Dalla scatologia viene il termine rinfacciato da Meloni a De Luca, mentre la “frociaggine” papale ha origini incerte. Ma nel linguaggio vince l’uso, e subito frasi e termini sostitutivi diventano interdetti. Soprattutto in tempi woke
È dalla scatologia che proviene uno degli insulti più comuni, “stronzo”. Viene dal longobardo “strunz”, sterco. Designa una massa fecale solida di forma cilindrica. A forma di stronzo. È un epiteto volgare e ingiurioso, la cui connotazione offensiva si è andata via via riducendo con il tempo, fino a significare, genericamente, secondo Treccani, «persona inetta e incapace, o che comunque si comporta in modo criticabile».
«”Ci ha detto anche stronzo... E, in quanto a stronzi”, crollò il capo, “siamo tutti compagni”», scrive il sublime scrittore Carlo Emilio Gadda. Poi si può anche scherzare, in tono confidenziale, e dare dello stronzo in tono amichevole: “Dai, non fare lo stronzo, vieni con noi!”
Vale anche in funzione di aggettivo, come attributo o come predicato: “Che ragazza stronza!”; “Ma sei proprio stronzo!”; “Quanto siete stronze!”; “Impiegati stronzi così non ne avevo mai conosciuti!” E, con tono scherzoso, all’amico: “Sei il solito stronzo!”
Alberto Arbasino prima, Edmondo Berselli poi utilizzarono questa dizione come termine medio del paradigma della carriera dell’intellettuale italiano, che evolve da brillante promessa a solito stronzo fino a divenire venerato maestro. Oggi pure qui si è interrotto l’ascensore sociale, sia per le promesse sia per i maestri.
Felicia Kingsley, bestsellerista del romance italiano, ha scritto Stronze si nasce, così come in biblioteca si può leggere Il manuale della stronza, La manutenzione della stronza, Fai uscire la stronza che c’è in te, La magnifica stronza fino a Cenerentola è una stronza e Il fascino discreto degli stronzi.
Lo si può riferire ancora ad atteggiamento o discorso stupido, odioso, detestabile: “Ragionamenti stronzi”; “Un comportamento stronzo”; “Ha delle idee davvero stronze”.
Slitta pure il genere, e anche al femminile è passato a significare “sciocca” o, fuori dall’interdetto verbale, “cogliona”, “testa di cazzo”, “merda”. Come è certificato dal presidente del Consiglio, che qui sceglie di declinare al femminile, in «Sono quella stronza della Meloni», in un discreto numero di cabaret interpretato con il vecchio comico un po’ trombone De Luca. (Ammetto: Meloni mi fa ridere).
Etimo incerto
Quanto ai froci, l’etimo è invece incerto. Sicuramente romanesco e offensivo per “Uomo attratto sessualmente da altri uomini, o che ha rapporti sessuali con loro”.
Sinonimi da Treccani: «(lett., offensivo) bardassa, (offensivo) buco, (offensivo) checca, (region., offensivo) culattone, (offensivo) culo (rotto), (settentr., offensivo) cupio, (fam., offensivo) diverso, (roman., offensivo) frocio, gay, (disus.) invertito, (non com.) omofilo, (offensivo, non com.) paraculo, pederasta, (offensivo) recchione, sodomita, (psicol., non com.) uranista, (offensivo, gerg.) zia.
Quella della frociaggine è una discussa categoria trasversale che congiunge l’Atene di Platone alla Roma di Catullo, la Firenze di Michelangelo alla Londra di Shakespeare e alla Parigi di Proust, per citare soltanto alcuni svincoli fondamentali.
Si tratta di una letteratura dai margini felicemente fluidi. E proprio in questo sta la sua attualità, oggi che vanno cadendo molti confini politici, economici, culturali, identitari. Così come nell’ultimo romanzo di Flaubert, Bouvard et Pécuchet, uscito postumo nel 1881, lo strettissimo sodalizio amicale tra gli eroi eponimi, che si badi ha il suo apice nel progetto di adottare insieme due bambini, è impensabile al di fuori di un contesto storico che vede l’elaborazione di un’identità omosessuale moderna, e include le esperienze omosessuali di Flaubert stesso.
Tra il 1870 e il 1950 la letteratura gay annoverò figure come Heny James, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Oscar Wilde, André Gide, Marcel Proust, Thomas Mann, Edgar M. Forster, Umberto Saba, Aldo Palazzeschi, Jean Cocteau, Carlo Emilio Gadda, Federico Garcia Lorca, Sandro Penna, Wystan Hugh Auden. Poi la scena tocca ad Alberto Arbasino, Paolo Poli, Pier Paolo Pasolini.
Nel 1994 Walter Siti pubblica il suo primo romanzo Scuola di nudo. Si tratta del romanzo fondativo dell’autofiction italiana che narra le vicende di un ordinario di letteratura italiana “in rivolta”, come dice egli stesso parafrasando L’uomo in rivolta di Albert Camus; l’autore rileva di aver voluto creare una specie di doppio letterario alla stessa maniera in cui era stato pensato da Pier Paolo Pasolini nel suo romanzo postumo intitolato Petrolio.
Così, dai racconti dei contadini emiliani incontrati in gioventù a quelli dei culturisti delle palestre di oggi, Walter Siti, personaggio protagonista, vive e descrive i desideri della propria sessualità ossessiva insieme alle storie sporche delle corruzioni che avvelenano il mondo dell’università italiana.
Tra invidie, scambi di favori e denaro, falsità, superficialità di corpo e morale, questa autobiografia contraffatta getta uno sguardo lucido e spietato sulla società e sulla politica italiane, in tutta la loro peccaminosa disonestà. L’esordio letterario di Walter Siti è un libro da rileggere, intenso e scandaloso, in bilico tra saggio, satira, invettiva e canzoniere d’amore.
Nel 2019 Jonathan Bazzi pubblica Febbre, un romanzo che esula dai giudizi e sposta il baricentro sull’accettazione delle fragilità. «Bazzi usa una lingua contaminata – la lingua di una periferia dove si parla un pidgin febbrile di milanese, napoletano, pugliese e siciliano – a tratti interrotta, a tratti fluida, distorce, denuncia, svela, innalza e abbassa la soglia della gioia. Così il protagonista, creatura in divenire, non cerca un’identità, o almeno non nelle categorie esistenti, ma ne inventa una sua personale in cui si ama su internet (“usatemi per studiare il cuore del nuovo millennio, quello che prima s’innamora e poi ti vede in faccia”), in cui si può essere tutto, felicemente tutto: colto, balbuziente, emotivo, gay, ironico e anche sieropositivo», ne scrive Teresa Ciabatti candidandolo allo Strega.
Le brutte parole
C’è poi un libro introvabile del 1964, uscito negli Oscar Mondadori nel 1969 e mai più colpevolmente pubblicato (dai, Oscar Mondadori, fatelo), che si intitola Le brutte parole, semantica dell’eufemismo, scritto dalla linguista Nora Galii de’ Paratesi. Uno studio sulla censura del linguaggio. Sull’interdizione verbale operata dall’inconscio, dal pregiudizio, dal pudore e dalla convenienza. Le funzioni corporali, ma anche la vergogna delle malattie più gravi; la morte, l’amore, il corpo, il sesso, ma anche i mestieri più umili ci inducono a indicare l’oggetto del nostro discorso con delle perifrasi, con un vocabolo allusivo, per evitare quell’immediatezza e quei termini che infrangerebbero le norme della buona educazione e della decenza.
Che offenderebbero l’interlocutore, che urterebbero la nostra sensibilità. Ma la lingua si sottrae sempre alle norme, vince l’uso, e subito anche frasi e termini sostitutivi diventano interdetti, in un giuoco di creatività e d’invenzione linguistica che non ha mai fine. Soprattutto nei tempi del woke e della cancel culture.
Semmai, nella pragmatica della comunicazione, è interessante notare l’inversione dei ruoli tra il comico che fa una predica pubblica in San Pietro e il papa cui scappa in privato una battutaccia degna degli anni giovanili e scapestrati di quel comico.
Insomma, siamo tutti froci. E un po’ stronzi.
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