Nessuno ti dice cosa vuol dire parlare al telefono con l’uomo che ami e scoprire che due ore dopo quell’uomo non c’è più, non si trova più in nessun luogo della terra perché è morto. Ecco, i libri sul lutto te lo dicono.
I libri sul lutto occupano un intero scaffale della mia libreria; romanzi, memorie, poesia, saggi, persino fumetti. Fino a un certo momento della mia vita li consideravo un genere letterario a sé, che aveva prodotto opere capitali, memorabili, nato con la nascita stessa della letteratura.
Poi quei libri si sono animati, come sotto l’effetto di un incantamento, o di un maleficio, e sono diventati talismani, ricettari di sventura, specchi magici nei quali riflettersi, manuali per non impazzire. È successo quando ho anch’io incrociato il passo con la morte. La morte imprevista, inattesa e brutale, che ancor prima del dolore provoca terrore, paura.
«Nessuno mi aveva detto che il dolore assomiglia tanto alla paura» sono le prime parole di Diario di un dolore, nel quale C.S. Lewis racconta le sue reazioni alla morte della moglie. Nessuno ti dice cosa vuol dire parlare al telefono con l’uomo che ami e scoprire che due ore dopo quell’uomo non c’è più, non si trova più in nessun luogo della terra perché è morto. Ecco, i libri sul lutto te lo dicono.
Il re e l’amico
Una delle prime opere letterarie della storia dell’umanità è un libro sul lutto. Mi ha sempre colpito il fatto che L’epopea di Gilgameš raccontasse con tanta forza la disperazione del Re dopo la morte del suo amico Enkidu, dimostrando come il dolore per la perdita di una persona amata fosse già quattromila anni fa l’esperienza più difficile e importante che un essere umano deve affrontare, e che trovare le parole per dire quel dolore fosse il nucleo centrale intorno al quale si è costruita la letteratura.
Nelle settimane successive alla perdita mi sembrava di non poter fare altro che leggere e rispecchiarmi in quel dolore, come se tutte le persone che avevano attraversato quella soglia, ed erano riuscite a scriverne, fossero diventate le voci di un coro di prefiche che mi accompagnavano nella difficile impresa di non perdermi del tutto nella nebbia che offuscava i miei sensi e i miei pensieri. Poi, senza decidere consapevolmente, quasi senza rendermene conto, mi sono messa a scrivere.
Il caldo e il freddo
Nella ricerca ossessiva di parole di volta in volta illuminanti, consolatorie, violente, disperate, ho notato che ci sono due tipi di racconto: i racconti che definirei “a caldo”, scritti quasi subito dopo l’evento drammatico, e le opere “a freddo”, scritte molto tempo più tardi, anche venti o trent’anni dopo.
I primi nascono dall’urgenza, come fossero un tentativo di trattenere la persona amata, tenerla in vita, quando si è preda di quel che Joan Didion definì magistralmente «il pensiero magico», quel tempo in cui il senso di incredulità ci porta a negare l’accaduto, a sperare che l’amato o l’amata facciano ritorno, che la sua scomparsa sia solo temporanea.
Le parole sono allora come una porta lasciata aperta, un canale di comunicazione con l’altrove, ma sono anche un grido di dolore, di rabbia, parole che si scontrano con il ricordo ancora vivo, che sbattono contro i limiti di una realtà inaccettabile. Le seconde, scritte “a freddo” – ma non per questo necessariamente fredde – sono un tornare sul luogo del delitto con la distanza del tempo, quasi a voler indagare l’effetto che la morte ha su chi rimane, diventando lavoro di memoria.
Spesso è un dare voce a morti che sono state taciute perché indicibili, avvolte nel segreto e nel silenzio, quando per esempio a morire è un bambino, la scrittura diventa allora un modo per fare pace con i fantasmi.
Il privilegio di scrivere
Una modalità non esclude l’altra: Brigitte Giraud, che ha vinto il premio Goncourt nel 2022 con Vivi veloce, scritto vent’anni dopo la morte del compagno in un incidente di moto, aveva già scritto di questa morte in E adesso? poco dopo il fatto accaduto.
In quell’estate tremenda, doppiamente tremenda perché l’umanità intera usciva tramortita dall’esperienza della pandemia, mi sono messa a scrivere. Senza pensare, senza sapere dove la scrittura mi avrebbe portata, senza nemmeno scegliere la lingua nella quale scrivere, perché il francese, lingua dell’incontro d’amore e del paese nel quale vivo, si è imposto a me senza che lo volessi. Se non avessi scritto, non ricorderei nulla di quell’estate.
Scrivere in un’altra lingua è stata un’esperienza fondamentale, perché, disponendo di meno mezzi, si è costretti ad essere più precisi. Mi sembrava che trovare le parole appropriate per raccontare qualcosa che per natura è irraccontabile fosse sia un bisogno che un dovere. Un dovere verso di chi non c’era più, non aveva più voce, e un dovere verso chi, trovandosi nella mia stessa situazione, non ha il privilegio della scrittura.
Lo ha scritto così bene una lettrice in un messaggio: «Chi riesce a usare le parole lo faccia anche per noi, parlanti muti». Mi chiudevo nella mia stanza, che era al tempo stesso una prigione claustrofobica dalla quale volevo scappare e l’unico luogo dove mi sentissi al mio posto e dove potevo fare l’unica cosa che aveva senso fare.
Tradurre il dolore
Circa un anno dopo incontravo il mio editore a Roma. Fu lui, inaspettatamente, a propormi di pubblicare quello che definivo il «malloppo d’amore». Parola intraducibile in francese, il malloppo può essere un involto o un bottino, qualcosa di non compiuto o di rubato, quelle parole uscite da chissà dove, sottratte al regno dei morti come fiori di asfodelo e deposte sulla carta come un bouquet su una tomba.
L’importante per me era che fossero uscite, invece l’editore mi domandò: «Chi lo traduce? Lo fai tu o lo facciamo noi?» Rimasi spiazzata. Non volevo più saperne di quel malloppo, ma capii che non avrei tollerato che la voce di un traduttore, per quanto bravo o brava fosse, si immischiasse in una faccenda tanto delicata e intima.
Lo riscrissi, prendendo delle libertà, perché è impossibile tradurre sé stesse, e così facendo mi accorsi che stavo mettendo un altro grado di separazione tra me e quella storia, e che questo mi avrebbe aiutata a distaccarmene ancora un po’, fino a poterla consegnare a voi. Non è forse questo il potere delle parole?
Chiara Mezzalama vive tra Roma e Parigi, dove insegna letteratura presso l’Istituto italiano di cultura. Scrittrice, traduttrice e psicoterapeuta, è in libreria con Le nostre perdute foreste (Edizioni e/o). Il libro racconta il viaggio di una donna che ha perso l’uomo amato poco dopo averlo incontrato
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