A che pensavano gli agricoltori della Cina di tremila anni fa, o delle pianure della Tessaglia duemila anni fa, o delle colline di Toscana o dei campi del Salento solo l’altro ieri, quando affidavano alla terra i chicchi di grano? Pensavano, con angoscia, a come avrebbero potuto e dovuto fare perché quell’investimento gli fosse restituito con qualche interesse al momento del raccolto.

A che pensavano i cacciatori del nord America tremila anni fa, o i contadini della Gallia duemila anni fa, o i montanari della Garfagnana solo l’altro ieri, quando il cielo si oscurava, le giornate si accorciavano, la luce finiva e l’Inverno era in arrivo? Pensavano, con paura, a chi li avrebbe potuti incoraggiare e aiutare a passare la stagione dura e inclemente; a non morire di freddo, se non di fame.

Il patto 

Pensavano a stringere un patto con la natura e il cosmo, a negoziare la loro sopravvivenza che, in quei momenti cruciali e critici dell’anno, doveva essere messa sul tavolo della contrattazione perché – proprio in quel momento – era chiaro che la narrazione antropocentrica che gli uomini si erano scritta da soli non reggeva: la natura, il cosmo, le stagioni, la catastrofe potevano farsi beffe di questo bipede nudo e presuntuoso e decretarne il suo annientamento.

Erano il cosmo e la natura a dettare le regole del gioco, e in moltissime culture (quelle di impronta non giudaico-cristiana) dicevano agli uomini chiaro e tondo che il suprematismo umano era una bolla di sapone inventata, destinata a scoppiare alla prima gelata, alla prima siccità, al primo raccolto insufficiente, alla prima caccia in cui si fossero riportati sul desco troppo pochi animali per sfamarsi.

E allora i sacerdoti imploravano gli dei; gli sciamani cercavano di transitare con i mondi degli spiriti, dei morti, della natura per raccogliere i termini della pattuizione e farli accettare alla comunità. Le famiglie, nel loro privato, ma anche le comunità nella loro collettività, invocavano e rendevano omaggio ai morti perché fossero al fianco dei vivi per far fronte alla paura.

Numi, spiriti, divinità di gran nome nel Gotha della mitologia, ma anche protagonisti sovrannaturali di seconda o terza fila: qualcosa di mezzo fra figli di un dio minore e spiriti. Tutti convocati per scongiurare la paura e gettare uno sguardo benevolo alla fertilità dei campi e delle donne.

Il prezzo da pagare per questa negoziazione? Riti, preghiere, sacrifici e purificazioni (ci si deve presentare mondati da colpe e peccati al tempo che si rinnova). Ma anche doni, nella speranza di un contraccambio se non dal beneficiato, dagli dei che vedono l’atto di generosità: soprattutto ai bambini, perché in questa forma il dono diventa “investimento” e augurio alle generazioni cui è affidata la prosecuzione della vita.

Quando arrivò, buon ultimo, il cristianesimo, si arrabattò come possibile per sradicare, disciplinare, modificare, riscrivere, depotenziare un gigantesco bagaglio cosmico di esseri sovra-umani che avevano condiviso con gli uomini la coabitazione di natura e sovra-naturale. Lo fece accampando il dogma che solo l’uomo ha l’anima perché è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e quindi, in quanto tale, poteva disporre della natura come meglio voleva, perché per questo Dio l’aveva creato.

Le conseguenze di questa impostazione mentale ce le portiamo addosso, dolorosamente, anche oggi. Dio creatore che delega a Adamo la facoltà di dare i nomi alle cose e agli animali è il manifesto di questo antropocentrismo che non coinvolge solo la sfera del sacro.

Ibrido 

Fu così che il cristianesimo riuscì a recidere in maniera significativa il rapporto fra l’Uomo e il resto della Natura: un rapporto che fino a tutta l’età classica (l’avete presente Apuleio? Oppure Ovidio?) aveva lasciato una serie di porte aperte fra i generi, con uomini e donne che potevano mutarsi in piante o in animali o nascere da rocce, in un via vai multimorfico, che dalla cristianizzazione in poi finisce, invece, nella riserva indiana dell’immaginario e del favolistico.

Riuscendoci solo in parte, per la verità, perché dove il cristianesimo ha vinto, lo ha fatto solo a metà, tirandosi dentro una quantità impressionante di pre-cristiano e a-cristiano, poi domesticato come folklorico. E tutto questo ibrido ha continuato per secoli, e ancora lo fa, a respirare con le stagioni, con le cesure cosmiche, con i solstizi e gli equinozi, in un calendario rituale il cui filo conduttore era e resta l’inquietudine, la paura, la sensazione della nostra nudità esistenziale.

Abbiamo dovuto attendere gli antropologi post-strutturalisti per entrare dentro le molte culture non, o solo parzialmente, cristianizzate e per farci guardare, attraverso di esse, di nuovo alla natura con occhi diversi: magari anche riflettendo su come elaborare strategie mentali diverse, dirette a una riconciliazione, per così dire, che aiutino a resettare il rapporto fra essa e gli uomini.

Che possano aiutare a ricostruire una coesistenza armonica dell’essere umano entro il contesto del quale quest’ultimo fa parte: non come sovrano assoluto, ma come elemento pensante, in grado di dirigere e governare gli equilibri.


Lo storico e antropologo Duccio Balestracci parlerà durante il Festival dei sensi della Valle d’Itria, 22-25 agosto

© Riproduzione riservata