L’opera prima di Tommaso, figlio di Andrea, il velista di Soldini inghiottito dall’oceano durante la traversata nel ’98. Il tabù dell’incontro col capo spedizione, la scoperta delle immagini degli ultimi 8 minuti, i ricordi da bambino
È possibile lenire l’assenza di un padre e il dolore indicibile della perdita attraverso un film? Tommaso Romanelli ci prova in No more trouble - cosa rimane della tempesta, una toccante opera prima che ha aperto il 17 ottobre “Panorama Italia” di Alice nella Città, sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma.
Un documentario che svela, tassello dopo tassello, attraverso materiali d’archivio privati e testimonianze, la figura di un padre ingombrante e sconosciuto che aveva il mare nel sangue: Andrea Romanelli, il velista friulano inghiottito da un'onda gigantesca dell'Atlantico mentre tentava il record della traversata dall'America all’Europa sulla barca Fila, insieme a Giovanni Soldini e ad altri tre uomini di equipaggio. Con grande pudore, l’autore usa il cinema per fare i conti col passato.
Da dove nasce questa sua passione per il cinema? Era forse una fuga per colmare l’assenza di suo padre?
È interessante perché nessuno me l'ha mai detto e neanche ci ho mai pensato, però sì... avevo bisogno di avvicinarmi a qualcosa di esterno da me. Andavo male a scuola e tutti i giorni vedevo un film, invece di studiare la storia insegnata al liceo, la scoprivo al cinema. Ricordo che quando c’era il festival Far East Film a Udine, saltavo una settimana di scuola e andavo a vedere 20 film in 5 giorni.
La mia passione è nata così, divorando film, capolavori firmati da Pasolini, Paul Thomas Anderson, Kurosawa, ma anche documentari di Errol Morris che ha influenzato molto il mio film. Infatti per le interviste, ho usato un dispositivo inventato da lui (Interrotron) che permette all’intervistato, attraverso un gioco di specchi, di guardare direttamente in macchina, creando non solo un’intimità con l’intervistatore ma anche con il pubblico.
Che cosa l’ha spinta ad affrontare il lutto di suo padre attraverso un documentario?
Sono da sempre un appassionato di cinema e da anni avevo il desiderio segreto di fare un film, ma non trovavo una storia mia da raccontare, non ero spinto da una necessità, così ho fatto altro. Ho studiato economia nel campo dell'arte e della cultura e ho incominciato a lavorare.
Poi, un po’ per caso, ho iniziato un percorso di analisi che mi ha fatto capire che dovevo fare i conti con la figura di mio padre. A casa c’era da sempre un baule pieno di videocassette. Lo sapevo ma non avevo mai affrontato quei VHS, poi un giorno ho deciso di vederli ed è stato sconvolgente: mi sono apparse figure in cerate rosse e gialle in mezzo all’Atlantico, e man mano che guardavo capivo che quelle erano le ultime immagini di mio padre, che una di quelle figure sullo schermo era lui.
Era un ragazzo che si muoveva come me, che salutava esattamente come faccio io, guardava in camera e sentivo il suo sguardo su di me. È stata un’esperienza magica che mi ha completamente travolto. Quelle immagini magnetiche che mi sembravano all’inizio quasi astratte erano vere e ho iniziato a voler capire di più. Che barca era? L'aveva disegnata lui? Cosa fa un ingegnere? E un velista? Volevo sapere. Volevo vedere altro materiale, saperne di più perché fino ad allora avevo avuto solo la versione di mia madre.
Non era assolutamente un argomento tabù a casa, sapevo che mio padre era un velista, un ingegnere che disegnava barche e che era morto in mare, ma non ero mai andato oltre a queste informazioni. Così ho deciso di incontrare Giovanni Soldini che era il capitano della barca durante l’incidente. Quando ci siamo visti a Milano è rimasto scioccato dalla somiglianza con mio padre. Abbiamo parlato per più di sei ore e mi sono reso conto che in quell’incidente anche Soldini aveva perso un pezzo di se stesso, mio padre era il suo migliore amico. Il film ha preso vita con il nostro incontro, Giovanni mi ha dato tutti i suoi contatti: l'equipaggio, i progettisti, tutte le persone che avevano lavorato con mio padre e mi si è aperto un mondo.
Un mondo che ha scoperto anche grazie all’archivio privato di Soldini, giusto?
Sì, Giovanni ha un ampio archivio sparso in varie cantine ammuffite. Per anni ho setacciato enormi scatoloni alla ricerca di materiali originali da digitalizzare, e ho scoperchiato un vero vaso di Pandora. Ho scoperto degli archivi di mio nonno in 8 mm, centinaia di ore di materiali di navigazioni, e ho trovato anche la voce di mio padre su delle audiocassette incise durante la sua prima traversata atlantica in solitario, prima che io nascessi.
E ho trovato persino gli ultimi minuti che la macchina da presa ha registrato a nero quando mio padre stava scomparendo: è stato molto doloroso. Allora ho capito che quello era il film che volevo fare, e che sarebbe stato un viaggio molto impegnativo perché dovevo aprirmi e lasciarmi andare a emozioni che non avevo mai esplorato.
Una delle cose che mi sorprende è il suo rapporto con Giovanni Soldini. Non aveva rancore nei suoi confronti visto che era il capitano dell’imbarcazione e che non aveva assicurato il suo equipaggio?
Sì, è stata una cosa molto tosta: la barca era assicurata ma non l’equipaggio. Non ne parlo volutamente nel documentario, ma mio padre era salito sapendo di non essere assicurato. Questo è stato sempre uno dei motivi della tensione con Giovanni, soprattutto da parte di mia madre.
Ognuno elabora la perdita a modo suo e per me è stato complicato superare il blocco che avevo ereditato da mia madre, perché in realtà non avevo mai avuto nessun rancore verso Soldini e il suo mondo, ero semplicemente disinteressato. Giovanni mi aveva scritto quando avevo 16 anni e io banalmente non gli avevo risposto. L’aspetto più difficile per me è che non si saprà mai cosa è successo. Il fatto di non aver mai ritrovato il corpo di mio padre non mi ha permesso di elaborare il lutto come avviene in un funerale, mio padre è scomparso lasciandomi un'angoscia latente addosso.
Come si spiega a un bambino di 4 anni che il padre è scomparso in mare?
Non ho un ricordo netto di mio padre, solo qualche sprazzo di memoria in cui sento la sua presenza mentre facciamo insieme delle costruzioni in una stanza. Mia madre non me ne ha parlato subito, ha aspettato un paio di giorni anche perché sperava che lo ritrovassero.
Aiutata da una psicologa, mi ha raccontato della sua scomparsa in mare come se fosse una fiaba alla Peter Pan dove degli angeli lo portavano in cielo. Non ricordo nulla di quel trauma. Da piccolo non piangevo mai, era come se avessi chiuso una porta che poi ho riaperto facendo questo film: non sa quante volte ho pianto durante la lavorazione.
Da piccolo suo padre era una figura mitologica o era un traditore che vi aveva abbandonato per il mare?
Non ho mai direttamente pensato che mio padre fosse un traditore, è stato un po' un mito perché mia madre me lo ha sempre dipinto positivamente: era un grande velista, un padre fighissimo, un ingegnere aeronautico, un architetto e un grande progettista che a soli 34 anni ha costruito per Soldini la barca più veloce del mondo, dando un contributo enorme al campo della navigazione.
Più mi immergevo nel materiale d’archivio e incontravo chi lo aveva conosciuto, più mi rendevo conto di quanto era straordinario. Ho scoperto anche la sua umanità e il grande amore che nutriva per mia madre e per me. Sono però anche molto lucido sul suo senso di responsabilità: se tu hai un figlio di quattro anni a casa e non c'è un'assicurazione, non sali su una barca.
Riesce a capire la sua ossessione? Questa voglia di sfidare il destino?
Sì, la capisco, è un desiderio di superare se stessi che mi appartiene, è stato bello scoprire me stesso in mio padre, come in un gioco di specchi. Credo che trovare una passione, inseguirla, gettandotici dentro sia un desiderio universale che ho cercato di trasmettere attraverso il mio film.
Si può anche morire per una passione, e se lo scopo di mio padre era quello di costruire la barca più veloce del mondo per farla navigare in mezzo all'Atlantico, a costo anche di andare incontro alla morte, lo accetto, non lo vedo come una mancanza nei miei confronti, perché in fondo qualcosa mi ha lasciato.
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