La censura ha sempre a che fare con uno squilibrio di potere. Ma è il potere fragile e pauroso che la applica, nel tentativo di proteggere sé stesso
Lo sapete tutti: la settimana scorsa a Domenica In ci sono stati momenti di grande intensità politica. Ne scelgo uno: il cantante Dargen D’Amico ha espresso un pensiero positivo sull’immigrazione, e Mara Venier l’ha interrotto dicendo che non era l’occasione adatta per affrontare certi argomenti, siccome il programma ha un tono festoso.
In seguito all’episodio molti hanno criticato Mara Venier e la Rai, ritenuti colpevoli di censura. Ne è nato un caso, e sono germogliate delle domande. Per esempio: se Dargen D’Amico avesse espresso concetti opposti, se avesse cioè parlato male dell’immigrazione e fosse stato zittito, avremmo ugualmente gridato alla censura?
Quando qualcuno dice cose con le quali siamo d’accordo, e viene zittito, ci preoccupiamo della libertà di parola, ma siamo pronti a fare lo stesso nel caso in cui faccia affermazioni con cui non siamo d’accordo? La domanda è utile, perché la censura è un concetto scivoloso.
L’importanza del contesto
La prima cosa che mi viene da dire è che la censura non va mai analizzata in astratto, ma nel concreto, e cioè considerando il contesto. Questo perché la censura avviene sempre in un contesto. Dunque vediamo: ci troviamo in Rai, la televisione pubblica. Sappiamo che il governo è contrario all’immigrazione, e sappiamo anche che ci tiene alle operazioni culturali.
Inoltre si tratta di un governo che alcuni temono possa portare a una corrosione della democrazia. In questo contesto, un cantante dice cose a favore dell’immigrazione, e viene fermato. La sensazione prodotta è che il potere sia intervenuto per censurare. Una sensazione rinforzata dal fatto che durante la stessa trasmissione, come sapete, è stato letto un comunicato su altri temi politici.
Per ricreare la stessa situazione nel caso in cui un cantante esprimesse idee contrarie all’immigrazione, dovremmo avere un contesto uguale nella forma e contrario nei contenuti, e cioè dovremmo avere un governo forte e di estrema sinistra, favorevole all’immigrazione, un governo rigido e dai modi autoritari, che si teme possa addirittura corrodere la democrazia. Un governo così in Italia è inimmaginabile (poi chissà).
Quello che voglio dire è che la censura ha sempre a che fare con uno squilibrio di potere, nel senso che il biasimo deve arrivare dall’alto: da un governo, da una religione dominante, da gruppi di pressione, da un sistema culturale.
Se ci vediamo a cena e mi dici cose con cui non sono d’accordo, e io ti interrompo e me ne vado, non ti sto censurando, ti sto mandando a quel paese. Anche perché in quel caso manca proprio un pubblico di fronte al quale produrre la censura.
Ma anche se tu fossi un militare di carriera allineato col governo, e venissi nella mia ipotetica trasmissione per esprimere idee che mi trovano in disaccordo, ma che sono schierate col potere, e io ti interrompessi, la mia non sarebbe censura, sarebbe più una forma di resistenza alle idee dominanti. E magari in quel caso il potere interverrebbe pure, ma non a colpire te, a colpire me: censurerebbe la resistenza. La censura e la resistenza sono due cose diverse.
Scarsità di spazio
Analizziamo ora un concetto espresso da Mara Venier, quando spiega che Domenica In è un programma leggero, non adatto a certi temi. È un passaggio interessante, perché richiama la questione della scarsità dello spazio televisivo. Una questione di natura economica (non nel senso dei soldi, ma nel senso che la scarsità ha a che fare idealmente con l’economia).
Chi censura spesso si difende dicendo che non sta censurando, ma sta facendo una valutazione sull’opportunità di usare uno spazio limitato in certi modi. È una difesa elegante, nel senso che appare non violenta.
Ma allora chiediamocelo: è compito di Domenica In occuparsi di temi seri? Qualcosa ci fa pensare che in altri casi la conduttrice non esiterebbe a mettersi la mano sul cuore, guardando in camera e dicendo, con voce rotta: «Scusate se abbiamo sforato, ma questo argomento era troppo importante per essere trattato in pochi secondi. Siamo sicuri che il pubblico capirà».
Personalmente credo che le società serene e sicure di sé non sentano la necessità di censurare. La censura, perdonate il termine, è da cacasotto: il potere fragile e pauroso la applica, nel tentativo di proteggere sé stesso (non le persone).
Purtroppo l’ultima che ho sentito è quella del senatore della Lega che dice che a Sanremo bisognerebbe prevedere una Daspo per i cantanti che «usano il palco per fini diversi da quelli della musica». Che idea spaventosa. Forse bisognerebbe spiegare a questo senatore che i fini della musica sono tanti, e qui sta il bello. Qui sta la pienezza.
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