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Di romanzi che raccontino il mondo del lavoro, in Italia, non se ne scrivono tanti, benché il tema si presti alla narrazione romanzesca.
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Certo, nessun lavoro, creativo o no, somiglia perfettamente a quello che si è sognato nell’infanzia, quando lavorare pareva una promessa di vita adulta e responsabile, la realizzazione di sogni forse destinati a rimanere tali. Ma gli stagisti, che vita fanno?
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Ida, venticinquenne stagista in un’agenzia di comunicazione, la parola la prende eccome, nel romanzo di cui è protagonista: Non è questo che sognavo da bambina, da poco uscito per Garzanti, è l’esordio a quattro mani di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio.
Di romanzi che raccontino il mondo del lavoro, in Italia, non se ne scrivono tanti, benché il tema si presti alla narrazione romanzesca.
Un capolavoro come La vita agra di Luciano Bianciardi, uscito nel 1962, per certi versi sembra scritto l’altro ieri; sarà la lucidità malinconica con cui permette di decifrare il nostro presente, attraverso la lente di una Milano trasformata dal boom economico, che nella versione cinematografica di Carlo Lizzani ha un’aria livida e indimenticabile.
Il mondo deve sapere, il primo romanzo di Michela Murgia, storia di una telefonista precaria, è uscito nel 2006 e ha avuto fortuna anche al cinema nella trasposizione di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti, sceneggiata insieme a Murgia e Francesco Bruni.
E poi? Non è vero che i ventenni stanno sdraiati, né che sono schizzinosi; lavorano. E molti, soprattutto nell’ambito dei mestieri creativi che democraticamente (o forse no? è un sospetto sottile ma tormentoso), rispetto ai tempi agri di Bianciardi, paiono oggi accessibili a un bacino molto più ampio di aspiranti “di belle speranze”, entrano nel mondo del lavoro attraverso il percorso degli stage.
Certo, nessun lavoro, creativo o no, somiglia perfettamente a quello che si è sognato nell’infanzia, quando lavorare pareva una promessa di vita adulta e responsabile, la realizzazione di sogni forse destinati a rimanere tali. Ma gli stagisti, che vita fanno?
Negli uffici sono gli ultimi arrivati, spesso messi in competizione l’uno con l’altro, perché non ci sarà un’assunzione per tutti; lavorano molto e ne parlano poco, per non essere accusati di disfattismo, di fallimento, di scarsa resistenza.
Ida, invece, venticinquenne stagista in un’agenzia di comunicazione, la parola la prende eccome, nel romanzo di cui è protagonista: Non è questo che sognavo da bambina, da poco uscito per Garzanti, è l’esordio a quattro mani di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, che vendicano l’agonismo di uffici in cui la regola è mors tua, vita mea unendo i loro sforzi e le loro parole.
Com’è nata l’idea di un libro a quattro mani?
Sara Canfailla: È una questione di coincidenze. Abbiamo concluso insieme il percorso alla Holden e volevamo continuare a scrivere insieme. Solo che siamo state catapultate subito nel mondo del lavoro, anzi, degli stage. Era il momento in cui scoppia la bolla protettiva degli anni dello studio, il privilegio di avere tutto quel tempo per leggere, scrivere, vedere film, e ci si ritrova, del tutto impreparati, nel mondo. Ci siamo rese conto che volevamo raccontare proprio quel che stavamo vivendo.
Abbiamo iniziato a pensare a una newsletter narrativa, che fosse anche un po’ catartica, svincolata dall’ansia della pubblicazione. Il tema del lavoro occupava non solo un buon terzo delle nostre giornate ma anche tutte le nostre conversazioni; ci scambiavamo messaggi continuamente, mai sul cellulare, per non dare nell’occhio – come nel romanzo – e la sera ci ritrovavamo a brindare e a lamentarci.
Avevamo la sensazione, noi e i nostri amici, di essere tutti nella stessa situazione: stage, stipendi bassi, i colleghi che vanno a pranzo insieme e non ti invitano perché sei stagista. Ne parlavamo di continuo, forse per esorcizzare il trauma: la fine del sogno, la sensazione opprimente di renderci conto che forse non saremmo mai arrivate dove volevamo. Così abbiamo iniziato a scrivere, insieme perché eravamo nella stessa situazione, una lo specchio dell’altra.
Jolanda Di Virgilio: Il luogo comune vuole che la scrittura sia un mestiere solitario, ma gli sceneggiatori per esempio fanno con naturalezza un lavoro collettivo. Noi eravamo sicuramente già allenate, grazie alla Holden, a coltivare quel tipo di umiltà che serve a permettere a qualcuno di collaborare con te. Abbiamo lavorato su una scaletta molto precisa, che elaboravamo in un brainstorming infinito e, diciamo, gastronomico: siccome dovevamo approfittare del tempo libero dal lavoro, scrivevamo fra aperitivi, colazioni, pranzi, cene al ristorante cinese. Finita la scaletta di un capitolo spostavamo la salsa di soia, i tovaglioli, tiravamo fuori ognuna il suo computer, e scrivevamo a staffetta.
Canfailla: Poi ci scambiavamo i computer: era bellissimo scoprire cosa si era immaginata l’altra. Uniformare tutto, alla fine della prima stesura, sorprendentemente non è stato difficile: il tono di voce di Ida ci era diventato naturale, era di tutte e due.
Di Virgilio: Qualche volta raccontavo una cosa a Sara, e la ritrovavo nel suo testo. E poi, per esempio, la casa di Ida l’avevo immaginata esattamente come la casa in cui viveva Sara, con dei coinquilini assurdi. Ci scambiavamo vite e parole.
Perché, secondo voi, si parla e si scrive così poco di questi temi, che pure riguardano tante persone e le coinvolgono profondamente, oltre a offrire ottimo materiale narrativo?
Di Virgilio: Una mia amica, che per un periodo non trovava lavoro, aveva smesso di uscire: aveva paura della domanda tu di cosa ti occupi?
Canfailla: Cioè la domanda essenziale in qualsiasi conversazione, a Milano! Entrando nel mondo del lavoro abbiamo colto subito una contraddizione: c’eravamo noi che lavoravamo, e ci lamentavamo, e c’era chi il lavoro non lo aveva e ne soffriva. Non saprei dire chi fosse più infelice. Come se fossimo tutti tenuti a combattere per qualcosa che in fondo non vogliamo affatto.
Di Virgilio: Dà fastidio sentire le persone che si lamentano del lavoro. Il libro è uscito da pochi giorni e c’è già chi ci fa notare che Ida si lamenta moltissimo! Ed è vero, è nel suo carattere. Ma volevamo dare voce a un senso di frustrazione che sentivamo intorno a noi, che sfogavamo nelle chiacchiere con gli amici intimi, ma sembrava sbagliato o fuori luogo raccontare ad altri, come se ci sminuisse.
Canfailla: Noi scherzavamo sempre sulla Repubblica degli stagisti: se ci fossimo associati, tutti insieme avremmo potuto ottenere qualcosa, invece rimanevamo isolati, non ci facevamo forza a vicenda, anzi. Eravamo tutti sulla stessa barca, insomma, ma non eravamo davvero insieme. Troppo forte la tentazione di pensare “prima io”, di non perdere le occasioni. Eppure ci dicevamo: e se un’azienda perdesse tutti gli stagisti, chi li farebbe questi lavori?
Sembra un orizzonte sempre più lontano, quello dell’associazionismo, e credo sia uno dei grandi problemi politici e sociali del nostro tempo. È una questione molto complessa; mi sembra che si sovrapponga all’idea che il lavoro debba innanzitutto rappresentare una realizzazione individuale. Cosa ne pensate di questa identificazione con il lavoro?
Di Virgilio: È un po’ come se il lavoro fosse la voce fondamentale della tua carta d’identità; penso che sia più evidente nei lavori creativi, in cui ti devi “esprimere”, ma vale anche altrove. I social alimentano la confusione: nati come bacheche personali, per condividere momenti familiari e intimi, hanno cambiato natura. Ora, negli ambienti di lavoro, viene molto caldeggiato l’uso di Instagram: “Fai vedere quello che fai”, ti dicono, ma così si crea una sovrapposizione fra vita personale e lavorativa che sbiadisce i confini fra l’una e l’altra ai nostri stessi occhi.
Sì, e questo aumenta la pressione a essere “performativi” in ogni aspetto della vita.
Canfailla: Sì, e non c’è spazio per le zone d’ombra. Il valore percepito di quello che fai è maggiore del valore reale. Molto spesso si parla in toni sensazionalistici di cose molto mediocri, sembra quasi una vergogna dire “il mio è un lavoro come tanti”: il tuo lavoro deve essere il migliore, il più brillante… Non so nemmeno se i social siano la causa o l’effetto di questa tendenza a voler apparire sempre perfetti, come se il fallimento non fosse ammesso. Ammettere di fare un lavoro che non ti piace è un fallimento; molto meglio dire che fai un lavoro con un nome in inglese che nessuno capisce, ma tutti dicono Wow! È colpa tua se sei infelice, questa è l’idea; quindi non puoi mettere alla mercé degli altri la tua debolezza o la tua insoddisfazione.
Una specie di bolla speculativa?
Di Virgilio: Sì, e poi c’è tutto il discorso del sacrificio vissuto come un vanto, che alimenta la confusione fra vita e lavoro!
Canfailla: Negli uffici, l’atteggiamento di sacrificio è premiato: “Quella persona lavora anche nel weekend!”, si dice con deferenza. Ma questa retorica dell’efficienza non ti lascia il tempo né il modo di chiederti sì, ma io che cosa sto facendo? Si mette in moto invece un meccanismo tossico: se io lavoro nei weekend, ti dici, perché non lo fanno anche gli altri?
Una condizione di sfruttamento volontario, quindi. A me sembra che abbiate scelto di affrontare questo tema difficile per una via intelligente, ovvero quella dell’estremo realismo: c’è Milano ed è proprio Milano, c’è la spesa all’Esselunga, le borse color cuoio che però non sono di cuoio… Avete un occhio molto analitico, e umoristico.
Di Virgilio: Siamo felicissime che si noti. Milano è l’arena e la cassa di risonanza in cui si sviluppa la mania della performance. Io sono stata disoccupata a Milano: la città ti si nega. Tutta la vita è tarata sulla routine di persone che lavorano, anzi, che sta-lavorano.
Canfailla: Per rendere l’atmosfera dei luoghi del lavoro milanese la migliore fantasia non tiene il passo della realtà. Ora ci siamo un po’ assuefatte, ma da neofite ci sembrava tutto fuori dal comune, questo mondo con le sue norme, il suo linguaggio, e volevamo raccontarlo esattamente com’era. Le mail di Ida nascono, già nella newsletter, in uno stile ironico che ricalcava il nostro modo di comunicare fra noi, volevamo l’autenticità e la trasandatezza di quando scrivi a un’amica e sai che puoi permetterti di ridere di te stessa, perché sei in uno spazio protetto.
Ci ha aiutate molto, soprattutto nella definizione del finale, Il diavolo veste Prada, il romanzo di Lauren Weisberger del 2003. Avevamo l’idea di uno stile brillante, lievemente amaro, come in Girls di Lena Dunham. Nessuna di queste storie, che oltretutto raccontano New York, parlava di noi; ma ci piaceva quell’umorismo un po’ acerbo.
Cosa significa essere adulti?
Di Virgilio: Tre anni fa avrei detto: aprire il mutuo. Ora invece dico: il rapporto con i genitori. Ho capito che è iniziato quel processo in cui sarò io a dovermi prendere cura di loro.
Canfailla: Io direi che essere adulta significa saper scegliere la cosa migliore per te stessa… ma da sola. Da sola!
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