltre un piccolo disimpegno ingombro di giacche e cappotti – alcuni di ottimo taglio – si aprivano a sinistra una saletta carica di ninnoli di ogni genere (c’era persino un lampadario in finto cristallo, notò Sauer) e a destra un cucinotto lindo e ben arredato. «Guarda» disse Mutti, indicando una mensola su cui erano allineati dodici bicchieri di cristallo vero. Poco più in là, appesi sotto una cappa in acciaio, i due commissari notarono anche sei coltelli di diverse grandezze, le lame lucide e prive di imperfezioni come se non fossero mai state utilizzate, i manici in un legno riccamente inciso. I due si scambiarono un’occhiata prima di continuare verso il bagno, dove trovarono il collega e il cadavere.
«Siete arrivati in fretta» disse Treffl.
«Non c’è traffico, sai. Sono tutti…»
«… al Wies’n. Sì» concluse l’altro, una nota di rammarico nella voce. «Se ci sbrighiamo potremmo unirci a loro. Vi presento la vittima» aggiunse chinandosi sul corpo semisdraiato di un uomo sulla trentina, capelli rasati fin quasi alla radice, una folta barba nera, il naso marcato e un’ampia fronte color cera su cui si apriva un foro circolare pieno di sangue raggrumato. «Si chiamava Rudi Kirasch, l’ho appurato dal portiere. Abitava qui da un anno ma non aveva stretto conoscenza con nessuno. L’unica cosa che ho saputo dalla signora dell’appartamento…» Una pausa per controllare il taccuino. «617. Una vecchietta simpatica, voleva offrirmi una tazza di tè ma purtroppo…».
«Cos’hai saputo?» lo interruppe Sauer, che si era accosciato per osservare da vicino il foro d’ingresso.
«Che aveva una sorella. Vivevano qui insieme, e…».
Un grido di donna lacerò l’aria in quell’istante. I tre poliziotti si voltarono di scatto verso la soglia del bagno, dove era comparsa una ragazza sui vent’anni – vestita di un rosso brillante, i capelli biondi stirati alla perfezione, occhi come smeraldi incassati in un viso stretto e ossuto – che osservava lo spettacolo con un’espressione selvaggia, una mano davanti la bocca. «Rudi! Rudi, no!» gridò ancora la ragazza, poi lasciò cadere a terra la borsa che reggeva con la mano libera e si lanciò in avanti.
Mutti fu rapido a mettersi in mezzo. La afferrò con decisione e delicatezza, la fece ruotare in modo da impedirle di vedere il morto.
«Rudi! No! No!» urlò ancora la ragazza, cercando invano di divincolarsi.
«Mi sa che abbiamo trovato la sorella» commentò asciutto Treffl.
La fecero sedere e le diedero da bere due dita di cordiale (Mutti ne aveva sempre una fiaschetta con sé, era uno dei suoi cinque unici vizi), poi aspettarono che avesse esaurito le prime lacrime, cui sapevano ne sarebbero seguite molte altre, e la coprirono con un panno trovato in camera da letto per ridurre il suo tremito, anche se non era dovuto al freddo. Anzi. Nell’appartamento faceva un caldo insolito per quel genere di palazzo, e quando Sauer andò a controllare i radiatori in ghisa scoprì che erano accesi. Di nuovo la sensazione che qualcosa non tornasse, di nuovo uno sguardo d’intesa con Mutti.
«Signorina Kirasch?» azzardò Sauer. «È questo il suo nome?».
La ragazza annuì tra le lacrime.
«Signorina Kirasch, siamo addolorati per la sua perdita. Immagino che lei e la vittima foste…»
«È mio fratello» rispose lei. «Rudolf Kirasch.»
«Ci dispiace» disse Mutti. «Avremmo preferito che lei non dovesse assistere a…»
«Chi è stato?» ruggì la ragazza, sollevando di scatto la testa. Nei suoi occhi luminosi sfolgorava una determinazione che colpì i due commissari. Una ragazza giovane, ma non debole. Non smarrita.
«Lo ignoriamo» rispose Mutti. «Ma deve sapere che la modalità della morte è… particolare.»
La ragazza lo guardò aggrottata. «Particolare?»
«Gli hanno sparato un unico colpo in fronte, da vicino» disse Sauer.
«L’hanno fatto nel bagno» aggiunse Treffl. «E non c’erano segni di effrazione sulla porta».
«Cosa significa?» chiese la ragazza rivolgendo il suo sguardo elettrico su tutti e tre i poliziotti, a turno.
«Significa» concluse Mutti «che qualcuno che conosceva bene suo fratello, e di cui suo fratello si fidava abbastanza da farlo entrare in casa e poi nel bagno, gli ha sparato a freddo, come in un’esecuzione».
Un lungo silenzio seguì, denso e concreto, quasi tangibile, ma allo stesso tempo irreale. Oltre la porta dell’appartamento, ancora aperta, passavano di quando in quando uomini e donne talmente presi dalle loro vicende da non sentire nemmeno l’esigenza di soffermarsi e guardare dentro, come se cose del genere – poliziotti, grida, forse lo sparo fatale – fossero all’ordine del giorno nel palazzo.
Alla fine non fu la ragazza a parlare, e nemmeno i due commissari. Era passato forse un minuto, un tempo di rispetto per il dolore e lo spaesamento della sorella di una vittima, quando Treffl disse, con tono urgente: «Venite a vedere!».
Sauer e Mutti si avvicinarono al sergente, che aveva raccolto da terra la borsa della ragazza e l’aveva aperta. «Cosa c’è?».
«Date un occhio» rispose Treffl, e ficcando una mano nella borsa ne tirò fuori una collana d’oro. E poi un’altra. E poi un’altra.
Mutti lasciò andare un lungo fischio.
Sauer si voltò verso la ragazza in lacrime, la studiò per un attimo: vestiva dimessa, abiti anonimi che si potevano trovare in qualsiasi grande magazzino, ma il taglio dei capelli era alla moda, e le scarpe, ora che ci faceva caso, non sembravano affatto acquistate da Uhlfelder. Guardò di nuovo i bicchieri di cristallo sulla mensola in cucina, i coltelli, i radiatori, poi tornò a Treffl e Mutti.
«Capito?» disse il commissario aggiunto.
E sì, Sauer aveva capito. Aveva capito eccome.
Setacciarono l’appartamento a fondo, rivoltando i materassi, girando i quadri alle pareti, staccando i battiscopa in legno, e dopo un’ora avevano raccolto abbastanza gioielli, portafogli e accessori di lusso – stole, foulard, guanti, persino un binocolo da teatro in oro – da non avere più bisogno di conferme o confessioni: Katarina Kirasch, di anni diciannove, sorella della vittima di un’efferata esecuzione domestica, era una ladra. Una ladra molto abile, e loro si trovavano nel suo covo.
«E adesso cosa facciamo?» chiese Treffl guardando il bottino ammucchiato sul tavolo della sala. Il valore della refurtiva, a occhio e croce, superava un anno di stipendio dei tre poliziotti messi insieme. Forse un anno e mezzo.
«Adesso la portiamo dentro» rispose Mutti, allargando le mani come a dire: “Abbiamo altra scelta?”.
«Secondo voi è stata lei?»
«A uccidere il fratello?» disse Sauer. «Non credo. Non ha una pistola, non ha polvere da sparo addosso, e la sua reazione quando ha visto il cadavere…» Si voltò verso la ragazza, che sedeva su uno sgabello con gli occhi fissi sul bagno aperto. Guardava il corpo del fratello, ancora semisdraiato sulle piastrelle bianche e rosse, ondeggiando la testa avanti e indietro come una vecchia inebetita.
«Probabilmente non è stata lei» intervenne Mutti «ma non si può neanche escludere».
«No, non si può escludere» concordò Sauer. «Perciò la portiamo dentro, la consegniamo al prossimo turno e caldeggiamo l’apertura di un’inchiesta».
Treffl annuì soddisfatto. «Noi abbiamo finito, quindi?»
Sauer si guardò intorno un’ultima volta. «Nell’appartamento sì. Metti i sigilli e fai il giro dei vicini. Le solite domande: se lo conoscevano, se hanno sentito uno sparo, i loro alibi…»
Il sergente fece una faccia inequivocabile.
«Te la cavi in un’ora, vedrai» disse Mutti. «Poi sei libero di andare al Wies’n.»
Treffl serrò la mandibola e annuì poco convinto.
Tornarono dalla ragazza, le spiegarono quello che sarebbe successo. Lei non ebbe alcuna reazione. Si alzò in piedi docilmente, docilmente li seguì fuori dall’appartamento – non senza aver lanciato un ultimo sguardo verso il bagno –, poi scese le scale, camminò con i due commissari fino all’auto e lì si lasciò infilare sul sedile posteriore sotto lo sguardo indifferente di alcuni ragazzini sporchi che giocavano in strada. Di nuovo: ordinaria amministrazione.
Fu mettendole le manette che Mutti notò i lividi.
«Siggi» chiamò con tono basso, e reintascando le manette le scoprì gli avambracci.
«Santo cielo» disse Sauer. Allungò una mano ad afferrare il braccio destro della ragazza, lo ruotò lentamente. Da appena sopra i polsi e su fino ai gomiti si alternavano lividi di diverso colore ed estensione, a decine, alcuni recentissimi e altri più vecchi, testimoniati da ghirlande di capillari rotti.
I due commissari si incupirono.
«Chi è stato?» chiese Mutti, ma Katarina Kirasch non rispose. Lo guardò dritto negli occhi, il velo delle lacrime recenti che rendeva lo spettacolo quasi insopportabile. «Qualcuno ti ha fatto quei lividi. Qualcuno di vicino a te. Hai un fidanzato? Un amico? Un amante?»
La ragazza non rispose.
Sauer si forzò a fare qualcosa che normalmente avrebbe evitato: allungò una mano verso i capelli della ragazza, li scostò per scoprire il collo. Lividi scuri come macchie d’inchiostro si allargavano verso le spalle. «Santo cielo» ripeté. La ragazza era stata picchiata, spesso, con metodo, e solo dove non potesse essere notato a prima vista.
«Chi è stato?» chiese di nuovo Mutti.
La ragazza non rispose.
I due commissari si guardarono, concordando in silenzio che non c’era nulla da fare: se la vittima non parlava, non esistevano abusi. Soltanto il sospetto, e con un sospetto non sarebbero andati da nessuna parte. Con un sospetto di abusi e un anno e mezzo di stipendi in refurtiva, Katarina Kirasch rimaneva una ladra, e forse un’assassina. Forse…
L’intuizione arrivò di soppiatto, non annunciata. Sauer ebbe quel brivido noto tra le scapole, come quando una sinfonia si innalza improvvisa, o una poesia si chiude sul verso perfetto, e d’un tratto seppe cos’era successo. D’un tratto capì cosa aveva davanti.
Si chinò per allineare i suoi occhi a quelli di lei.
«Ti picchiava» le disse con dolcezza. «Tuo fratello.»
Non era una domanda, ma un’affermazione, per cui, di nuovo, non ci fu alcuna risposta. La reazione della ragazza, però, fu più che sufficiente: le lacrime, che le avevano bruciato e poi incrostato le guance, e che ancora un istante prima sembravano pronte a riprendere, evaporarono d’un tratto, lasciandola con occhi asciutti e duri come sassi.
«Era tuo fratello a picchiarti» riprese Sauer. «Ti costringeva a rubare, è così? E tu obbedivi.»
Di nuovo quel brivido di riconoscimento, di nuovo il suono quadrato della verità, mentre la gola le si contraeva, la mandibola serrata come una morsa.
Sauer si voltò verso Mutti, che aveva l’espressione del padre di famiglia di fronte a un’orfana randagia incontrata per strada.
Vecchio sentimentale.
Tornò a parlare alla ragazza. «Sei stata tu a ucciderlo?»
Lei aggrottò la fronte e scosse la testa con decisione, più volte. «Io no. No. Non lo avrei mai…»
«Non lo avresti mai fatto» disse Sauer, comprensivo. «Sì, è sempre così. Lui ti picchiava, ma tu gli volevi bene. Gli volevi bene lo stesso.»
A quelle parole le lacrime tornarono negli occhi di Katarina Kirasch, potenti, irrefrenabili. Sopraffatta dal peso evanescente di quelle ultime parole, la ladra scoppiò in singhiozzi profondi, si portò le mani al viso. Il suo vestito rosso brillante si riempì di macchie scure, color sangue.
Sauer si tirò in piedi. Sospirò. «Andiamo» disse, con voce arrochita. «Dobbiamo portarla in commissariato.»
Mutti annuì, incapace di dire altro. Chiuse la portiera, si sedette dietro il volante, mise in moto.
Questa volta il tragitto fu molto più lento, e non perché il traffico fosse aumentato. L’automobile era appesantita da una terza passeggera, e dai pensieri dei due commissari, Mutti concentrato sulla strada, Sauer con gli occhi oltre il finestrino, a cercare le stelle alte sul buio della sera autunnale. Ma Monaco era una città di industrie, e l’Oktoberfest poco lontano brillava di un milione di luci. Niente stelle a guidarlo, quella sera. Era solo con se stesso.
L’automobile avanzava nella sera, il silenzio nell’abitacolo ritmato dai singulti deboli e sparsi della ladra.
«Accidenti» disse Sauer a un certo punto, quando il centro della città era ormai prossimo.
«Che succede?» chiese Mutti, risvegliato dal suo torpore.
«Di nuovo quei giramenti di testa» rispose il commissario portandosi una mano alla tempia.
«Oh» fece l’altro, con tono interrogativo. Si voltò a guardare l’amico, che lo fissò in silenzio per lunghi secondi. Quando infine capì, Mutti ripeté soltanto: «Oh».
«Già. Sono anche svenuto, la settimana scorsa. Te l’ho detto, ricordi?»
«Sì sì. Mi ricordo, certo.»
Sauer si massaggiò la fronte e la nuca. «Dovrei prendermi qualche giorno di permesso.»
«Parlare con un medico» rilanciò Mutti.
«Lo sai che odio i medici.»
«Sì, ma quei capogiri improvvisi… Quegli svenimenti…»
Sauer annuì. «Hai ragione. Dovrei proprio fare qualcosa.»
Altro silenzio. La ragazza sul sedile posteriore non piangeva più, non fiatava nemmeno. L’automobile superò l’Angelo della Pace e imboccò la discesa che da Prinzregentenstrasse conduceva al fiume Isar.
«Accosta alla prima farmacia, ti spiace?» chiese Sauer.
«Adesso? Non stai bene?»
«Ce n’è una lì, guarda. Accosta, per favore.»
Mutti obbedì, tagliando la strada a un tram e arrestandosi di colpo davanti alla vetrina con la croce e il caduceo. «Ti prendo qualcosa?»
«Un tonico. O qualsiasi cosa per la pressione, ma che funzioni in fretta.»
«D’accordo» disse Mutti, preoccupato. Scese dall’auto e lanciò un’occhiata alla ragazza, che se ne stava muta e immobile al suo posto. La sua portiera non era chiusa a chiave – una dimenticanza – ma ora c’era fretta. Il tonico per Siggi. «Vado» disse, e con due passi entrò in farmacia.
Passarono pochi secondi prima che Sauer avesse un nuovo capogiro, più violento di prima. La ragazza lo vide ondeggiare, portarsi entrambe le mani alla testa, poi piegarsi di scatto in avanti. «Ah!» rantolò il commissario, e dopo aver ondeggiato ancora sbatté la testa contro il vetro del finestrino e svenne.
«Oddio!» gridò la ragazza. Si piegò verso il sedile di Sauer. «Commissario! Commissario, mi sente? Sta bene?»
Avrebbe voluto raggiungerlo, afferrarlo, scuoterlo, ma i sedili anteriori erano separati da quelli posteriori da una barriera insuperabile. «Mi sente? Commissario, si svegli!» gridava, e intanto si guardava intorno, ma l’altro commissario non tornava. «Aiuto!» urlò allora. «Aiuto!»
A quel richiamo Sauer aprì gli occhi, si voltò verso la ragazza. «Shh! Cosa chiami "Aiuto"?» disse. «Qui l’unica ad averne bisogno sei tu.»
La ladra rimase senza fiato, la bocca mezza aperta, gli occhi sorpresi.
«Vai» le sussurrò Sauer. «Apri la portiera e scappa. Non avrai altre occasioni.» Poi tornò a chiudere gli occhi, la testa piegata all’indietro come se avesse perso i sensi.
Un istante per capire, un istante per elaborare, poi una scossa elettrica attraversò Katarina Kirasch dalla testa ai piedi, rianimandola. Allora allungò le braccia ricoperte di lividi verso la leva della portiera, la tirò, scese dall’auto e con passo rapido, senza mai guardarsi indietro, scomparì nel primo vicolo, confondendosi con la città.
«Come sarebbe a dire, è scappata?» chiese il direttore Tenner, guardando Sauer e Mutti con espressione sconcertata.
«Colpa mia» disse Sauer. «Sono svenuto.»
«Sei svenuto.»
«Ho dei capogiri, da qualche tempo. Mi sono sentito male mentre tornavamo dalla scena del delitto. Mutti è sceso a prendermi qualcosa in farmacia. Io sono rimasto solo con la ragazza, ma poi ho perso i sensi…»
«E la portiera era aperta?» chiese Tenner, incredulo.
Silenzio nell’ufficio, il camino che ruggiva come sempre, da gennaio a dicembre, sulla parete più lontana.
«Io non so cosa dire» sbottò il direttore. Si alzò in piedi, una rabbia improvvisa che gli ribolliva dentro, pronta a esondare. «Avete perso come due allocchi – come due allocchi! – una ladra conclamata, sospettata di omicidio!».
«Be’, capo» si intromise Mutti. «Sull’omicidio non ci sono più dubbi, in realtà: è stato un vicino di casa, un certo Armin. Voleva i gioielli nascosti nell’appartamento, solo che Kirasch si è rifiutato di…».
«Due allocchi!» tuonò Tenner. «E se non foste che siete gli uomini migliori che ho…».
«Nonché gli unici per tutto il fine settimana…».
«… vi manderei a ripulire il Wies’n con uno spazzolino!».
Un ciocco di legna franò nel camino, spandendo tutto intorno un nugolo di scintille.
«Mi dispiace» disse Sauer, fingendo il tono più contrito che gli riuscì. «Non so cosa mi succede. Forse dovrei prendermi un periodo di permesso. Parlare con un medico».
«Sarà meglio!» rispose Tenner, tenendo a bada la rabbia con fatica. «Sarà meglio! E ora fuori da qui, prima che decida di mandarvi in giro per la città con al collo la scritta “SIAMO DUE ALLOCCHI”…».
I commissari uscirono rapidi dall’ufficio. Solo una volta fuori si guardarono in faccia. Mutti nascondeva a stento un sorriso. Sauer era sereno come poche volte nell’ultimo anno.
«Abbiamo fatto bene, vero?» disse il commissario aggiunto quando furono abbastanza lontani da non essere uditi.
«Fatto cosa?» rispose Sauer, un’espressione innocente sul volto.
Mutti annuì tra sé. «Abbiamo fatto bene» ripeté a mezza voce. Poi, mentre scendevano le scale verso l’atrio, pronti a pranzare come sempre nella succursale: «Sai cosa, però? Oggi il pranzo dovrai offrirlo tu. Non trovo più il mio portafogli…».
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