- Nel documentario Hometown – La strada dei ricordi, in uscita il 25 gennaio in Italia, il grande regista e il celebre fotografo, amici d’infanzia, si confrontano con un passato indelebile.
- È un film che aiuta a guardare in faccia il passato non con le armi della retorica ma con quelle della ragione, col potere terapeutico dell’ironia e col rifiuto della rimozione.
- È un tour con tappe precise e indelebili, perché «ogni pietra ricorda qualcosa»: le case in cui vivevano prima dell’occupazione nazista, gli indirizzi del ghetto dove furono ammassati e progressivamente decimati, la sinagoga, il cimitero dove il padre del regista, morto a Parigi, ha voluto essere sepolto.
Due sopravvissuti eccellenti della Shoah vagabondano per le strade e le piazze di Cracovia, la città che li ha visti bambini, amici d’infanzia e perseguitati insieme alle loro famiglie. Uno dei due è Ryszard Horowitz, 83 anni, fotografo celebre e pioniere, negli Stati Uniti, delle tecniche digitali. È uno dei più giovani sopravvissuti all’inferno di Auschwitz. Deve la vita (e quella dei suoi congiunti) alla famosa list di Oscar Schindler.
L’altro è Roman Polanski, 89 anni, padre deportato a Mauthausen ma sopravvissuto, madre morta nelle camere a gas di Auschwitz. Preparate i fazzoletti, verrebbe da dire davanti a un titolo come Hometown – La strada dei ricordi (titolo originale: Polanski, Horowitz. The Wizards from the Ghetto), voluto e realizzato da due giovani documentaristi polacchi, Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer.
Invece no. È un film che fa i conti con la gestione della memoria, con l’esorcizzazione del dolore, col potere terapeutico dell’ironia e col rifiuto della rimozione, anche se certi grumi restano inaccessibili alle parole. Esce in sala da noi il 25 gennaio, ed è prezioso: aiuta a guardare in faccia il passato senza scansarlo, non con le armi della retorica ma con quelle della ragione.
Ogni pietra
Dettaglio fondamentale: i due tra loro non parlano inglese ma polacco, la loro lingua madre. Sottotitoli di rigore, niente doppiaggio. «È strano che siamo ancora qui, vero?» chiede Polanski all’amico. Certe domande, in apparenza banali, pesano come macigni. È un tour con tappe precise e indelebili, perché «ogni pietra ricorda qualcosa»: le case in cui vivevano prima dell’occupazione nazista, gli indirizzi del ghetto dove furono ammassati e progressivamente decimati, la sinagoga, il cimitero dove il padre del regista, morto a Parigi, ha voluto essere sepolto.
Nel cimitero c’è un muro della memoria costruito con le lapidi ebree spezzate dal Reich. E a ogni passo la tragedia si mescola a ricordi più lievi: quel piccolo cinema Apollo dei primi amori in pellicola, e i versi del poeta Galzinski, per cui «non c’è niente di meglio dei piccoli cinema dove dimentichi tutto, che ospitano i poveri che hanno avuto una pessima giornata».
Non sorprende che Polanski li citi a memoria. Né che riesca a scovare risvolti umoristici cui aggrapparsi rievocando la sepoltura straziante del padre, i becchini ubriachi, la bara che si caricò lui insieme ad Andrzej Wajda, il nome ridicolo, Bongo, dell’agenzia di pompe funebri. A sessant’anni di distanza, lo sguardo dei due amici è un esercizio incessante di riscatto dell’orrore con l’ostinazione dell’umanità.
«I ricordi sono terribili, devo ammetterlo – dice Polanski – ma non li voglio cancellare. Voglio che mi restino nel cervello così come sono, senza deformarli. È per questo che non voglio farci un film: se dovessi ricostruire tutto artificialmente non mi resterebbe più nulla nella memoria».
Costretti a essere diversi
Erano bambini, hanno maturato per tappe la coscienza della persecuzione. Il primo flash del futuro regista fu la macchina da scrivere del padre, dove aveva imparato l’alfabeto e che fu confiscata, perché vietata agli ebrei. E poi, per gradi, la fascia col marchio sul braccio, il divieto di accesso ai locali pubblici e ai tram, la reclusione nel ghetto, le parole associate agli ebrei, “pidocchi”, “tifo”: «Fu allora che capii che eravamo diversi dai nostri amici».
I vicini scomparivano a blocchi, rastrellamento dopo rastrellamento, ma nemmeno gli adulti avevano coscienza precisa del futuro. Si diceva che li trasferissero a est per lavorare. Per Polanski, con la sua bassa statura, sgusciare sotto il filo spinato per andare a comprare i francobolli che collezionava era quasi un gioco eccitante.
È la storia raccontata dai ragazzini, con la freschezza e la lucidità di due anziani che non vogliono dimenticare. Per chi li ascolta col sentimento del dopo, sono racconti incredibili: «Quando ci chiusero nel ghetto ci sembrava ancora di poter avere una vita normale. Solo quando alzarono il muro che ci isolava dal resto della città capimmo che le cose si stavano mettendo molto male».
Una triste vacanza
Poi le istantanee diventano atroci: il sangue che zampilla come una fontana dalla schiena di una donna sfinita, stroncata mentre la trascinavano via, e papà Polanski che scoppia a piangere mentre comunica al figlio che «hanno portato via la mamma». La camera in questo passaggio stringe sugli occhi del regista, che sembrano blindati dal tempo e dall’esercizio contro ogni emozione: «Stavamo attraversando un ponte, gli ho detto: “Smettila papà, così ci scopron!”».
Infanzie e adolescenze parallele, quelle dei due ragazzini, ma se possibile ancora più sofferta quella di Roman, separato dai genitori. Il padre riesce a farlo scappare in extremis tagliando con le cesoie un pertugio nel filo spinato, prima di essere portato via davanti ai suoi occhi. Resterà abbandonato a sé stesso, affidato alla famiglia ariana dei Wink in cambio di pochi risparmi, un orologio e i vestiti della madre.
Ma i Wink si stancheranno presto di nascondere un piccolo ebreo, e sarà una poverissima famiglia contadina, quella dei Buchala, a offrirgli rifugio, affetto e le patate che erano il loro alimento ordinario. «È stata come una triste vacanza di diversi anni», commenta.
Schindler
La scoperta di un nipote della coppia, dopo le vane ricerche nel corso degli anni di Polanski, è un imprevedibile risvolto del film. Che ha avuto un seguito, con il conferimento del titolo di “Giusto tra le nazioni” al nipote superstite. È la stessa onorificenza attribuita da Israele a Oscar Schindler.
Il vero Ryszard Horowitz compare nel finale del film di Steven Spielberg, ed è tra le voci principali del documentario realizzato nel 1983 da Jon Blair, Schindler: The Real Story. Il valore specifico di Hometown sta anche e soprattutto nell’aver favorito uno scambio di ricordi (a volte anche dissonanti) che i due amici storici insieme non avevano mai voluto affrontare.
Raccontato in dettaglio, nel faccia a faccia filmato, il viaggio nella tragedia della famiglia Horowitz suona tremendo e miracoloso. «Quando smantellarono il campo di Ploszow dove sorgeva la vecchia fabbrica, Schindler decise di portare a Brnenec con sé alcuni operai. Furono fatti due trasferimenti, uno con gli uomini e l’altro con le donne».
Nel secondo gruppo, che viene bloccato e deportato ad Auschwitz, c’è la madre del fotografo. Ma quando Schindler si allontana dalla fabbrica per andare a liberare le donne, il gerente della Gestapo che lo rimpiazza spedisce anche i maschi, piccoli e grandi, nel lager.
Il prodotto del passato
Sul braccio di Horowitz, deportato a sei anni, spicca ancora il tatuaggio, appena impallidito: B14432. Dispersi ma vivi, riusciranno a riunirsi tutti alla fine della guerra. Sono incubi che, incredibilmente, entrambi dicono di aver bandito dai loro sogni notturni: «Molti invece sono impazziti».
«Siamo il prodotto del passato, di quello che abbiamo vissuto», dice il fotografo.
A Cracovia prima della guerra vivevano 70mila ebrei, oggi solo poche centinaia. Oggi i bambini possono chiedere, come accadde a Horowitz in una scuola: «Che giocattoli avevate ad Auschwhitz?».
Oggi due anziani con questo bagaglio di vita riescono a congedarsi fa noi con uno squarcio di leggerezza.
«Se ti chiedessero se vuoi rivivere la tua vita esattamente come l’hai vissuta, cosa risponderesti?».
«Che vorrei nascere alle Hawaii».
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