Vestirsi sempre uguale non è la stessa cosa che vestirsi tutti uguali. Chissà se la disparità di genere nell’ammissibilità dell’uniforme, dell’uniformità, non apra una strada per la sorellanza maschile
- La mia assistente, una ricercatrice esperta d’avanguardie e lotta di classe, mi ha fatto notare che, pur cambiando colori stoffe e fantasie, mi vesto sempre uguale quando insegno. Ha definito il mio fidato outfit professorale un’uniforme. Mi domando a cosa mi sia uniformato.
- Mi domando anche perché “uniforme”, come parola, mi sia più simpatica di “conforme”. Avendo studiato dalle suore a cinque anni sono forse meno diffidente dal vestirsi tutti uguali, che è però ben diverso dal vestirsi sempre uguale, come ci insegna Paperino.
- Vado scrivendo da mesi che i maschi dovrebbero coltivare tra loro la sorellanza sviluppata, come pratica e teoria, dalla coscienza femminista delle donne che hanno fondato il pensiero di genere, ma ancora resisto mentalmente al fraterno sentirsi parte di un’unità ulteriore che certi usi maschili dell’uniforme hanno il potenziale di rivelare
L’industriosa, brillante dottoranda piemontese che questa primavera mi assiste nell’insegnamento del seminario sul gender e l’avanguardia offerto qui all’Università di Yale, la dottoressa Federica Parodi, mi ha fatto notare una cosa forse banale per chi legge con assiduità questa rubrica. Quando entro in classe, sono vestito sempre uguale. O meglio, cambio l’assortimento (le fantasie, le tinte, la famosa armocromia che tanto impensierisce in questi giorni chi si sente davvero di sinistra) ma gli elementi del mio boy-drag da giovin professore si ripresentano, pedissequi, ad ogni lezione: camicia nei pantaloni con cintura, cravatta nel gilet provvisto di bottoncini, calzini lunghi nelle sneakers in cuoio. Dicevo che la combinazione vi parrà ovvia perché si tratta, in fondo, delle cose da maschi su cui ho rimuginato più diffusamente in questa sede. Mi ha colpito tuttavia il modo in cui Federica, scanzonata studiosa degli anni ’70 vibrante di una vigile coscienza di classe, me ne ha segnalato l’eterno ritorno. Gesticolando circolarmente per iscrivere il mio prevedibile outfit in un’ampia e invisibile casella individuata dal suo dito indice, in una pausa tra le due ore del nostro corso assai animato, mi ha detto sorniona: questa è l’unica uniforme che io possa accettare. Intendeva, naturalmente, la mia mise sempre uguale. Ma come, proprio io che sto qui a ragionare sui lacci e lacciuoli che imprigionano i maschi negli imperativi della virilità, proprio io che pretendo di sfatare i simboli materiali del patriarcato che ci abita in quanto uomini sin dagli azzurri pagliaccetti nella culla blu con celeste copertina: proprio io, aspirante demistificatore dell’uniformità del maschile, costringo me medesimo in un’uniforme?
A forma di uno
Devo dire d’altronde che, come parola, ‘uniforme’ non mi dispiace. Mi piace più di ‘conforme’, per dire, proprio come ‘omogeneo’ mi piace più di ‘omologato’. Mi fa pensare al lenzuolo senza grinze di un letto ben rifatto, all’impasto lavorato abbastanza da sgominare i grumi prima d’infornare. Mi fa pensare anche alle forme uniche di Boccioni—la scultura, intendo, sui venti centesimi di euro che si coniano in Italia—e a una tavola parolibera che io e Federica abbiamo proiettato in aula: il Ritratto di Marinetti composto tipograficamente dalla futurista Marietta Angelini, in cui l’eponimo Marinetti è immaginato (impaginato) appunto nella forma di una titanica, fallica cifra, l’uno, stampato a tutta pagina. Uniforme nel senso di ‘a forma di uno’, un dattiloscritto uno unico, ma anche ripetibile battendo ancora sullo stesso tasto: uno qualunque, il numero uno. C’è uno speciale conforto nel decidere una volta per tutte una forma, e poi giocare a lungo entro i confini che disegna senza dover scegliere ancora e ancora. Penso a una vignetta di Topolino che Chiara Valerio evoca sempre quando deve spiegare la sua passione per le suore, per i loro abiti sulla cui uniformità si può sempre contare (uno, uno, uno, uno): Paperino che, svegliandosi la mattina, spalanca le ante per contemplare le opzioni offertegli dal suo guardaroba. Fa ridere perché, sebbene il papero indugi sulla scelta, quell’armadio è pieno solo di identiche divise alla marinara, tutte uguali—un dato di realismo, giacché in effetti Paperino è sempre vestito allo stesso modo. Ricordo un’altra storia in cui egli si iscrive a una scuola di polizia (si scoprirà solo alla fine che era un refuso per ‘pulizia’, e che dunque Paperino è destinato a una carriera da operatore ecologico invece che da gendarme) perché Paperina è preda del fascino dell’uniforme, e vorrebbe vedere il suo amato in divisa. Lui le fa notare che veste appunto sempre da marinaio, ma lei gli spiega che non vale, perché non fa davvero il marinaio. È sempre vestito uguale a sé stesso (come me, come Chiara Valerio) ma nessun altro è vestito uguale a lui (come accade invece ai marinai veri, alle suore). La dottoressa Parodi, mia assistente, è nemica di Paperina.
Genere e Gemellaggi
Non credo che Chiara Valerio abbia mai fatto la scuola dalle suore, ma io sì: i primi due anni di elementari. Come si conviene, la mia scuola di suore prevedeva una vera e propria uniforme per gli studenti—non come quella implicita, paperinesca, che ora sfoggio insegnando. Noialtri bambini eravamo, come le suore, vestiti tutti uguali: l’unica distinzione, già attiva all’asilo nei binari colori dei grembiuli, era tra i maschi (pantaloni) e le femmine (gonne). Nell’ultimo, struggentemente edipico film di Emanuele Crialese, L’immensità, l’insopportabile conformità dei generi espressi dai grembiuli di una classe d’altri tempi esplode nella scena più incantevole, in cui bimbi e bimbe si liberano di quelle uniformi lanciandole al rallentatore dalle finestre della scuola per esibire i loro vestiti tutti diversi. Non ricordo, nel mio passaggio alla scuola senza suore e dunque senza divisa, un simile senso di liberazione, anche perché all’improvviso la divisione unica per genere si trasformava in una frastagliata geografia di redditi, di stili e oggetti che tradivano un’estrazione sociale. Nutrivo, forse, una nostalgia per l’uniformità bina, da cui pure avrei imparato a diffidare al liceo. Alla scuola senza suore avevo un migliore amico, Giulio, che era appassionato di basket. A me del basket non importava niente, ma mi piaceva assai la squadra degli Orlando Magic. Non perché negli anni Novanta avessero vinto due campionati di fila, né perché potessi sognare di visitare Orlando, in Florida, dove risiede il maggiore sponsor dei Magics: Disney World. Mi piaceva che quegli spilungoni nelle figurine fossero apparentemente votati alla magia, e che sui loro abiti bianchi, neri e blu sfavillasse una stella. Per il compleanno chiesi dunque la tuta acetata degli Orlando Magic, che Giulio indossava almeno una volta la settimana con orgoglio. Grande fu il mio sgomento quando il mio amico, vedendomi entrare in classe vestito come lui, s’imbestialì, rimproverandomi per averlo copiato. “Ora sembriamo i gemellini”.
Tutti uguali
Ai matrimoni, ai diciottesimi, alle incoronazioni dei reali d’Inghilterra pare un po’ che i maschi siano vestiti tutti uguali, ma che sia un affronto andar vestita come la sposa, la festeggiata, la regina—o a dire il vero qualunque invitata. È uno stereotipo, certo, ma forse l’associazione occidentale del genere maschile allo sport, alla prodezza militare, ci abitua a concepire i ragazzi come squadra, come battaglione, come corpo uniforme. D’altronde, nella versione televisiva del Racconto dell’ancella, l’epifania politica della protagonista avviene quando si rende conto che gli abiti rossi in cui lei e le sue compagne sono costrette dal letterale regime patriarcale della distopia permettono loro di sentirsi sorelle in armi: «non avrebbero dovuto darci un’uniforme se non volevano che diventassimo un esercito». Leggo istintivamente l’uniforme come strumento di controllo, di oppressione degli individui, ma non è forse più facile contarsi (e sapersi più numerosi degli oppressori) quando si è vestiti tutti uguali? Quando da consumato ex-studente europeo guardo con sospetto al concetto di belonging, di appartenenza, che incoraggia i miei studenti a esibire i colori e i simboli della loro americanissima università; quando diffido dei bulldog e delle ipsilon che adornano i loro capi tinti di un punto di blu identificato come “Yale Blue” nel 1894 e standardizzato in un pantone specifico nel 2005; quando attribuisco tutta questa uniformità alle insidie del capitalismo e dell’elitismo che omologa l’individuo, non sto commettendo lo stesso errore di Giulio, felice di vestirsi come gli idoli per cui tifava ma non come il suo compagno di banco? Vado scrivendo da mesi che i maschi dovrebbero coltivare tra loro la sorellanza sviluppata, come pratica e teoria, dalla coscienza femminista delle donne che hanno fondato il pensiero di genere, ma ancora resisto mentalmente al fraterno sentirsi parte di un’unità ulteriore che certi usi maschili dell’uniforme hanno il potenziale di rivelare: nel dormitorio, nello spogliatoio, nelle celle monacali di un millennio fa magari, e forse persino in qualche caserma a dar retta, per dire, ai Versi militari di Umberto Saba. Laddove insomma ci si veste tutti uguali.
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