In maniera un po’ imprevista il tasso di politicità del festival è aumentato di sera in sera. Una vitalità iconoclasta che cerca un canale di sfogo e che i partiti non sanno intercettare
Di appelli per fermare il conflitto nella Striscia di Gaza ce ne sono sin troppi, e puntualmente cadono nel vuoto. Ma creano accalorato sgomento se pronunciati sul palco di Sanremo da un artista, come Ghali, che sa trasformare la sua fama in una macchina politica.
Non stupisce che ad esso abbia fatto presto seguito il comunicato dell’amministratore delegato Rai Roberto Sergio, letto da Mara Venier durante Domenica In, in cui si ribadiva tetragona solidarietà al popolo d’Israele. Chiosava Venier che quelle parole, «ovviamente», erano condivise da tutti: ma la conduttrice non ha poi avuto la bontà di precisare l’insieme di persone cui quel “tutti” si riferiva, né quanto esteso questo insieme fosse. Con lo stesso zelo, benché meno compassato, sempre Venier imponeva il silenzio a Dargen D’Amico sulla questione arroventata dei migranti, dopo tutte le tensioni di un Sanremo attraversato dal timore collettivo della possibile vittoria di Geolier, figura considerata assai meno rappresentativa di Angelina Mango.
Insomma, proprio l’edizione che prometteva la più categorica astensione dalla politica ha fatto registrare un tasso di politicità senza precedenti. E questo tasso va salendo via via che in questi giorni si tenta di sedarlo. Si vorrebbe riportare il fiume sanremese, esondato senza preavviso, negli argini del normale corso di un evento sì importante, ma che è pur sempre dedicato alla musica leggera e in cui tutto, dunque, dovrebbe essere leggero. Eppure, chi sta provando a smorzare il dibattito con un conformista richiamo al senso dell’opportunità dimostra di non capire appieno cosa sia la politica.
Richiesta ignorata
La chiave del Sanremo 2024, allora, è proprio quella potenza iconoclasta che è l’anima profonda della politica più vitale. Una potenza che, di contro a ogni proposito, la sordina della castità verbale non ha saputo ridurre al silenzio.
Una politica che, a dispetto di ogni formula stanca, viene dal basso, agitata com’è da quelle stesse correnti che si possono leggere in controluce nella crescente astensione dal voto.
La polemica è esplosa nella mani fragili di conduttrici e conduttori che si sono detti in imbarazzo proprio perché non hanno saputo prendere le misure di una forza riottosa a ogni contenimento e a ogni tentativo di sterilizzazione anzitempo. Da che mondo è mondo, la politica è la capacità di orientare l’energia collettiva, che sempre rischia di essere acefala e ingovernabile, per riutilizzarla nello sforzo comune di immaginare il futuro e di farlo inverare. Quello che chiedono le generazioni più giovani alla politica odierna è una nuova capacità di immaginare, a cui essa ha rinunciato per assumere le fattezze di un’amministrazione di condominio. Una politica, quella partitica, in cui sostanzialmente si amministra l’esistente secondo protocolli che differiscono di poco: qualche misuratissimo richiamo ai diritti civili a sinistra, qualche smargiasso appello alle tradizioni nostrane a destra.
Non può sorprendere quindi che il pubblico (specie coloro che sono in debito di politica sin dalla nascita) si lasci attraversare dall’effervescenza di un richiamo spontaneo e franco, da una testimonianza, certo di parte, ma chiara e inequivoca, come quella di Ghali. Né d’altro canto può sorprendere che le élite provino panico a pensarsi rappresentate da personaggi, come Dargen D’Amico, che colludono con la cultura cosiddetta bassa e fanno rima in un vernacolo che sa di sottoproletariato urbano.
La politica partitica e i suoi misuratissimi custodi sul piccolo schermo sono stati presi alla sprovvista da una sete di politica altra, troppo a lungo silenziata, che è esplosa al primo tentativo d’innesco per mano di chi si fa guidare dalla libertà tipica dell’arte, ingenua quanto sediziosa. Ingenua e sediziosa come la domanda attorno a cui Edgar Morin e Jean Rouch nel 1961 costruirono Chronique d’un été: «Siete felici?». E con nuda semplicità, il sociologo e l’antropologo inquietavano fino a imbarazzare e sconvolgere, senza che censori in abito da sera o comunicati stampa potessero sedare il vortice di apprensione che un interrogativo tanto mansueto era capace di destare. Ingenua e sediziosa come le domande di Pier Paolo Pasolini in Comizi d’amore a persone comuni di ogni età sul modo in cui nascono i bambini e altri affari loschi di una pratica scabrosa e potente come l’amore. E a commento di quanto accaduto in questa edizione di Sanremo varrà forse la pena menzionare la risposta che proprio a Pasolini in Comizi d’amore diede Giuseppe Ungaretti, secondo cui fare poesia è trasgredire ogni legge e rompere ogni convenzione morale. L’arte, se arte ha da essere, non si cura del protocollo, e compie ogni gesto con l’intenzione dinamitarda di interrogare e scuotere.
I compostissimi corrucci e le collaudate proteste con cui Ghali e Dargen D’Amico sono stati messi a tacere sono tanto fuori luogo quanto lo sarebbe stata una dichiarazione di Mike Bongiorno sulla scostumatezza verbale di Ungaretti. Eventi televisivi capaci di convocare il cosiddetto grande pubblico dovrebbero piuttosto sforzarsi di sobillare quelle prese di posizione, spesso confuse e alle volte ipocrite, senza dubbio viziate dalla presenza delle telecamere, che però sanno farsi strumento di mobilitazione politica.
Luogo di interesse pubblico
Sanremo 2024 ha saputo inconsapevolmente farsi luogo di interesse pubblico, pure controverso e incendiato, ma tale da produrre un poco di energia nuova per un linguaggio politico meno protocollare e svilito. Sanremo ha avuto il pregio di saper restituire coram populo il senso di sfinimento rispetto a una politica dei partiti che insterilisce e rabbuia, e al meglio sovrintende agli affari correnti, senza più alcuna capacità di indovinare un grido che sappia farsi voce. Che questo grido il 10 febbraio scorso abbia assunto le fattezze di uno «stop al genocidio» – si concordi o meno sul merito dell’appello – è il sintomo fisiologico di un bisogno di politica che sa comunque trovare i suoi canali di sfogo.
E vorrei chiudere con un richiamo che senz’altro ha il retrogusto di morale facile e allarmata, ma tant’è: credo sia cosa buona che questa esigenza forte, sentita in specie dalle ragazze e dai ragazzi, si traduca ora in una vivace spaccatura sull’opportunità di portare la politica a Sanremo. Ma sarebbe cosa altrettanto buona che la politica dei partiti si reimpossessasse di quella capacità di mobilitare di cui difetta da qualche decennio, prima che quelle ragazze e quei ragazzi, invece di entusiasmarsi per i rapper un poco sboccati, si lascino ammaliare da chi, persino in abiti istituzionali, incita all’insurrezione armata contro la decadenza bassimperiale delle istituzioni democratiche.
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