- Oltre che per tipologia di fonti a disposizione, a suggerire l’opportunità di uno studio della Resistenza che tenga ben presente la dimensione regionale o locale è la necessità di evidenziarne il carattere plurimo e diversificato.
- Un carattere che muta, nel tempo e nello spazio, se si considera che non tutto il territorio nazionale è stato liberato nello stesso momento e che molte regioni italiane hanno conosciuto quella che è stata definita una “Resistenza breve”.
- Il testo fa parte del numero speciale di Dopodomani dedicato al 25 aprile, in edicola e in digitale da sabato 22 aprile.
Gli studi sull’antifascismo e sulla Resistenza scontano talvolta in Italia il limite di non ragionare in chiave transnazionale guardando a un fenomeno che è stato invece capace di travalicare le frontiere dei singoli stati e far circolare persone e idee. Così come Robert Gildea ha evidenziato l’apporto dato dal «sangue degli altri» nel maquis francese, la storiografia più recente, spostando un simile approccio alla Resistenza italiana, ha evidenziato il ruolo dei combattenti non italiani (sovietici, polacchi, ex prigionieri alleati, ma anche tedeschi, come Iara Meloni, Mirco Carrattieri e Carlo Greppi ci hanno dimostrato), arricchendo il quadro. Fatta questa premessa, è indubbio però che lo studio della Resistenza si sostanzia guardando al contesto micro in primo luogo.
Dimensione locale
Lo dimostrano le molte ricerche che si approcciano alla ricostruzione delle vicende dei territori e delle singole formazioni partigiane, spesso giovandosi del prezioso lavoro di raccolta fonti e memorie realizzato a livello provinciale e regionale dagli Istituti storici della Resistenza. Molte fonti, del resto, hanno questa origine.
Ad esempio, regionali erano le commissioni per il riconoscimento dell’attività partigiana che, al termine del conflitto, al fine di assegnare riconoscimenti e ricompense, hanno giudicato l’attività svolta dai singoli combattenti. Allo stesso modo, la dimensione locale è prevalsa fra le opere di taglio celebrativo che nel dopoguerra hanno contribuito a strutturare quel “mito” della resistenza armata che a lungo ha caratterizzato la rappresentazione della Resistenza italiana nel discorso pubblico.
Oltre che per tipologia di fonti a disposizione, a suggerire l’opportunità di uno studio della Resistenza che tenga ben presente la dimensione regionale o locale è anche la necessità di evidenziarne il carattere plurimo e diversificato. Un carattere che muta, nel tempo e nello spazio, se si considera che non tutto il territorio nazionale è stato liberato nello stesso momento e che molte regioni italiane hanno conosciuto quella che è stata definita una “Resistenza breve”, caratterizzata sul nascere da livelli di organizzazione meno articolati, e che molte formazioni partigiane non avevano avuto il tempo di strutturarsi maggiormente.
Le prime formazioni
Lo studio dei primi momenti è interessante per comprendere meglio la nascita di quel movimento partigiano a cui siamo abituati a pensare guardando soprattutto al suo esito finale e alla Liberazione del nord Italia, con le formazioni inquadrate militarmente che scendono dalle montagne e sfilano in città.
Senza poter qui affrontare l’interessante tema della Resistenza nel sud Italia, che molti studiosi stanno evidenziando, fra loro Isabella Insolvibile, per ribadire che la Resistenza è stata fenomeno “nazionale”, pur coi diversi tempi dell’occupazione e della liberazione, e senza potersi dilungare sulle complesse vicende del confine orientale italiano, dove la Resistenza si è precocemente avviata grazie al rapporto con le formazioni comuniste jugoslave, è opportuno però riflettere sul come ai suoi inizi il fenomeno abbia avuto caratteristiche differenti, rispetto a quell’immagine stereotipata, persino nel centro Italia.
Le prime formazioni, meno numerose e meno compatte, politicamente e dal punto di vista dell’organizzazione militare, erano legate alle realtà locali, raccoglievano giovani renitenti alla leva e sbandati dell’esercito, di frequente aggregatisi intorno a qualche antifascista nelle macchie o nei boschi vicini ai paesi, o ai poderi, laddove la realtà del territorio si strutturava secondo le forme della mezzadria e piccola proprietà contadina diffusa.
Questi embrioni di bande che si costituiscono dopo l’8 settembre 1943 devono affrontare nel loro primo inverno molti problemi immediati, in primis quello dell’approvvigionamento di armi. Ne è derivata la peculiare tipologia di azioni che le ha caratterizzate nelle fasi iniziali: la preponderanza del sabotaggio a strade e infrastrutture rispetto agli attacchi propriamente militari, o l’alto numero di assalti alle caserme della Guardia nazionale repubblicana finalizzati al reperimento di munizioni e fucili.
La debolezza strutturale di queste formazioni, spesso ancora non avvezze a predisporre la vigilanza agli accampamenti, le ha rese sovente vittime dei rastrellamenti fascisti. Siamo ancora lontani da quelle ambizioni militari che nella primavera-estate del 1944 hanno portato alla creazione delle repubbliche partigiane, come ad esempio quella di Montefiorino, o alla futura scelta dell’insurrezione.
Guardare alle fasi iniziali della Resistenza italiana dal punto di vista della sua efficacia nel contendere il controllo del territorio alla Rsi pone comunque utilmente all’attenzione il tema della tendenza al presidio dei luoghi, naturale per formazioni composte da elementi locali che avevano fra i propri obiettivi politici anche quello della difesa delle proprie comunità.
D’altro canto, prestare interesse a come la ritirata dell’esercito tedesco impatti diversamente nel tempo e nello spazio sulle popolazioni locali rappresenta un ambito in cui gli studi locali ci consentono di dare risposte interpretative più ampie: le molte ricerche sull’impennata di violenza dell’estate di sangue del 1944 hanno permesso di specificare i caratteri della ritirata aggressiva tedesca, che con la sua logica spietata è stata alla base delle terribili stragi in Toscana ed Emilia Romagna (un database nazionale, l’Atlante delle stragi nazifasciste, progetto collettivo della rete degli istituti della Resistenza, offre oggi un quadro nazionale di riferimento). Per quel che qui interessa, delineare con attenzione l’impatto di quelle pratiche repressive sulle comunità locali ci permette di cogliere le fasi di passaggio da una resistenza istintiva a forme più organizzate di una consapevole azione antitedesca e antifascista.
Resistenza e società
Concentrarsi sui territori significa, dunque, anche poter analizzare in dettaglio il tema del rapporto fra Resistenza e società. Un rapporto che cambia in base al contesto sociale, alla morfologia dei luoghi; che si sostanzia delle reti locali di relazioni fra gli individui.
Senza entrare nel dibattito storiografico sulla coscienza di sé espressa dai contadini nelle varie fasi della storia d’Italia (ma non potendo non citare almeno Nuto Revelli e la sua determinazione nel dar loro una voce), occorre riflettere su come il mondo delle campagne si è relazionato a quello dei partigiani. Per farlo è necessario notare che i due mondi in parte collimavano.
I giovani renitenti che ingrossavano le file delle bande partigiane, infatti, spesso altri non erano che i figli dei contadini vessati dal regime e che contro di esso covavano un sentimento di lontananza ancestrale; le testimonianze della Liberazione dei piccoli paesi spesso narrano questo momento proprio sottolineando la gioia per il rientro dei “figli” nella comunità.
In questo senso, si possono comprendere meglio le manifestazioni di ostilità della popolazione contro la propaganda per l’arruolamento nella Rsi e le rivolte contro gli arresti e le fucilazioni di renitenti avviate dai bandi di reclutamento della primavera del 1944, fenomeni spontanei che hanno costellato quasi tutta la penisola. O si può ridimensionare il luogo comune dei partigiani come «rubagalline» analizzato recentemente e criticamente da Chiara Colombini, col cogliere le implicazioni complesse, diverse da zona a zona, del “costo” del sostentamento alimentare delle bande per le popolazioni.
Questioni interpretative non semplici, che allargano la visuale all’antifascismo esistenziale, a quel vissuto “altro” rispetto al regime descritto da Paul Corner come un antagonismo «che procede all’interno delle comunità», sia in verticale, come trasmissione generazionale, sia in orizzontale, attraverso reti di relazione parentali o amicali. Un vissuto che può aiutarci a comprendere nei diversi territori non soltanto il livello di adesione alla Resistenza armata, ma anche il grado di coinvolgimento della popolazione nel sostegno alle bande, declinato attraverso le varie forme della Resistenza civile. Altro aspetto, fra i molti, su cui i territori hanno avuto e hanno ancora molto da raccontare.
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