Il romanzo sembra miscelare chimicamente l’acido scozzese con il cannibalismo italiano anni Novanta. Nelle pagine del libro incombe l’ombra della tragedia, ma resta abilmente fuori dall’orizzonte narrativo
Esistono spazi di rassicurante rifugio che solo l’avventura e il suo insistito inseguimento possono offrire. Luoghi in cui finalmente l’incedere inesorabile della rassegnazione trova un suo argine invalicabile. Se avventura deve essere allora la notte arriva prima di ogni altra cosa, là dove le scorribande si aprono a mille possibilità inedite e dove la verità stupisce esibendosi libera da ogni convenzione e da noiose formalità. Inseguire l’avventura, ripulirsi dalla noia, è quanto ricercano nel loro disadorno vagolare i protagonisti disincantati quanto disperati del vivido e ruvido romanzo d’esordio White People Rape Dogs di Jacopo Iannuzzi (Einaudi, Stile libero).
Costruito attraverso cinque movimenti, il romanzo ha la forma ondulatoria di un equivoco mai chiarito in cui tutto può accadere da un momento all’altro, che sia per distrazione, per sfiga o per quello stupido passatempo che alle volte accende e altre volte distrugge esistenze.
I protagonisti del libro vivono all’interno di una condizione di abbandono permanente, come solo la minuta provincia umida e nebbiosa del Nord Italia può offrire alle coscienze e ai corpi dei suoi ultimi e sempre più rari under trenta. Iannuzzi plasma i propri personaggi come dei Werther contemporanei, figure ultraletterarie e tragiche quanto però postpsichedeliche e non poco comiche.
Cannibalismo italiano
White People Rape Dogs sembra così miscelare chimicamente e brillantemente l’acido scozzese (Acidi scozzesi, Einaudi, 1998) con il cannibalismo italiano anni Novanta, ovvero il gruppo che fu – per fortuna o per marketing – messo in posa in una mitica e rivoluzionaria antologia, Gioventú cannibale, da Daniele Brolli che ne curò l’edizione per conto di Einaudi.
Sono passati quasi trent’anni dalla prima edizione di quella ormai storica antologia che comprendeva tra gli altri Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, Daniele Luttazzi e la poco ricordata ma bravissima Alda Teodora, e trent’anni è all’incirca l’età di Jacopo Iannuzzi oggi, eppure il riverbero di quei testi e la loro evidente capacità d’incidere su un terreno fino ad allora poco esplorato offrono ancora nuovi spunti e interpretazioni.
Iannuzzi è dunque cannibale (e acido), ma in modo quasi classico, riprendendone le ambientazioni e i tic e pure quella forma d’ironica e cinica violenza (si sta pur sempre dalle parti di Pulp Fiction, pieni anni Novanta), ma descrivendo e raccontando sempre una contemporaneità non artefatta, che mostra da quel tempo differenze radicali e spazi letterari ancora molto poco indagati. A partire da un approccio sostanzialmente romantico, nonostante la solitudine e lo sfondo di una periferia urbana infinita che si è mangiata la campagna quanto la città per come la si intendeva anche solo pochi anni fa.
Uno sguardo che coglie una possibilità diversa, quasi una felicità a portata di mano. L’avventura vive sopra a ogni cosa e a ogni tristezza. Una riscoperta quasi ingenua e sottile dentro alla quale Remo, Jem, Pingu e Franco, i protagonisti della vicenda, mettono in palio gli ultimi pezzi di un’infanzia in via di rapido smantellamento.
Eccitazione e pericolo
I ragazzi si muovono con improvvise accelerazioni in cui eccitazione e pericolo sono le gambe veloci di un’esistenza che acquista finalmente senso e pienezza.
Al tempo stesso il romanzo offre momenti di pura sospensione in cui un erotismo spiccio e porno-telegrafico restituisce respiro al vuoto interiore del protagonista, lasciando un disincantato e quanto mai perplesso Remo sempre in sospeso equilibrio, come abbandonato su quel ripido crinale che pare l’unico passaggio obbligato oggi per capire qualcosa di sé e degli altri. Nessun crollo è però più temibile, e la stessa violenza resta all’interno di un gesto che è più un tentativo di eroismo che di nichilismo. La paura è tutta per il vuoto e per quella forma di assenza di sé che coglie sempre alle spalle e sempre alla sprovvista.
Non è più il tempo dell’ouverture de La gazza ladra di Rossini a colorare la follia di Arancia meccanica, qui ci si gioca tutto con l’improvvisazione da techno jazz, nel gesto estremo e nel tentativo di quel colpo – sempre sognato – da tutto o niente. Una notte che vale per tutti i giorni a seguire, perché nulla va mai davvero oltre al gioco, a una cornice di senso resa plausibile solo da un essere giovani consapevole della propria stessa fatica d’esistere.
Eredi mancati e perplessi
Si ride anche molto e ci si diverte seguendo l’avventurarsi un po’ bislacco e un po’ da Vite brevi di idioti dei protagonisti di White People Rape Dogs. Eredi mancati e perplessi di un mondo che fu straordinariamente letterario, ma oggi chiuso per sempre in quel crollo di muro che fu la fine del Novecento.
Nipoti incompresi del Zanardi di Andrea Pazienza e del Cioffani di Gianni Celati. Corpi sparsi lungo quella linea provinciale – ormai priva di anime – che taglia in orizzontale un paese tutto verticale. L’ombra della tragedia incombe, ma resta abilmente fuori dall’orizzonte narrativo. È molto bravo Jacopo Iannuzzi a lasciare scorrere le pagine senza mai chiudere gli avvenimenti dentro un’esplicita dichiarazione di sconfitta, anche perché molto sembra sempre essere già accaduto.
Credevamo di vivere in un post e invece ci ritroviamo in una replica che si rivela sempre più sconosciuta, una versione aggiornata che ci obbliga a una letteratura sempre in bilico tra la citazione e la sua storpiatura, tra la reinterpretazione e il totale fraintendimento, perché l’eventuale, e comunque tutta da rivelare, verità non può più vivere in quello spazio logico che fu analogico e consequenziale. E in questo aspetto White People Rape Dogs rivela pienamente la sua contemporaneità che appartiene a una giovinezza confusa, ma sempre irriducibilmente volitiva.
Uno spazio magico in cui il tutto che può accadere in verità poi accade per davvero. Si è giovani per davvero, ma si è giovani e basta una volta soltanto: «Questa città. Queste persone. Le loro facce, le loro deformità, mi dice. Che dobbiamo fare noi?». La città vista dall’alto non offre altra prospettiva se non quella di un’occasione imperdibile, il lancio di uova sulla gente sottostante.
Vecchia burla da Amici miei o da Quelli della notte in stato di consumata e ossessiva presenza. Tutto è già visto, eppure nulla è più comprensibile, e anche l’anfetamina e i suoi derivati non sembrano più in grado di aggiungere o chiarire nulla, al massimo offrono noiosi postumi.
Come una bomba
Agile e rapidissimo, il romanzo di Iannuzzi sta alla larga dalla forma manifesto e anche dalla possibilità di rappresentazione di una generazione. L’autore resta in cordiale intimità con i suoi personaggi, con la combriccola che per fortuna non si farà mai in forma di compagnia, resistendo in quella differenza che non mostra e non definisce, ma che offre ai lettori la possibilità di un panorama credibile fatto di sentimenti contrastanti.
Odio e felicità, stupidità e raziocinio si alternano in un movimento realissimo. Un gusto per l’inciampo e lo smarrimento che meglio non può raccontare come l’apparire dei giorni dopo la giovinezza possa rivelarsi proprio per la sua totale incomprensibilità assolutamente comico. La caduta forse verrà come liberazione o come opportunità, ma nel mezzo si offre una risata ancora tutta da esplodere improvvisa. Come una bomba.
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