- Ma chi è quel signore con la barba lì in mezzo, quel Roberto Roversi morto anche lui dieci anni fa, il 14 settembre 2012?
- Perché celebrare come “poeta di tutti” un signore di cui i più ignorano l’esistenza o ricordano che “scriveva canzoni per Dalla”?
- Frequenta il liceo con lo scrittore, con cui ha fondato la rivista Officina che pubblica articoli di Gadda. Lanciato verso il successo, rifiuta l’industria culturale, così diventa pop e la sua poesia resta pura. E grandissima
Non siamo abituati a leggere una scritta come «Bologna omaggia i suoi poeti». Soprattutto per i più giovani, cresciuti con la cultura come consumo individuale, può suonare strano che un popolo intero (Bologna ma anche l’Italia) abbia «i suoi poeti». E passi per Pier Paolo Pasolini, nato a Bologna cento anni fa. Passi per Lucio Dalla, bolognese e poeta della canzone popolare, morto dieci anni fa. Ma chi è quel signore con la barba lì in mezzo, quel Roberto Roversi morto anche lui dieci anni fa, il 14 settembre 2012? Perché celebrare come “poeta di tutti” un signore di cui i più ignorano l’esistenza o ricordano che “scriveva canzoni per Dalla”?
La prima risposta ce la dà il critico Matteo Marchesini che lo indica come «uno dei maggiori poeti del nostro Novecento», cioè qualcosa di più importante, con tutto il rispetto, di Mogol.
Roversi è un poeta capace di prendere per mano intere generazioni nella successione di pochi versi, la sua (Il presente è un aratro che / scava dentro al cuore in fretta / Il presente ha tutti questi anni da ricordare), quella dei suoi figli (Il presente vola e nessuno può dire / se è migliore o peggiore / come molti credono), quella dei suoi nipoti (Il presente passa e ripassa come / un urlo di sirena / alla fine di una lunga giornata). La poesia di Roversi attraversa il tempo e le generazioni, poi si deposita in una canzone che tutti sanno da quasi 40 anni, quella in cui si incitano i padri (tu chiedi chi erano i Beatles, chiedilo a una ragazza di 15 anni di età) e la ragazzina risponde (i Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco / Voi che li avete girati nei giradischi e gridati / voi che li avete ascoltati e aspettati, bruciati e poi scordati / voi dovete insegnarci con tutte le cose non solo a parole).
Ma Roversi è degno di un posto speciale nella memoria collettiva per il paradosso di un’esistenza così gelosamente votata alla letteratura per il popolo da sottrarsi all’industria culturale e rimanere per il popolo un poeta «felice e sconosciuto», come Gabriel Garcia Marquez quando faceva il giornalista. È per questo che chi ama la poesia deve, non a Roversi ma a sé stesso, un risarcimento con la memoria come moneta.
Al liceo con Pasolini
Roberto Roversi per Dalla è padre, per Pasolini fratello. Conosce il futuro poeta delle Ceneri di Gramsci al liceo Galvani di Bologna e, con lui e con un altro studente, Francesco Leonetti, forma un precoce e coraggioso sodalizio letterario che nel 1955 fonderà una delle più importanti riviste letterarie del Dopoguerra, Officina.
Come tutta la sua generazione Roversi attraversa la guerra e ne è attraversato. Figlio di un medico radiologo benestante, va a combattere da partigiano in Piemonte, poi torna a Bologna, si laurea in filosofia e intraprende la carriera di libraio antiquario. La sua libreria Palmaverde diventa per oltre 50 anni un punto di riferimento obbligato per la vita culturale bolognese, mentre lui lì dentro si divide tra la scrittura e l’amore fisico per i libri.
Non lo esalta il successo delle canzoni per Dalla o dei testi per Giorgio Strehler, piuttosto, ricorda l’amico di sempre Arrigo Quattrini, va fiero «di due piccole cose: la guida dell’auto, per la quale i compagni di viaggio gli facevano i complimenti, giudicandola veloce e al tempo stesso dolce e sicura; e la confezione dei pacchi della sua libreria Palmaverde che aveva scelto di fare gelosamente in prima persona».
Ai libri dedica molti versi fino alla sentenza definitiva dell’ultima raccolta (L’Italia sepolta sotto la neve, stampata due anni prima di morire in 30 copie, perché Roversi era fatto così): Vanno letti tutti i libri che si scrivono nel mondo / Vanno letti con pazienza poi dolcemente / teneramente… / dimenticati. Per lui «i libri non sono l’opposto dell’azione ma una delle sue forme», ricorda Marchesini in uno dei saggi che accompagnano l’antologia Non isolarsi ma ascoltare con cui la casa editrice Pendragon di Bologna, per celebrare il decennale della morte, ripropone al “mercato” la poesia di Roversi. Di paradosso in paradosso, Pendragon è di Antonio Bagnoli, figlio di una sorella di Roversi. Ma il nipote, titolare dei diritti sull’opera di suo zio, è fedele all’idea nobilmente comunista dello zio: la poesia è di tutti e tutti possono leggersela liberamente sul sito www.robertoroversi.it.
Ed è così che uno dei maggiori poeti italiani del Novecento ha scelto la strada più onesta per essere popolare: non esserlo. Uomo di sinistra che più di sinistra non si può, ha accettato il rischio di relegarsi all’immagine di piccolo poeta di provincia che si autopubblica. E quando Italo Calvino, editor dell’Einaudi, gli chiede di pubblicare regolarmente per la prestigiosa (e allora di sinistra) casa dello Struzzo, lui dice di no, che preferisce stampare col ciclostile che si è comprato.
Roversi aveva le carte in regola per diventare un big dell’industria culturale. Quando con Pasolini e Leonetti stampano il primo numero di Officina (maggio 1955) le loro firme sono accompagnate da quelle di Carlo Emilio Gadda e Giorgio Bassani. Officina va avanti per qualche anno. Colleziona collaboratori come Franco Fortini, Paolo Volponi e il poeta Attilio Bertolucci, padre del regista Bernardo, che a vent’anni entra nella carriera cinematografica come assistente di Pasolini nel suo primo film, Accattone (1961). Leonetti trentenne pubblica per Einaudi il suo Fumo fuoco e dispetto in una collana diretta da Elio Vittorini.
L’editor Calvino gli scrive: «Officina mi piace molto. Consideratemi pure dei vostri». Pasolini va a Roma, in mancanza di WhatsApp scrive di getto un biglietto ai due amici bolognesi per dire che è contento di aver visto Carlo Bo sulla rivista Paragone citare Officina. Sono trentenni che vogliono esistere: «Carissimi, due righe in fretta, anche stavolta: sono al Canova con Gadda e Bertolucci». Gadda adocchia il biglietto e aggiunge il suo saluto lagnoso e ipocondriaco: «Mi scuso tanto del ritardo. Vecchiezza e fatica unicamente ne sono la causa», e ha appena compiuto 61 anni.
Il no all’industria culturale
I due compagni di liceo sono ormai entrati nel grande giro, nessuna ambizione gli è preclusa. Di lì a poco Pasolini decolla, quando esce Officina ha già pubblicato con Garzanti Ragazzi di vita e di lì a poco farà il cinema. Controverso e discriminato, diventa in modo peculiare un protagonista dell’industria culturale. Roversi invece si sottrae, pubblica con Feltrinelli, Einaudi, Rizzoli, ma dal 1965 scompare.
Si dedica a un ragazzo di Bologna, musicista geniale, 20 anni esatti meno di lui, che gli chiede testi per le sue canzoni. Lucio Dalla è già famoso, nel 1971 è arrivato terzo a Sanremo con “4/3/43”, ma vuole di più. Pasolini scrive sul Corriere della sera e Roversi monta versi stralunati per la musica di Dalla.
Nascono tre album ancora insuperati: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e Automobili (1976). La notte in cui terminano la registrazione del primo album insieme, Dalla scrive al maestro-padre: «Il disco è tuo. Mi hai insegnato tutto, ad aver rispetto e paura nello stesso tempo, e amore per il mio lavoro».
Ma su Automobili avviene la rottura. Roversi non approva la scelta commerciale della casa discografica di estrarre canzoni da uno spettacolo più complesso, intitolato Il futuro dell’automobile. Ritira la firma dall’album. Dalla spiega così la frizione: «Lui voleva parlare ancora essenzialmente con un linguaggio politico, mentre io non ero d’accordo, perché bisognava allargare i contatti col pubblico».
Si perpetua l’eterno dilemma: per parlare a tutti Dalla adatta il messaggio e da geniale musicista impegnato a sinistra si trasforma in divo pop.
Roversi ritiene che l’industria ti regali i canali per la diffusione di massa ma in cambio corrompa il messaggio. Preferisce depositare la sua poesia nei suoi buffi scaffali catacombali. Però adesso quell’opera immensa c’è, non è stata corrotta e sappiamo dove trovarla. Ce l’aveva promesso: «Opere vere restano da fare / prima del diluvio di un secolo nuovo / come la terra sarà disposta nessuno lo sa, può saperlo / è inconoscibile questo / misterioso futuro / così già passato così già lontano». Tutto sommato aveva ragione.
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