La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le foibe. Questo non vuol dire negare di per sé l’utilità della storia comparata, che anzi può agevolare molto la comprensione dei singoli fenomeni, inserendoli all’interno di un contesto più ampio.

Così, ad esempio, porre a confronto i sistemi concentrazionari novecenteschi ci aiuta a comprenderne sia i tratti ricorrenti che le evidenti specificità.

Un’altra delle altre grandi strutture della contemporaneità europea, quella rappresentata dai massicci spostamenti forzati di popolazione, lascia emergere bene proprio attraverso i paragoni incrociati, un’articolazione complessa fra deportazioni, espulsioni ed esodi.

Stringendo il campo sull’area adriatica, l’impresa fiumana s’intende meglio collegandola a quelle di altri e meno conosciuti D’Annunzi del Baltico; allo stesso modo, torna utile considerare le politiche avviate dal regime fascista per snazionalizzare le minoranze slovena e croata nell’ambito di un più generale dibattito europeo fra scelte assimilazioniste e discriminatorie a danno delle minoranze rimaste dalle “parti sbagliate” delle frontiere emerse dalla Prima guerra mondiale.

Anche le Foibe possono venir comparate ad altri fenomeni simili, perché di stragi, purtroppo, fra la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra ce ne sono state moltissime.

Le stragi

Fin dai giorni successivi alle uccisioni dell’autunno 1943 ad esempio, i massacri che in Istria fecero circa 500 vittime vennero dalla propaganda fascista paragonati alle fosse di Katyn: a ciò la propaganda jugoslava replicò che le Foibe erano false come le stragi sovietiche vicino Smolensk commettendo, in prospettiva storica, un clamoroso autogol.

Inoltre, le stragi del 1943 e soprattutto quelle del 1945, quando le vittime furono alcune migliaia, possono venir legittimamente comparate con altre violenze di transizione, come ad esempio quelle del “triangolo della morte” emiliano.

In questo caso è proprio il confronto puntuale a far emergere la specificità della vicenda giuliana rispetto ad altre, apparentemente simili, dell’Europa occidentale. In Emilia infatti l’esplosione di violenza fu la coda di una lunga guerra civile avente il suo secondo atto nella Resistenza, ma al di fuori di un progetto organico di presa del potere comunista, che magari molti ex partigiani sognavano, ma i vertici del Pci no, tanto che cercarono di contenere le spinte rivoluzionarie.

Ancor più interessante è il raffronto con le coeve stragi avvenute nei contermini territori della Slovenia e della Croazia, dove i morti sfiorarono le 100mila unità. È facile vedere come in realtà non si tratti di due fenomeni distinti, ma della medesima ondata di violenza, avvenuta con le stesse modalità e sulla base dei medesimi ordini, decisa dai medesimi organi dei partiti comunisti sloveno e croato, gestita prevalentemente dalla polizia politica, l’Ozna, in un’area che dal punto di vista jugoslavo era unitaria, perché le province giuliane non solo erano occupate dall’armata popolare jugoslava, ma erano considerate annesse alla Jugoslavia fin dall’autunno del 1945.

Ovviamente, a differenza della gran tomba a cielo aperto della foresta di Kočevje, non lontano da Lubiana, da cui continuano a emergere cadaveri sloveni, a Fiume, Istria, Trieste e Pola le vittime furono quasi esclusivamente italiane, non solo perché italiani erano stati i fascisti, ma perché italiano era il potere che si voleva abbattere per via rivoluzionaria.

Tutto ciò non ha niente a che vedere con un genocidio. Lo possiamo dire con assoluta certezza non solo sulla base della percentuale delle vittime rispetto alla popolazione italiana della regione, ma perché conosciamo perfettamente gli ordini che guidarono la repressione e che con la prospettiva genocida non c’entravano nulla.

Verità soggettiva

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Diverse invece furono le percezioni delle vittime, subitaneamente travolte da una catastrofe epocale che sembrava confermare nel sangue i più antichi timori di una “minaccia slava” volta a distruggere con ogni mezzo l’italianità adriatica.

Tale verità soggettiva si è poi consolidata, specie dopo l’altrettanto traumatica esperienza dell’esodo istriano, in una memoria inscalfibile, com’è abbastanza usuale che accada in circostanze del genere. Con un solo apparente paradosso poi: proprio l’oblio in cui è a lungo caduta quella memoria dolente al di là dei circuiti autoreferenziali degli esuli, ne ha rafforzato l’asprezza, assieme a un complesso di inferiorità rispetto ad altre memorie ufficialmente riconosciute.

È in questo contesto che in alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.

Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.

Il primo, consistente nel concentrare l’attenzione non sul momento dell’entrata in vigore del Trattato di pace che sottrasse all’Italia Zara, Fiume e l’Istria, ma a quello della sua firma, quasi che la responsabilità ne pesasse sull’Italia democratica – che era stata costretta ad accettarlo – e non su quella fascista che aveva determinato il collasso dell’italianità adriatica.

Il secondo, riferito alla contiguità con il giorno della memoria, fonte di ripetute e non sempre ingenue confusioni, nonché di un evidente intento bilanciatorio. La tendenza si è confermata negli anni successivi, con inabissamenti e repentini affioramenti anche in relazione ai mutamenti del clima politico, fino alla recente proposta parlamentare di equiparare i «massacri delle foibe» alla Shoah nell’articolo 604 bis del codice penale.

Pulsioni illiberali

Possiamo dunque ben dire, che di fronte a un nodo autenticamente cruciale del nostro modo di accostarci al passato, com’è quello del rapporto mai facile fra le memorie offese e la storia in quanto disciplina critica, che richiede grande sensibilità e rispetto, le esigenze dell’uso pubblico e dell’abuso politico abbiano viceversa avuto un effetto deflagrante.

Il paragone Foibe/Shoah, privo in realtà di qualsiasi sensatezza, è divenuto una bandiera da piantare per testare il grado di patriottismo/anticomunismo di questa o quella formazione politica.

Certo, non hanno giovato alla serenità del giudizio le polemiche con le quali intellettuali e gruppi di estrema sinistra hanno voluto contestare l’esistenza dei massacri, la loro natura criminale e la loro funzionalità a una precisa progettualità politica. Ma tali derive negazioniste, in realtà marginali, sono state e vengono tuttora utilizzate quali pretesto per massicce campagne politiche volte a riproporre come unica verità accettabile, anche dalle istituzioni, le parole d’ordine del nazionalismo italiano, negando viceversa pregiudizialmente ogni legittimità a punti di vista che non si conformino a tale vulgata, anche se fondati su basi documentarie larghe e studi rigorosi.

È la conferma di come inquietanti pulsioni illiberali siano ancora diffuse all’interno di alcune culture politiche del nostro paese.

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