Indipendenti, laiche, di quartiere: le Cucine popolari di Bologna ci parlano di come il cibo può essere uno strumento per prendersi cura della collettività
La giornata inizia presto alle Cucine popolari. Alle sette e mezzo parto con Moreno per il quotidiano giro di raccolta. Moreno Labanti ha 74 anni, dice di essere uno di quelli che non appare mai nelle foto e che preferisce questo servizio solitario, magari non il più appariscente ma allo stesso modo essenziale. Fare il volontario lo fa sentire vivo, mi racconta.
Entriamo e usciamo dai supermercati con frutta, verdura e una quantità imponente di prodotti da forno cotti il giorno prima che, altrimenti, andrebbero buttati. Alla fine, in poco più di due ore, abbiamo raccolto una trentina di chili di cibo, «E questo è un giorno scarico», aggiunge Moreno mentre arriviamo in via del Battiferro, dove si trova la prima sede delle Cucine ad avere aperto nel 2015.
Ad aspettarci c’è Roberta Muratori, fra le volontarie che si occupano del magazzino e organizzano il cibo in base alla scadenza e alla quantità.
L’ideazione dei menù parte da questa stanza piena di frigoriferi e cassette. Ogni gruppo di cucina si ritrova il pomeriggio prima del turno, valuta gli ingredienti a disposizione e inventa le portate, tenendo sempre uno spazio aperto per le novità last minute e i regimi alimentari.
«Era rimasto del salmone, ma era poco per pensare di distribuirlo, quindi l’ho aggiunto alla pasta», mi sussurra Maurizia Pasini, responsabile della cucina e regina di rosette e lasagne per le serate di raccolta fondi. Insieme a lei ci sono altre sette persone tutte impegnate a cucinare, lavare le stoviglie, tagliare il necessario per i soffritti. In sala, invece, si stanno preparando all’asporto che comincia intorno alle 10:30. Sono appena le 9:30, ma, fuori, c’è già la fila.
Per tutti e per tutte
Le Cucine popolari nascono da una proposta di Roberto Morgantini, ex sindacalista e vicepresidente di Piazza Grande, onlus bolognese che si occupa di accoglienza da trent’anni. L’idea alla base delle Cucine è apparentemente semplice: dare a ogni quartiere di Bologna un luogo in cui persone sole o in difficoltà possano ritrovarsi per consumare un pasto collettivo gratuitamente. Sin da subito il problema è, però, trovare i soldi necessari.
Morgantini e la sua compagna Elvira Segreto escogitano, così, una raccolta fondi inedita, a loro modo romantica: dopo 38 anni insieme decidono di sposarsi, chiedendo non regali ma donazioni per il progetto. Servono almeno 20mila euro per aprire la prima cucina ma, alla fine, ne raccolgono 70mila.
«Il progetto delle Cucine l’avevo in testa già da quando al ristorante Napoleone, per l’Epifania, si organizzava un pranzo insieme a Lucio Dalla per le persone in difficoltà», racconta Morgantini, «Abbiamo cominciato a dargli forma, trovato i volontari, i cuochi, il posto adatto, era tutto pronto ma non c’erano i soldi. Non volevamo cominciare e poi chiudere dopo un mese, volevamo creare un percorso che durasse. Potevamo fermarci a una cucina ma ci siamo detti che avremmo dovuto lavorare per aprirne una in ogni quartiere e continuare a fornire un servizio alle persone, per fare da antenna nei quartieri, collaborando con i servizi del comune». Così, in meno di dieci anni, le Cucine sono diventate quattro con una rete di più di 300 volontari che, dal lunedì al venerdì, dedicano il loro tempo per preparare e servire oltre 600 pasti ogni giorno.
Cucinare il buono
Si respira un clima familiare all’interno delle Cucine. È una cosa che avverti nelle stanze delle sedi, è un’attenzione che, dalle persone, si trasferisce nei piatti, anche in quelli più semplici. È cura reciproca, che passa dal cibo e crea affetto e legami, dentro e fuori l’associazione. Mentre prepariamo tre tipi di pasta (in bianco, al ragù di tonno e al pomodoro) per l’asporto, Maurizia mi spiega come arrotolare gli spaghetti in modo che, nella confezione, risultino più belli.
Che non è una mise en place particolarmente complicata ma è un piccolo gesto per trasmettere vicinanza e calore: «Fare da mangiare qui non è solo fare un servizio utile. Basterebbe preparare una pasta sempre uguale e, poi, andare via», mi dice Maurizia, «Invece fare attenzione ai gusti degli ospiti, ai loro regimi alimentari, ideare sempre nuove ricette e renderle più invitanti vale ancora di più. Per chi viene qui, per noi che lo facciamo».
In sala comincia il servizio di asporto. Le persone, segnalate dalle associazioni di quartiere e dai servizi sociali, accedono identificandosi ai volontari addetti all’accoglienza. Marinella Verni, davanti a me, presenta con il sorriso la pasta che abbiamo preparato, poi i secondi. C’è spazio per i dolci, il pane e la frutta di stagione «che fa sempre bene» dice a un signore sulla quarantina. Nelle retrovie tagliamo i panettoni, puliamo per terra, selezioniamo e dividiamo il cibo.
C’è chi è in silenzio, chi parla, chi chiede qualcosa in più, chi dice va bene così. Non c’è giudizio ma comprensione. «Chi aiuta arriva già motivato. Si forma uno scambio reciproco e, in alcuni casi, gli ospiti che stanno un po’ meglio diventano volontari a loro volta», spiega Morgantini, «Credo che ognuno di noi abbia dentro una quota di solidarietà ma bisogna dargli un nome per poterla investire. Per me ha sempre significato questo, essere a contatto con le persone. Per rimanere aperti ci servono almeno 350mila euro l’anno, che recuperiamo tramite donazioni, raccolte fondi e iniziative. Vuol dire, soprattutto, darsi da fare ogni giorno, perché un conto è teorizzare la povertà, un altro viverla ogni giorno e forse questo, anche a sinistra, è stato lasciato da parte troppo presto».
Come un pranzo di famiglia
Gli ospiti per il pranzo, intanto, si riuniscono attorno ai tavoli comuni in fondo al salone. Saranno in trenta a sedersi, ci sono coppie e persone sole, chi vive per strada, chi ha perso il lavoro. Davanti a loro ci sono posate in metallo e i piatti di porcellana, un segno fortemente voluto dalle Cucine per creare un ambiente più confortevole: «Abbiamo voluto chiamarle Cucine e non mense perché volevamo che fossero un luogo in cui le persone potessero trovarsi non solo per consumare un pasto ma, anche, socializzare. Non tutte le persone che accogliamo hanno difficoltà economiche questo perché, l’altra faccia della medaglia della povertà è la solitudine», mi confida Morgantini.
Il turno si conclude intorno alle 14 ma la cucina è ancora attiva. Arriva il gruppo del giorno dopo, gli altri preparano il pasto di fine servizio. Ci si riunisce avvicinando tutti i tavoli, creandone uno unico e grandissimo. Ci si riposa, si discute di politica e di esperienze, di com’è andata la giornata.
Ognuno serve l’altro. Mi chiedono se ho assaggiato la pasta, se prenderò la macedonia, Marco Bonfiglioli accanto a me ha passato la mattinata a lavare i piatti e mi chiede sorridendo se è andato tutto bene e poi aggiunge: «Venire qua, dopo quarant’anni da operaio, mi fa sentire bene, perché siamo tutti pari». Volontari, ospiti e organizzatori. Popolare è collettivo, popolare è prendersi cura ognuno degli altri e delle altre anche solo con un piatto di pasta.
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