- La resistenza degli ebrei durante la Shoah, per certi aspetti è un tema eretico, perché va contro il paradigma vittimale a cui ancora oggi sottoponiamo gli ebrei.
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È stato soprattutto il grande storico israeliano Yehuda Bauer a rileggere il paradigma di cosa è stata la resistenza ebraica e chi sono stati i resistenti ebrei. Per Bauer il concetto di Resistenza, in una condizione come quella della Shoah, non poteva essere relegato negli angusti confini della Resistenza armata.
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Bauer fa rientrare nelle forme di Resistenza anche i gesti di solidarietà tra ebrei, come pure le attività socio-assistenziali finalizzate a contrastare inedia e abbandono, finanche l’autoaiuto per sfuggire alla morte.
Dieci anni fa, quando ho incominciato a studiare il tema della Resistenza ebraica, pensavo di affrontare un tema interessante, importante, ma mano a mano che approfondivo l’argomento mi sono accorto di avvicinarmi a qualcosa di ancor più significativo di quello che mi aspettavo, un modo inedito di concepire e rappresentare la Shoah.
La resistenza degli ebrei durante la Shoah, per certi aspetti è un tema eretico, perché va contro il paradigma vittimale a cui ancora oggi sottoponiamo gli ebrei e che ci permette di autoassolverci dalle responsabilità che abbiamo nei confronti di quest’evento. Tale modello è arrivato a noi quasi indenne grazie a quello che è stato definito come il “mito della passività ebraica”.
L’errore di banalizzare
Prima di discutere il tema resistenziale è necessario premettere un aspetto che a mio avviso ci aiuta a meglio calibrare le successive riflessioni.
La Shoah è un evento centrale nella storia dell’uomo, sia perché la coscienza politico-valoriale di buona parte del mondo si fonda su quel fenomeno sia, e forse ancor più, perché il genocidio degli ebrei d’Europa è diventato il metro di misura di qualsiasi altro accadimento contemporaneo sul tema della libertà e dei diritti. Forse attualmente solo il cambiamento climatico e il Covid sono altrettanto al centro della discussione mondiale.
Un tema così importante, così utilizzato nel dibattito pubblico, nella politica, nella cultura e nella società in generale, è purtroppo invece banalizzato e stereotipato. Questo accade prevalentemente per due motivi, uno esogeno e l’altro endogeno.
Il primo deriva dall’uso strumentale che la politica e i media fanno di questo evento, che lo piegano e lo distorcono a seconda della necessità del momento; il secondo è determinato dal fatto che la Shoah è realmente un crimine molto complesso da concettualizzare, da conoscere in tutte le sue derivazioni e in ultimo da accettare umanamente. Tale situazione porta a semplificare o addirittura addolcire la sua tragicità estrema per renderla più sopportabile.
Tutto questo determina la situazione attuale, una condizione che depotenzia questo fondamentale strumento di formazione della coscienza civile, uno svilimento che accade perché solo pochi ne parlano con reale cognizione di causa. I recenti accadimenti legati al Covid-19 non sono che l’ultima tragica deriva di questo uso sconsiderato e incompetente della Shoah.
Rileggere il paradigma
Lo studio della resistenza ebraica ci obbliga a due azioni fondamentali: la prima a considerare gli ebrei ancora in vita e con la volontà di restarlo, anziché avviati sulla via dell’assassinio dopo indicibili sofferenze; conseguentemente la seconda operazione sarà quella di ampliare la cronologia con cui solitamente viene osservato l’evento, ovvero le più drammatiche fasi finali riguardanti i campi di sterminio. Questo è il modo migliore per abbandonare lo sguardo che ci ha dato Adolf Hitler e con cui ancora oggi noi guardiamo gli ebrei.
Gli ebrei hanno resistito al nazismo come hanno potuto. Se mettiamo in atto le due precedenti azioni riusciamo a focalizzare molto meglio l’evento e le vittime stesse, che non risultano più essere indistinte nelle loro reazioni, e ci possiamo rendere conto che in ogni luogo gli ebrei hanno compiuto atti di resistenza contro il destino, che tra infiniti inganni si stava realizzando verso di loro.
Riusciremmo anche a capire come e perché gli ebrei hanno subito la più feroce aggressione della storia nei confronti di un singolo popolo, una subdola trappola creata dai nazisti senza che essi potessero, o quasi, rendersene conto.
Uno dei luoghi di questa persecuzione, ma anche della resistenza, sono stati i ghetti nazisti, fase spesso meno considerata della Shoah, perché erroneamente creduta un momento di transizione tra il concentramento e lo sterminio. I ghetti hanno avuto l’importante ruolo di fiaccare e confondere gli animi delle grandi comunità ebraiche dell’est.
Come già anticipato, in quei luoghi, talvolta anche prima che nelle foreste bielorusse, lituane e polacche, è nata la resistenza ebraica, in forme diverse e plurali. Si è giunti a questa considerazione qualche decennio dopo la fine delle guerra, solo quando si è consolidata la consapevolezza che la Shoah fosse un crimine “senza precedenti” anche paragonato agli altri genocidi della storia. In base a questa nuova visione i parametri con cui veniva valutata la Shoah dovevano essere rivisti, così anche l’aspetto resistenziale.
È stato soprattutto il grande storico israeliano Yehuda Bauer a rileggere il paradigma di cosa è stata la resistenza ebraica e chi sono stati i resistenti ebrei. Per Bauer il concetto di Resistenza, in una condizione come quella della Shoah, che prevedeva non solo la morte di ogni singolo ebreo ma anche la cancellazione di ogni forma di religione e di cultura ebraica, non poteva essere relegato negli angusti confini della Resistenza armata, ma doveva dunque comprendere un più variegato e dinamico spettro di comportamenti civili o spirituali.
Resistenza spirituale
Egli introduce il concetto di Amidah, che indica la preghiera recitata più volte al giorno stando in posizione eretta, un pilastro della religione ebraica. Bauer utilizza questo concetto per sottolineare l’aspetto di dignità in condizioni estreme e quindi considerare «resistenza» tutte le azioni, di singoli o collettive, che in qualche modo contrastarono o ritardarono la distruzione del popolo ebraico o che temporaneamente ne migliorarono la qualità della vita o comunque ne evitarono un peggioramento.
Un’altra formula utilizzata per definire questo tipo di opposizione non militare è infatti quello di «resistenza spirituale», ovvero il tentativo di vivere una vita che mantenga la propria dignità e umanità e i propri valori fondamentali al di là dalla brutalità e della disumanizzazione del nazismo.
Come conferma il filosofo tedesco-israeliano Emil Fackenheim: «Il mantenimento da parte delle vittime di un briciolo di umanità non è solo la base della Resistenza, ma è già parte di essa. In una tale vita non c’è bisogno di essere santificati, si è già santi».
Un’altra forma di Resistenza analizzata da Bauer, e mutuata direttamente dall’ebraismo, è la kiddush ha hayyim, ovvero la «santificazione della vita», nel senso che ogni atto che «santifica (e protegge) la vita» in un contesto di «morte diffusa ed estrema» è un atto di Resistenza.
Tale assunto è stato promosso da vari rabbini già durante la Shoah, in particolare dal rabbino ortodosso di Varsavia Yitzhak Nissenbaum, il quale fornisce una lettura in chiave storica oltre che etico-religiosa, di questo concetto: «Questo è il tempo per il kiddush ha-hayyim, la santificazione della vita, e non per il kiddush ha-Shem, la santità del martirio», scriveva Nissenbaum dalla Varsavia in fiamme per la rivolta degli ebrei. «In precedenza, il nemico dell’ebreo cercava la sua anima e l’ebreo santificò il suo corpo nel martirio; ora l’oppressore richiede il corpo dell’ebreo, e l’ebreo è quindi costretto a difenderlo, a preservare la sua vita».
Bauer fa rientrare nelle forme di Resistenza anche i gesti di solidarietà tra ebrei, come pure le attività socio-assistenziali finalizzate a contrastare inedia e abbandono, le attività politiche e culturali per migliorare la qualità della vita dei prigionieri, le politiche religiose ed educative per non perdere la propria identità, il contrabbando per avere maggiori quantità di cibo, finanche l’autoaiuto attuato per sfuggire alla morte.
Con questa rinnovata concezione di Resistenza prende corpo una nuova figura di resistente, non più solo esclusivamente il coraggioso combattente partigiano, ma ogni ebreo che sotto qualsiasi forma ha combattuto contro il piano di distruzione messo in atto dai nazisti.
Quindi i genitori e figli che si sono sostenuti a vicenda, il personale scolastico e sanitario che ha proseguito nell’esercizio della propria professione, tutti coloro che hanno continuato a testimoniare quello che stava accadendo, i rabbini che hanno perseverato nella professione dell’ebraismo e gli artisti che non hanno cessato di creare. Questi sono stati i resistenti ebraici che hanno permesso in ogni luogo di portare avanti la vita e la cultura ebraica, anche in quel fatale momento.
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