La storia non si piega alla logica di cui è sempre più vittima il discorso pubblico, che vive di bianco/nero e buoni/cattivi. E come la storia non si piega la ricerca storiografica, se fatta come si deve. Proprio perché è la ricerca dei grigi a spiegare la complessità degli eventi, a restituirne le sfumature.

Forse nulla come la Seconda guerra mondiale ha diviso il mondo in buoni e cattivi, allora sui campi di battaglia e ancora oggi a un livello più antropologico che culturale: alzi la mano infatti chi, in un riflesso condizionato, sentendo parlare tedesco, non si è mai ritrovato ad associare quell’aspra pronuncia alle divise delle Ss e all’orrore nazista.

La storia di Rudolf Jacobs, caporalmaggiore della Kriegsmarine, fa parte proprio di quell’area grigia su cui ancora troppo poco gli storici si sono esercitati, ma che è bene definita da alcuni semplici numeri. Sono quelli relativi alle sentenze di morte pronunciate ed eseguite nei confronti di militari colpevoli di diserzione: 48 di parte tedesca nella Prima guerra mondiale e, nella Seconda, 40 giustiziati nell’esercito della corona britannica e 146 in quello statunitense.

Numeri come si vede limitati, ben diversi però da quelli del Reich millenario hitleriano: in questo caso furono infatti ben 22mila le sentenze emanate e 15mila quelle effettivamente portate a termine. Ed è vero che sono cifre da rapportare alle dimensioni enormi delle forze impegnate su decine di fronti di guerra fra il 1939 e il 1945 (circa venti milioni di combattenti), ma si tratta comunque di un numero impressionante, su cui si deve riflettere.

Il buon tedesco

«I disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia», scrive lo storico torinese Carlo Greppi nel suoultimo libro, appena pubblicato da Laterza: si intitola Il buon tedesco ed è appunto incentrato sulla figura di Jacobs, nato a Brema nel 1914, richiamato in servizio nella marina di guerra nel settembre del 1943 e ben presto inviato sul fronte italiano.

Finì in Liguria e Lunigiana, dove i tedeschi erano impegnati nei lavori di fortificazione del golfo di La Spezia per “puntellare” la linea gotica, su cui si sarebbe decisa la guerra dopo lo sfondamento alleato della Gustav. È la zona dove la Resistenza nel corso del 1944 si ingrossa tumultuosa.

Sono le settimane dei primi territori liberi in val Taro e val Ceno, quasi subito spazzati via dalla Wehrmacht. Annota però Greppi: «In un rapporto di gennaio della decima armata tedesca si fa cenno a 142 casi di passaggi alle formazioni nemiche, circa la metà dei quali possiamo presumere siano relativi a militari tedeschi o austriaci, e l’ordine delle centinaia è confermato nei cinque mesi successivi, nei quali l’armata conta 290 casi di passaggio di campo».

Disertori

Una breccia si era aperta, di pari passo con l’andamento bellico generale, che vedeva i tedeschi ricacciati indietro ovunque: in quella breccia si infilò anche Rudolf Jacobs, “il capitano”, come verrà chiamato da spezzini e lunigiani che con lui ebbero a che fare, prima come nemico e poi come partigiano.

Occorre tenere presente date e circostanze. Nell’estate del 1944, a nord della linea gotica, le brigate nere della Repubblica sociale seminavano il terrore. E ancor più lo facevano i tedeschi nella lenta e tremenda ritirata sull’Appennino tosco-emiliano: Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e Vinca sono solo le più note di una serie bestiale di carneficine.

In questo panorama di inarrestabile ferocia, anche tra le forze armate tedesche si iniziò a disertare. Perché nel frattempo gli aerei angloamericani dominavano i cieli italiani e tedeschi, bombardando senza essere efficacemente contrastati, mentre sul fronte orientale dalla sconfitta di Stalingrado era già passato un anno. E lo sbarco in Normandia, il 6 giugno di quel 1944, aveva segnato la svolta definitiva del conflitto.

Storie dimenticate

Jacobs è l’uno preso per il tutto. Sono infatti numerosissime, e nella massima parte sconosciute se non ai ricercatori e a chi le ha scritte magari decenni fa, le storie di altri disertori tedeschi durante l’occupazione del nostro paese.

Non tutti lo fecero per ragioni ideali, anzi, probabilmente si trattò di una ristrettissima minoranza. La loro scelta ha però qualcosa di straordinario, se si considera il retroterra di quella generazione di militari, anche dei più giovani tra loro: il mito della patria sconfitta da riscattare, il Führerprinzip, il nazionalismo, il Lebensraum, la primazia razziale...

E d’altra parte basta pensare all’altro alleato della Germania nazista, quel Giappone culturalmente non dissimile: lì altro che disertori, l’ultimo irriducibile combattente lo trovarono su un’isola delle Filippine addirittura a guerra finita da quasi trent’anni.

Partigiano

L’abbandono delle truppe tedesche e il passaggio alla parte nemica avvenne invece su tutti i fronti: Jugoslavia, Francia, Grecia. Certo, ben più numerosi furono i casi tra i soldati italiani: a partire da quelli di stanza in Montenegro, 20mila dei quali passarono a fianco dei partigiani locali. Ma quelle “schegge” tedesche ancora oggi ci interrogano.

Il salto del fosso, per Rudolf Jacobs, avviene a settembre del 1944, quando più salda si fa la presa partigiana sull’Apuania: che sia avvenuto il 3 o il 30, è questione che Greppi cerca di dirimere, senza però venirne a capo definitivamente. Ma è comunque un piccolo saggio di un’acribia documentaristica imponente che si articola nell’intero libro, in cui la vicenda umana del “capitano” è calata in una cornice che, da un lato, comprende la vicenda bellica complessiva, dall’altro la miriade di eventi resistenziali locali ricostruiti attingendo a una copiosa memorialistica partigiana: una ricerca in cui la rete dell’Anpi si è rivelata preziosissima.

E la figura di Jacobs, che si unirà alla gloriosa brigata garibaldina “Ugo Muccini”, è tuttora ricordata e celebrata a Sarzana, dove è sepolto. In più, però, Il buon tedesco offre gli elementi essenziali di un tema enorme: l’elaborazione nella psicologia della nazione tedesca del Dopoguerra della figura dell’Überläufer, il disertore. Che poi, più propriamente, sarebbe il Landesverräter: cioè il traditore della patria.

All’albergo Laurina

Rudolf Jacobs arriverà addirittura a ideare e condurre, nelle vesti di partigiano, un’eroica azione contro le brigate nere di Sarzana, asserragliate all’albergo Laurina: ed è l’azione in cui perderà la vita.

I dettagli della preparazione del piano e della sua attuazione, anche in questo caso estratti da documenti ufficiali partigiani e da racconti di chi vi prese parte, è formidabile. Basti pensare che a bussare al Laurina fu lo stesso Jacobs, in divisa tedesca e armi pure, che fin lì arrivò guidando una pattuglia internazionale di disertori (con “il capitano” c’era anche il suo attendente austriaco, un russo, sicuramente uno jugoslavo, ma anche una mezza dozzina di partigiani italianissimi), tutti cantando Lili Marlene durante la marcia tra le case della cittadina ligure e con Jacobs a dare ordini ovviamente in tedesco, pare addirittura incontrando una pattuglia della Wehrmacht con cui vennero scambiati i saluti senza ingenerare sospetto alcuno.

E una volta arrivati a destinazione, per entrare e finalmente iniziare a sparare, lo stratagemma di chiedere del comandante fascista, accampando l’urgenza di discutere di una missione segreta da intraprendere assieme, tedeschi e brigate nere.

Il finale

La storia dell’attendente austriaco di Jacobs, della sua morte o meno nell’azione e della sua misteriosa identità, arriva a sorpresa nelle battute finali del libro: ed è un altro esempio dell’ossessione del ricercatore.

Non se ne racconterà qui l’esito per non togliere la suspense al lettore, se non per dire che a tratti la “caccia” assume toni cinematografici, con colpi di scena continui che ruotano attorno a lapidi in sacrari partigiani (quello della “Muccini”), cognomi diversi ma tanto simili, articoli di giornali tedeschi vecchi di trent’anni, documenti ingialliti e mai consultati da nessuno che spuntano inattesi dall’archivio storico civico di Sarzana. Si chiamava Kurt o Paul, quell’attendente? Chi era davvero? E che fine ha fatto?

Chissà: il finale è aperto. Lasciando in testa la vertigine dell’aver toccato con mano l’inesorabile potenza del tempo che trascorre e che abbandona dietro di sé, di tante vite travolte dalla storia, così poche e labili tracce.

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