Prima di morire ha scritto a un amico di aver trovato conforto durante la prigionia in una novella di Čechov: Nel Burrone. Un dramma che ci racconta l’esistenza di una Russia invincibile, intramontabile e libera, quella dei romanzi e della poesia
L’ultima lettera conosciuta di Aleksej Navalny ha agito come un raggio di sole penetrato in una stanza buia, che poi è quello che scrisse Viktor Šklovskij per la poesia di Anna Achmátova: ci ha fatto vedere dove non si vedeva e l’ha fatto con Anton Čechov, dicendoci che tutta la storia russa si appoggia alla letteratura russa, si nutre di quella letteratura, vitalmente, e in un tempo circolare che avvolge ogni gesto.
Mentre l’Occidente muore di autofiction tra vite che poco hanno a che vedere con la Grecia e l’Ecclesiaste, Navalny ci lascia in eredità non la semplice riscoperta dei classici – come potrebbe fare un critico che si lamenta del numero dei lettori in calo –, ma ci mostra i nodi del conforto che solo la scrittura dei classici dà. Trovando consolazione in una novella di Čechov, Nel burrone, scoprendo l’abisso dall’abisso, il dolore dal dolore, l’isolamento dall’isolamento, Navalny diventa letteratura: vita ri-narrata.
Nella sua storia tutto è rimando, essendo il penultimo dei dissidenti. Il penultimo di una lunga fila di oppositori che si snoda nel tempo e tra le pagine, alimentandone la forza. Diventa Varlam Šalamov, mentre scrive le sue lettere a moglie e amici e madre e con la sua testimonianza – inflitta dall’ingiustizia che vive nel potere russo dagli zar a Putin – sta raccontando ancora una volta quello che nessun uomo dovrebbe vedere né sapere. Sta nel buio come Šalamov in compagnia di Čechov non dimenticando che ce l’ha messo Putin.
L’esperienza Čechov
Un cerchio del tempo che ci coinvolge grazie alla letteratura. Dove tutto è abbrutimento e dove – non vista – si esplica, in modo concreto, la corruzione dell’umanità e dove c’è bisogno dello specchio delle pagine per ritrovare la realtà: che manca a Navalny con i suoi spiccioli di stipendio, con i suoi lamenti e le sue banalità. Navalny legge Čechov, lo riscopre e si rivede, e forse non sa che Čechov dopo il suo viaggio a Sachalin – dove scoperchia l’orrore – cambia la sua scrittura, tutto quello che ha scritto prima gli sembra futile, come appare a molti di noi la vita che facciamo mentre leggiamo Navalny in questi giorni. Dovremmo tutti aver fatto quella esperienza cechoviana e aver scritto Nel burrone e invece scriviamo sui social.
Quell’abbrutimento e quella corruzione rimessi in piedi da Putin, come ieri da Stalin, hanno l’intento di distruggere ciò che c’è di buono in Navalny che, però, trovando Čechov, sopravvive, conservandosi, tanto che per annullarlo devono ucciderlo e nasconderlo. Le pagine di Čechov, come la radioattività a Chernobyl, hanno resistito al cemento, ai muri, all’opposizione del Potere e soprattutto al tempo e sono arrivate a dare l’ultimo raggio di luce a Navalny, che ora l’ha dato a noi che ci interroghiamo sull’utilità di Čechov e di quelli come lui, perdendoci il cerchio del rimando e della salvezza.
Che cosa è Lyudmila, la madre di Navalny, quando ne domanda il corpo, se non reincarnazione della Achmátova che chiede del figlio – Lev Gumilëv – rinchiuso nel carcere delle Croci (Kresty) di Leningrado? Dove furono rinchiusi anche Lev Trotsky, Anatolij Lunačarskij, Nikolaj Zabolotskij e Daniil Harms. E il corpo di Navalny – nella sua provvisoria scomparsa – non è a sua volta quello del monaco Zòsima di Fëdor Dostoevskij? Che urla e non marcisce al contrario delle pagine di Dostoevskij. E le sue parole non sono le parole irridenti di Iosif Brodskij di fronte al tribunale che lo accusa di parassitismo o l’irrisione di Sergej Dovlatov che con questo tempo tondo ci gioca mentre va in esilio e non sa che cosa mettere in valigia per aggirare le disposizioni brežneviane?
Le pagine e le vite si annodano e accerchiano Vladimir Putin, i putiniani, Mosca, Pietroburgo, la Siberia e le isole penali come Sakhalin, più della Nato e dell’iperpresenza di Volodymyr Zelensky, in un girotondo asfissiante del dolore che si paga col dolore attraverso la letteratura.
E quando Navalny scrive di aver bisogno della presa sulla realtà e la trova in un tempo vecchio, che persino i suoi carcerieri pensano sia scaduto, quello dei libri di novelle e commedie di Čechov, e per questo fraintendimento non strappano tutte le pagine, ma solo quelle in cui gli pareva di scorgere un rimando al presente, ci sta dicendo che in Russia c’è un’altra Russia invincibile e intramontabile più di quella che spaventa l’Occidente, ed è quella della letteratura: dove c’è lo spazio per essere liberi e per raccontarlo e dove il dolore è un ricordo da passare a chi ne avrà bisogno, magari in un altro paese, in un’altra lingua.
Dove Una giornata di Ivan Denisovič si appoggia a una giornata di Navalny e tiene strette a sé quelle che non ha avuto Anna Politkovskaja ma che ha fatto in tempo a dare a Nina Ivanovna Levurda quando ha scritto, ne La Russia di Putin, della sua ricerca del figlio: il tenente Pavel Levurda – anno di nascita 1975, o meglio numero di matricola U-729343 – morto in Cecenia, e si torna alla madre di Navalny, in un continuo rimando.
Il corpo, i pettegolezzi
Ogni corpo un libro, ogni libro uno schiaffo come si augurava Šalamov con Stalin scrivendo I racconti di Kolyma. È il cerchio del tempo tondo di Mircea Eliade. Dove Vita e destino di Vasilij Grossman con tutte le sue conversazioni contro, su, intorno e persino a favore di Iosif Stalin diventano quelle contro, su, intorno e persino a favore di Putin.
Dove i pettegolezzi che mancano a Navalny in prigione, diventano l’ultimo lembo di vita: quello più effimero eppure mancante, e sono quelli fatti su, intorno e persino a favore di Vladimir Majakovskij che, sparandosi al cuore, aveva chiesto di non farne.
Attraverso le sue lettere possiamo vedere Navalny mentre legge e capisce, e mentre scrive gli galleggiano nella stanza i classici russi, sospesi in area in attesa di essere riscoperti: una scena che potrebbe aver scritto Michail Bulgàkov. Lettera a Varya e giù Pitirim Sorokin, lettera a Julija e giù un altro Čechov, quello de Le nozze, un giro di mazurka sul baratro, da dove scopre venire una frase che sentiva ripetere in casa quando era bimbo: «La Grecia ha tutto», una musica da un tempo lontano, che dilata la sua stanza e lo salva per un attimo.
Anche questa scena è un racconto già scritto, Metraturin di Sigizmund Kržižanovskij, dove c’è un uomo, Sutulin, al quale viene offerta una vernice che dilata la sua stanza cambiandone la geografia, quella della stanza di Navalny si chiama Čechov. In fondo la vita in carcere è una vita irreale come scrive il prigioniero Osip Mandel’štam in una delle sue poesie: «Togliendomi i mari, la corsa e il volo / e dando al piede l’appoggio di una terra coatta / che cosa avete ottenuto? Bel calcolo: / non potevate amputarmi le labbra che si muovono».
Ora che l’intero corpo di Navalny è stato amputato e che sua madre e sua moglie e suo fratello e una grande parte della Russia silenziosa ne reclamano il cadavere, la sua assenza è il miglior romanzo russo e la sua storia è la vernice che dilaterà la cella degli altri dissidenti.
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