Ci aveva già avvertito Wittgenstein: non è possibile spingerci più in là del salto compiuto dal nostro linguaggio. È per questo che, nel corso della Storia, abbiamo lanciato con foga chili di parole oltre il baratro dei pregiudizi di ogni epoca, sperando che il salto fosse abbastanza lungo da raggiungere una sponda di perfetta verbalizzazione delle nostre identità in continua trasformazione, e in particolare di quelle che non erano ancora oggetto di rispetto e tutela.

In particolare, le cosiddette “etichette” hanno svolto un ruolo fondamentale nella lotta dei diritti Lgbtq, dando espressione agli orientamenti sessuali che la struttura eteronormativa della cultura occidentale ancora considerava delle devianze, e ancor prima delle patologie.

Un altro esempio importante è quello della parola nigger, di cui gli afroamericani si sono appropriati in modo da sdoganarla dall’orrore del razzismo. La stessa cosa è accaduta alla parola gay: dal XVII secolo sinonimo di edonismo sfrenato e dissipazione, è adesso un termine neutro di definizione di un orientamento.

Risemantizzazione

zz/STRF/STAR MAX/IPx

Diverse parole hanno sostenuto il ruolo e il peso di difendere minoranze e cementare un senso di orgoglio collettivo. Questa operazione di quasi risemantizzazione, che conserva il senso ma lo riabilita, è certamente complessa e controversa, e talmente delicata da non risparmiarci continui errori: il linguaggio è insieme un’arma micidiale e uno strumento potentissimo di riscatto, e se dal potere di definirsi  passa quello più ampio di affrancare una comunità dai limiti del mondo che la contiene, è anche vero che, come scrive il sociologo David Pilgrim con il professore della Ferris University Philip Middleton, non è detto che appropriarsi di un termine denigratorio opacizzi realmente una parola, disattivando l’orrore razzista, soprattutto quando la parola viene ancora utilizzata come insulto (la parola nigger rimane in testa agli insulti più utilizzati durante crimini di odio).

Insomma, tra risemantizzazioni di parole eticamente mostruose e neologismi, affermare la propria identità tramite etichetta può essere un validissimo statement politico, soprattutto in una società come l’Italia che, ancora lontanissima dal pieno riconoscimento dei diritti delle persone Lgbtq, ha più che mai bisogno di relative etichette. Ma il mio dubbio è questo: e se ci fossimo lasciati prendere un po’ la mano?

Etichettare tutto 

STRF/STAR MAX/IPx

Mi sembra che, al netto delle etichette importanti che veicolano una lotta politica, stiamo assistendo alla proliferazione di etichette vuote che esprimono nient’altro che un’ansia di catalogarsi per confluire immediatamente in un gruppo. In altre parole, si tratta di etichette che anziché da una necessità politica derivano da una forma di solitudine.

Basta farsi un giro tra i profili di una delle dating apps più in voga, OkCupid, per ritrovarsi in un dedalo di demisexuals, aromantic e molto altro. C’è il grayromantic, ovvero chi si innamora raramente (e chi l’ha detto che bisogna innamorarsi di frequente, che sia più sano?), il recipromantic, che ama solo se ricambiato (e non è la cosa più sana? Il contrario sarebbe uno stalker) e l’aroflux, la cui capacità di innamorarsi fluttua nel tempo (invece dovrebbe innamorarsi sempre, come un cane?).

Semi-sessualità?

Science Photo Library

Tra tutte, quella più utilizzata è demisexual. Per chi non lo sa, demisexual definisce chi prova solo attrazione sessuale per persone con cui si è già stabilita una connessione emotiva. In pratica, io sarei una demisexual, ma non solo io: con me tantissime persone che conosco.

Sospetto che intere generazioni di donne (boomer in testa) confesserebbero o sosterrebbero con convinzione che un tempo era normale, che il normale corso delle cose era proprio quello di attendere un legame emotivo per poi pensare a trasporlo sulla carne. Perché mai questo sarebbe una devianza? O meglio, da cosa sarebbe una devianza? Da una sessualità slegata dal pathos, al pari dell’aerobica?

Io non ritengo di essere una demisexual, prima di tutto perché non ritengo che subordinare l’attrazione sessuale a una connessione emotiva sia da considerare una deviazione dalla norma (né tanto meno una semi-sessualità, come suggerisce il termine), e secondariamente perché non ritengo affatto che la situazione descritta dall’etichetta demisexual sia un orientamento sessuale. Tutt’al più si tratta di un modo di essere: un tempo  si diceva “mentale”, modo vago ma accurato per descrivere una prevalenza della mente sulle pulsioni del corpo.

Se la prevalenza dell’emotività sulla pulsione sessuale è un orientamento sessuale, cos’altro lo è? La prossima etichetta sarà forse l’empasexual, ovvero chi prova empatia per la persona con cui ha un rapporto sessuale? E che dire di chi piange dopo l’orgasmo, cosa piuttosto comune e solitamente definita sex blues? Li chiameremo lacrimosessuali?

Insicurezza comunicativa

Using smart phone for internet dating (Ikon Images via AP Images)

Dopo le campagne per il sesso sicuro degli anni Ottanta, si rischia una cosa opposta: una campagna linguistica capillare di sesso senza troppi approfondimenti, si spera sicuro a livello di protezione genitale ma forse insicuro a livello comunicativo.

L’ancora altissimo tasso di femminicidi richiederebbe al contrario un’educazione sentimentale, e invece stiamo educando le nuove generazioni a non comunicare, a gettarsi corpo a corpo in esperienze fisiche dove i preliminari ammessi sono solo fisici e non certo psichici. Cosa preferirebbe, infatti, una ragazzina ancora giovane e insicura: definirsi “demisessuale” o esplorare il sesso con il sollievo scervellato di una presunta “normalità”? 

Gli esseri umani tendano a un consumismo linguistico che li porta a etichettare compulsivamente, il che ha innanzitutto delle ragioni neurologiche—il cervello comprende attraverso la creazione continua di schemi e l’inserimento delle esperienze in quelli schemi— ma non c’è il rischio che la sacrosanta ansia di definire le presunte deviazioni dalla norma finisca per creare artificialmente una norma?

Isteria degli anni Venti

Dating app (Ikon Images via AP Images)

Il mio timore è doppio. Da una parte ho paura che questo labelling compulsivo svuoti pericolosamente di potere quelle etichette che invece hanno un valore politico e identitario fondamentale, rendendole velleitarie, e dall’altra temo che di questo passo qualunque specificità umana, incluse quelle di tipo emotivo che non sono certo orientamenti sessuali, verrà etichettata come deviazione da una norma che norma non è, a meno che si definisca “norma” una smania copulativa che metta in secondo piano qualunque riflessione sull’atto.

Mi ricorda un po’ la genesi della patologia isterica, ovvero la violenza con cui la diagnosi di isteria veniva appioppata alle donne non allineate con la mitezza che a loro si richiedeva. Spero che non finisca così: spero che il labelling non diventi l’isteria degli anni Venti del Duemila, ovvero uno strumento di de-normalizzazione dell’emotività.

Nel frattempo, io mi rifiuto di ricoprirmi di etichette come un prosciutto al supermercato, e rivendico con orgoglio una sessualità che non esiste (o esiste a malapena) al di fuori di un legame emotivo. L’identità non può essere un foglio Excel in cui tutto viene scandito nel suo rapporto con la sessualità: è passata un bel po’ di acqua sotto i ponti dai lettini di Freud e dalle mogli incatenate ai manicomi perché si rifiutavano di andare a letto con mariti indifferenti.

Guardiamola meglio, quest’acqua sotto i ponti: guardiamo il nostro riflesso variegato e mobile e il modo in cui siamo riusciti a rappresentarlo nel corso della Storia, e cerchiamo di proteggere questa complessità, anziché farla a pezzi con parole vuote, che anziché unire le persone le dividono da sé stesse.

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