- Dietro ogni foto c’è una storia, dietro ogni ritratto c’è una vita: con il progetto di fotografia sociale Gender Project, Veronique Charlotte vuole raccontare la complessita che sta dietro l’espressione “identità di genere”
- L’obiettivo è arrivare a mille ritratti, cento per ogni città che visita. Finora, Charlotte ha scattato 300 foto e allestito tre mostre, a Londra, Berlino e Milano
- Il centro del progetto è «ascoltare l’altro, capirlo», afferma. Non è un caso che questa storia sia cominciata con un gesto di ascolto e comprensione verso un amico gallese: «Doveva durare due ore, ne durò 12»
Il punto è che dietro ogni foto c’è una storia. Che dietro ogni ritratto c’è una vita. Un essere umano. Ci sono dolore e fatica, euforia, paura, gioia, smarrimento, coraggio, insicurezza, bisogno di essere visti. Ogni foto chiede di ascoltare prima di giudicare. Di contare fino a mille prima di emettere sentenze.
Mille è l’obiettivo che si è data Veronique Charlotte, l’artista e fotografa dietro questo progetto di fotografia sociale chiamato Gender Project (gender-project.com): l’obiettivo è arrivare a mille ritratti, divisi per dieci città, e poi, in ogni città, una mostra con musica, performance, tavole rotonde.
Mille forse non saranno tanti ma sono abbastanza per dare un’idea della complessità che c’è dietro le parole “identità di genere”.
Finora Veronique ha scattato 300 foto e ha allestito tre mostre a Londra, Milano, Berlino: il suo “progetto” si aggira per l’Europa come il noto fantasma, ma qui è spettro, nel senso cromatico del termine: striscia variopinta con le sfumature dell’iride, ovvero delle identità che Veronique Charlotte ha scelto di raccontare in un bianco e nero crudo e compassionevole.
La paura di parlare
«L’obiettivo è diffondere conoscenza, far capire che stiamo perdendo il contatto con la nostra empatia: abbiamo paura di parlare con gli altri», racconta quando ci incontriamo, per un’ora, in un bar di Milano che la vedrà: entusiasta, appassionata, orgogliosa, commossa, spesso incazzata, a volte furente.
«Ascoltare l’altro, capirlo», ribadisce, e non è un caso che questa storia sia cominciata con un gesto di ascolto e comprensione verso un amico gallese: «Doveva durare due ore, ne durò 12».
Era la fine del 2018, Veronique aveva 29 anni e da sette viveva a Londra, dove si era trasferita, lasciando l’Italia e un lavoro nella moda, con scorno della famiglia, per imparare l’inglese e soprattutto cercare sé stessa. Non si era trovata facendo cappuccini e nemmeno in seguito, nei nuovi lavori sopraggiunti dopo aver preso confidenza con la lingua locale, prima a Dazed poi a Hunger tv magazine, assistente di Rankin, noto fotografo. Le nuove esperienze, però, le avevano permesso sia di capire che la macchina fotografica poteva essere il mezzo attraverso cui indagare se stessa, sia di entrare in contatto «con persone creative», qualunque cosa voglia dire.
Tra queste, l’amico gallese di cui sopra: «Una sera viene da me e mi fa: “Ronnie, non so bene qual è la mia identità: ho 21 anni, certe volte mi piace vestirmi da donna ma non mi sento una drag queen né penso a un percorso da transgender, però mi piacerebbe avere un ricordo di me in questa fase della vita, da riguardare quando sarò più grande: ti andrebbe di fotografarmi?”. Gli dico: “Vieni a casa mia”».
Un paio d’ore, una vecchia tenda come sfondo, appesa in salotto, una luce, la macchina fotografica: «Giochiamo con gli abiti, iniziamo a parlare di gender identity… Perfino in una città come Londra non se ne parlava apertamente».
Il post su Facebook
Le due ore diventano 12 e Veronique sente che l’argomento la tocca, vuole saperne di più. Il giorno dopo prende la decisione che cambierà la sua vita, finora: «Scrissi un manifesto molto semplice e lo pubblicai sulla mia pagina Facebook: chiedevo alle persone se erano disposte a diventare vulnerabili, a mettersi davanti a una macchina fotografica con un’estranea e a spogliarsi dei loro vestiti sociali. Non sapevo cosa aspettarmi». Nel giro di tre ore la contattano in 65: «La prima cosa che ho sentito è quanto queste persone avessero bisogno di essere viste».
Avrebbe potuto fotografarne dieci ma pensa in grande: si licenzia e si tuffa nel nuovo progetto. «Limitarsi a dieci non avrebbe avuto senso, volevo andare in profondità: prima avevo pensato di farne 50 ma poi mi son detta che tanto valeva farne 100. Cento, in dieci città: mille in totale». E i soldi? «Non potevo permettermi uno studio ma mi bastavano tre cose: una luce, una tenda, una persona. Ho usato il salotto di casa». La dimensione domestica, inizialmente un limite, diventa essenziale: «Fotografo sempre nella casa in cui vivo. Le mie non sono solo foto: serve uno spazio in cui le persone si sentano a loro agio e questo, in uno studio fotografico, non è possibile, perché è un luogo che ti predispone a mascherarti, a essere ciò che non sei, a sentirti una modella, o rigido per l’imbarazzo. A casa, invece, tra un tè e una chiacchiera, si arriva alla foto a poco a poco, naturalmente».
Un’ora
Oggi i suoi incontri non durano più mezza giornata ma un’ora: «Non sono foto posate. Nel tempo insieme parliamo, ci apriamo, ci raccontiamo storie della nostra vita mai dette a nessuno». Tra quelle che più l’hanno colpita, il trauma di una persona che, nel 2022, si è sentita costretta dai genitori a intraprendere una presunta “cura” della propria omosessualità in una clinica, per di più lontanissima dal paesino di origine per evitare i pettegolezzi.
Il progetto è inclusivo: «Ho fotografato anche tanti eterosessuali: raccontano la storia del figlio, o del migliore amico che sta facendo la transizione. Sono alleati. E gli alleati servono come il pane». Più storie ascolta, più capisce qualcosa di sé: «Ho scoperto di avere un coraggio che non conoscevo e di essere una persona empatica ma non è stato semplice, perché senti ciò che provano gli altri ma poi è difficile uscirne: è stato durissimo scattare i primi 100 ritratti, confrontarsi con 100 vite, 100 energie…».
Per farcela, ha scritto una pagina di diario per ognuno di loro: «Ho capito che l’arte è anche terapia: fa bene avere un’ora tutta per sé, in cui parlare con qualcuno col quale si crea una vera connessione».
In quell’ora, Veronique fa un pezzo di strada con le persone che fotografa, lungo il cammino che ognuna sta percorrendo alla ricerca della propria identità: «Tanti, ovviamente, non l’hanno ancora trovata. Gli anglosassoni usano un’espressione bellissima, “coming out of the closet”, cioè devi “uscire dall’armadio” per trovare te stesso. Ma per uscirne devi prima entrarci, spogliarti dei vestiti che ti soffocano e indossarne di nuovi. E tra questi due passaggi c’è un momento in cui ti ritrovi nudo, vulnerabile, solo, e te la stai facendo addosso, perché sai che stai rinascendo ma ti chiedi: “E adesso?! Come affronto la società? E la società come mi vedrà?”. Secondo me è quello il momento fondamentale. Indossare vestiti nuovi non è un capriccio, come molti pensano: a chi non lo capisce chiedo: “Hai mai avuto il cuore a pezzi? Un lutto, il mondo che ti crolla addosso, nessuna via d’uscita? Ecco, è la stessa sofferenza che provano quelle persone. E quando capita a te pensi che nessuno possa capire”».
Eppure, è anche per combattere questo pregiudizio che Veronique porta avanti il suo progetto: «È sbagliato pensare che gli altri non possono capire! La conseguenza è che smetti di comunicare. Bisogna focalizzarsi sul dolore dell’altro, non sull’origine del dolore: cosa importa da dove arriva? La pena che prova è la stessa che provi tu, e l’empatia serve a chiedere, sinceramente, “Come stai?”».
Una crescita che continua
Sta bene Gender Project: a tre anni dall’inizio, continua a crescere. Alle foto, nella mostra ora si è aggiunto anche un video in cui 25 persone rispondono alla domanda “Qual è stato il punto di svolta della tua vita?”. Dopo Londra, Milano e Berlino, a gennaio Veronique andrà a Barcellona, poi Istanbul, forse Tel Aviv: «L’idea è portarlo su scala mondiale e poi farne una fondazione».
Nel frattempo ha fatto il grande passo: «Per la prima volta, non ho un lavoro: ho deciso di investire tutti i miei risparmi in questo progetto». Ha trovato uno sponsor che copre qualche spesa «ma gli sponsor sono anche le tante persone che mi aiutano lavorando gratuitamente. La vetrina non mi interessa, mi interessano i finanziatori: Gender Project costa».
Pronuncio la parola “sensibilizzare” e lei si infervora: «Non me ne faccio un cazzo della sensibilizzazione se chi si sente sensibilizzato poi non agisce! Serve agire! Di qualunque tipo ma serve un’azione!».
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