L’adozione a dicembre scorso delle nuove linee guida per la riforma dell’orientamento rappresenta l’ultimo tassello in ordine di tempo di un percorso normativo che da quindici anni a questa parte si è tradotto sostanzialmente in interventi spot o calati dall’alto
Quo vadis? Abbiamo finito da pochi giorni il corso di formazione ministeriale per docenti tutor e orientatori, rivolto alle scuole secondarie, e resta ancora una nota di ambiguità che non aiuta a comprendere con chiarezza la direzione da intraprendere. L’adozione a dicembre scorso delle nuove linee guida per la riforma dell’orientamento rappresenta l’ultimo tassello in ordine di tempo di un percorso normativo che da quindici anni a questa parte si è tradotto sostanzialmente in interventi spot o calati dall’alto: un oceano di iniziative che dovrebbero individuare quelle che si chiamano competenze trasversali, variamente rimodulate, mescolate a altre che dovrebbero recepire le cosiddette esigenze produttive dei territori.
Questa volta, sulla scorta delle direttive europee che sostengono la riforma anche dal punto di vista finanziario, leggi: un miliardo di Pnrr, l’orientamento dovrebbe essere messo a sistema favorendo il dialogo tra istituzioni scolastiche, famiglie, formazione terziaria e contesti socio economici di riferimento, grazie all’introduzione della figura del docente tutor, appositamente formato per diventare “consigliere” di studentesse e studenti lungo l’intero ciclo di studi.
Ed è proprio la formazione promossa dal ministero dell’istruzione e del merito l’unica cartina di tornasole a cui appigliarsi, almeno per ora, per provare a definire i principi ispiratori e i risvolti operativi della riforma. Il dato di partenza è la convinzione che sia più che mai urgente archiviare tutte quelle visioni sull’orientamento che l’hanno pensato quasi esclusivamente orientamento professionale e che dalla fine dell’ottocento agli anni novanta hanno caratterizzato epoche e cornici metodologiche, dall’approccio diagnostico attitudinale fino a quello maturativo e personale.
Di cosa parliamo quando parliamo di orientamento oggi? Per Federico Batini (Università di Perugia), l’orientamento deve avere una natura evidentemente formativa, fissando tra gli obiettivi di lungo periodo lo sviluppo delle competenze soggettive, il supporto nella costruzione della propria identità e lo sviluppo dell’autonomia. Al termine del ciclo, gli studenti dovrebbero cioè essere in grado di immaginare un personale progetto di vita, avendo acquisito consapevolezza delle proprie aspirazioni e dei propri talenti.
È lo stesso Batini a proporre un approccio, quello narrativo, che sebbene tema di studio sin dagli anni Novanta, non ha finora trovato riscontro nel vissuto di docenti e studenti e che pure, per la sua vocazione a presentarsi come un processo cognitivo volto ad attribuire significato alle esperienze del soggetto, appare come la migliore declinazione possibile della nuova normativa.
Di fatto, se adeguatamente interpretate, le indicazioni pedagogiche alla base della riforma virano verso l’idea di una scuola secondaria in cui lo studente venga finalmente posto al centro del proprio processo di apprendimento e di crescita, mentre l’istituzione si apre al dialogo con l’altro da sé, sgonfiando quel muro di gomma che troppo spesso rende le scuole impermeabili e fucina di dispersione.
Applicabilità
Resta tuttavia da capire quanto tutto ciò sia realmente applicabile nella quotidianità di un corpo docente che dovrà trovare il modo di ideare e costruire moduli orientativi di trenta ore annuali che siano effettivamente coerenti con interessi, aspirazioni e passioni coltivate dagli studenti.
Tralasciando gli aspetti “tecnici” della questione (la definizione di un curricolo d’istituto, la riprogettazione in molti casi delle attività di Pcto, la definizione dell’e-portfolio, l’individuazione di partner funzionali alla mission della scuola, solo per citarne alcuni), il tema più delicato resta probabilmente quello della didattica.
È qui che la nuova idea di orientamento presuppone una vera e propria rivoluzione copernicana, laddove privilegia forme di attivismo pedagogico, in cui la proposta didattica non perda mai di vista l’aggancio con l’esperienza e consenta l’ “attraversamento” trasversale delle discipline in funzione orientativa.
Si tratta di una sfida vitale per la scuola italiana, tanto più in un segmento, quello secondario, in cui la convinzione che la conoscenza si basi su un modello prevalentemente trasmissivo è tutt’altro che facile da scalfire. Ma è anche un’occasione di trasformazione che, se persa, rischia di derubricare l’orientamento dei giovani all’ennesimo mero adempimento burocratico.
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