Pubblichiamo di seguito un estratto di “Inappropriabili – Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979)” di Annalisa Sacchi, Marsilio. Il libro esce il 6 settembre e lo stesso giorno verrà presentato, alle 18 presso La Pelanda – Tettoia a Roma, all’interno della 19a edizione di Short Theatre 


Nel luglio del 1959 un ventiduenne Carmelo Bene, insieme all’amico Alberto Ruggiero, riesce a ottenere un incontro con Albert Camus. Lo scrittore era all’epoca, con Sartre e contro Sartre, l’intellettuale verosimilmente più influente d’Europa, insignito, due anni prima, del Nobel per la letteratura.

Quell’estate si trovava a Venezia perché, alla Fenice, andava in scena un suo adattamento dei Demoni di Dostoevskji, di cui aveva curato anche la regia. La passione per la scena, in Camus, era del resto tutt’altro che avventizia, e risaliva alla sua giovinezza d’attore e di fondatore del Théâtre du Travail, una formazione di teatro popolare e marxista, poi trasformata nel Théâtre de l’Equipe, ad Algeri, dopo la rottura di Camus col Partito comunista francese.

André Malraux, divenuto ministro della Cultura in quello stesso 1959, gli avrebbe proposto di lì a poco la guida della Comédie-Française, esperienza che non ebbe principio perché Camus morì nel 1960 in un incidente d’auto.

Il Camus che Bene avvicina all’ingresso artisti della Fenice è dunque, oltre che un autore celeberrimo («un mito, in assoluto lo scrittore più letto», ricorderà Bene), anche un uomo di scena, con solide preferenze e idiosincrasie. Aveva sospeso, ad esempio, la concessione dei diritti del suo Caligola in seguito a una rappresentazione milanese che l’aveva particolarmente sconcertato. (…)

Bene e Ruggiero, dopo quella prima imboscata davanti alla Fenice, presero appuntamento con lo scrittore in piazza San Marco, al Florian. La conversazione che ebbero con Camus guadagnò loro quell’assenso che era stato negato persino a Laurence Olivier, in particolare grazie al fatto che Bene avrebbe interpretato Caligola, in qualche modo doppiando l’intuizione felice del debutto parigino con un giovanissimo Gérard Philipe. Alla prima, al Teatro delle Arti di Roma, ci fu il tutto esaurito. (…)

Nel teatro di Camus la relazione tra intelligenza e azione, il mandato politico dell’arte e il ruolo di guida dell’intellettuale sono riconducibili a una questione più vasta, che galvanizzò l’intellighenzia europea a partire dal 1951, l’anno che vede le stampe del suo L’uomo in rivolta.

La tesi centrale di Camus consisteva nella convinzione che solo ribellandosi sia possibile dare senso a un’esistenza: la posta in gioco è la libertà individuale, compromessa in maniera irreversibile quando il rivoltoso decide si sottomettersi alla rivoluzione. Per Camus è poi la radicale autonomia espressa dall’uomo che si rivolta l’unica a poter garantire agli altri una libertà altrettanto piena: «Io mi rivolto dunque noi siamo», è il senso decisivo e la formula definitiva in cui viene a essere ricapitolato il suo pensiero.

Per contro Sartre, nello stesso periodo, è convinto che solo la rivoluzione marxista-leninista guidata dal Partito possa offrire all’uomo la piena libertà. Sartre predica la necessità per l’intellettuale di portare il suo specifico contributo alla Rivoluzione e pratica in questi anni un compagnonnage critique nei confronti dello stalinismo. Quello di Camus – con la sua analisi antistorica e antitotalitaria del comunismo sovietico – parve dunque un oltraggio all’ortodossia marxista tale da far insorgere il gruppo di intellettuali schierati con Sartre.

L’assalto sartriano su Les temps modernes, la rivista di cui era il fondatore, avvenne su procura e fu firmato da Francis Jeanson. Camus fu accusato d’essere un’anima bella, di professare un principio di inanità nei confronti dell’insurrezione degli oppressi: il suo uomo in rivolta fu definito un solitario, incapace di socializzare il suo moto di rifiuto (…).

La replica di Camus non si fece attendere e venne pubblicata sulla stessa rivista da cui era partito l’attacco. Camus rispose direttamente a Sartre, scrivendo tra l’altro: «Se si ritiene che il socialismo autoritario sia la principale esperienza rivoluzionaria dei nostri tempi mi pare comunque difficile non mettersi in regola con il terrore che esso presuppone proprio oggi o, per esempio, sempre per rimanere sul piano della realtà, con il dato concentrazionario (…) La verità è che il suo collaboratore (si riferisce a Jeanson ndr) vorrebbe che ci si rivoltasse contro tutto, tranne che contro il partito e lo stato comunista. È sì favorevole alla rivolta; e come potrebbe non esserlo nelle condizioni che gli pone la sua filosofia? Ma è attirato dalla rivolta che assume la forma storica più dispotica» e conclude: «Sembra essere d’accordo con una dottrina per poi tacere sulla politica che essa comporta».

Quando Bene incontra Camus il quadro geopolitico, rispetto alla situazione in cui si era svolta la polemica con Sartre sette anni prima, appariva profondamente trasformato: Stalin era morto, l’Armata rossa aveva invaso l’Ungheria e le lotte anticoloniali che avevano portato all’indipendenza della Tunisia e del Marocco stavano infiammando l’Algeria.

Camus era nato e cresciuto in Algeria, e propendeva per una soluzione collaborativa con la Francia, lontana dunque dall’istanza di piena indipendenza per cui lottava il Fronte di liberazione nazionale per cui parteggiava Sartre e in cui militava Franz Fanon.

Il funerale della Cosa

Nel 1960, la guerra d’indipendenza algerina brucia intanto in un altro evento che si svolge ancora a Venezia e che registra quello che è considerato il primo happening europeo. La Galleria al Canale ospita la seconda manifestazione dell’Anti-Procès, «atto collettivo d’opposizione», organizzato da Jean-Jacques Lebel e Alain Jouffroy, al quale partecipano decine di artisti, musicisti e poeti.

Il processo cui l’evento si oppone programmaticamente dal titolo è quello alla Rete Jeanson, fondata da quello stesso Francis Jeanson, collaboratore di Sartre, che aveva attaccato Camus sulle pagine di Les temps modernes. I membri della Rete, militanti francesi sostenitori del Fln algerino, erano stati sottoposti a processo per tradimento.

L’Anti-Procès, come il Manifesto dei 121: Dichiarazione dei diritti di insubordinazione della guerra d’Algeria, insorgeva contro l’accusa e si schierava decisamente a fianco della lotta anticoloniale, denunciando tra l’altro il ricorso sistematico alla tortura da parte dei militari francesi.

Lebel aveva iniziato la sua insubordinazione contro la guerra d’Algeria appena ventenne, quando aveva abbandonato la Francia per trasferirsi in Italia, e qui aveva preso a pubblicare una rivista di arte, poesia e politica, Front Unique (1956-1960), a Firenze.

Lebel sostiene che l’arte debba essere pienamente e fondamentalmente contro tutti i regimi e le forme di coercizione, ma soprattutto contro coloro che la piegano ai loro fini: «A questa concezione mercantile, controllata dallo stato, opponiamo un’arte combattente, pienamente consapevole delle sue prerogative, un’arte che non si sottrae dal dichiarare la propria posizione, dall’azione diretta, dalla trasmutazione».

Il vernissage veneziano porta la data emblematica del 14 luglio e segna la storia dell’happening con un’azione intitolata Enterrement de la Chose de Tinguely. Si trattava di un funerale simbolico, con letture di Sade e Huysmans, in cui il feretro della “Cosa”, una scultura dell’artista svizzero Tinguely esposta nello stesso evento, veniva prima vegliato, poi caricato su una gondola e accompagnato con un piccolo corteo acquatico di imbarcazioni messe a disposizione da Peggy Guggenheim fino all’isola di San Giorgio Maggiore, dove veniva gettato in acqua. Il pubblico era considerato parte integrante dell’evento sin dall’invito, in cui veniva indicato di vestire abiti formali e appropriati alla cerimonia funebre.

Con questa sepoltura dell’oggetto Lebel dichiarava l’«abolizione del diritto di speculare su un valore commerciale arbitrario e artificiale, attribuito, non si sa come, a un’opera», insieme anche all’«abolizione del privilegio di sfruttare artisti intellettualmente “sanguinanti” per appropriazioni di volgari intermediari e mediatori che detestano l’arte».

Nell’happening, per definizione inappropriabile, Lebel proclamava così il primato dell’azione come immediato sovvertimento dall’espropriazione a fini economici della creatività artistica, e della «aberrante relazione soggetto/oggetto» dominante nell’arte moderna.

L’happening era dedicato a Nina Thoeren, giovane artista e amica di Lebel, che pochi giorni prima era stata violentata e uccisa a Los Angeles.

Nell’Enterrement si compiva dunque un funerale a un tempo polemico e straziante, e una rivolta contro la violenza coloniale, il mercato artistico e la cultura stupratoria.


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