- Un testo inedito di uno dei più importanti e raffinati scrittori dell’est Europa, sul nostro tempo sconvolto dalla pandemia e dalla guerra.
- Cartarescu è considerato da molti come il più importante autore romeno contemporaneo e sarà ospite il 21 luglio all’ultima serata del Letterature Festival allo Stadio Palatino, Roma.
- La malattia e l’isolamento hanno portato l’autore a riflettere sul suo lavoro, su ciò che conta nella vita e sulla sua generazione, in uno scontro tra l’ottimismo liberale di Fukuyama ed il pessimismo realista di Hobbes e Kant.
La mia crisi è iniziata nella primavera del 2020, nei primi mesi della pandemia, quando mi sono sentito all’improvviso male fisicamente, con le prime manifestazioni di un’influenza insolitamente forte.
Sono rimasto a casa, a letto, per una settimana, dopo di che, pian piano, mi sono rimesso. Non mi sono ricoverato e non ho nemmeno fatto un tampone per il Covid, perché un buon amico, un medico il cui ospedale si è trasformato per i successivi due anni in una struttura destinata in esclusiva agli affetti da Covid, mi ha detto che, se non ho contratto la malattia, di sicuro la prenderò dentro l’ospedale, insieme con vari altri microbi.
In Romania è opportuno fare tutto il possibile per restare sani, poiché se si entra in un ospedale se ne esce più malati di prima. Non ho mai avuto la certezza assoluta se ho avuto o meno a quel tempo il Covid. Oggi, però, non ho più alcun dubbio.
Mi sono isolato per quel che ho potuto per un’altra settimana ancora, dopo di che ho cercato, sia pure in condizioni di reclusione, di riprendere la mia vita abituale. Non c’è però stato più modo.
Il bosco
Abitavo allora in un bosco alla periferia nord della città sicché, nonostante i divieti di circolare, potevo fare lunghe passeggiate lungo i sentieri silvestri, in mezzo ad alberi vetusti, col fogliame inarcato sopra di noi. Era un grande atout, poiché altrimenti era possibile spostarsi solo per comprare del cibo, in caso contrario si pagavano multe consistenti.
Il bosco era deserto, incontravo molto di rado delle persone e, tutte le volte che le vedevo, me ne tornavo indietro o facevo lunghe deviazioni per evitarle, per sfuggire al loro respiro che, pur attraverso le mascherine alle quali ancora non eravamo abituati, poteva essere assai pericoloso.
Il panico cresceva a dismisura, sempre più persone morivano di Covid, non esistevano ancora vaccini, alla tivù venivano diffuse statistiche catastrofiche. Camminando con passo veloce nel bosco, parlavo con mia moglie di questo soltanto: cosa faremo? Se ci ammaliamo? Se c’intubano, tenuti in vita da un polmone artificiale, com’è accaduto con alcuni dei nostri conoscenti?
Quantomeno io, avendo più di sessant’anni, ero in una zona di rischio considerevole.
Una vita fortunata
La nostra vita era trascorsa fino ad allora tranquilla. Spesso dicevo a Ioana che siamo, probabilmente, fra gli uomini più fortunati che abbiano mai vissuto su questa terra.
I nostri avi hanno vissuto epoche terribili, con una aspettativa di vita ridicolmente bassa. Molte donne morivano durante il parto, metà dei loro figli moriva prima dell’adolescenza, la vita era una lotta continua contro la fame, le malattie, le invasioni straniere.
I nostri nonni hanno conosciuto sia il primo che il secondo conflitto mondiale, con i loro orrori indicibili, i nostri genitori hanno vissuto l’intera loro vita sotto dittatura, nella paura della polizia segreta, fra le umiliazioni della vita quotidiana.
Mia madre faceva ogni giorno code infinite per procurarci del cibo, e me la ricordo tornare più volte a mani vuote, piangendo poi per ore intere col capo chino sul tavolo.
Siamo passati anche noi in gioventù attraverso la dittatura, ma i nostri genitori hanno fatto con i loro corpi uno scudo che ci ha protetti da difficoltà e pericoli insormontabili.
Abbiamo avuto la possibilità di una educazione migliore della loro e alla fine abbiamo avuto anche la fortuna di vedere il crollo di una dittatura che si dichiarava comunista mentre in realtà, per tutte le sue caratteristiche, era un nazional-socialismo molto somigliante al fascismo.
Poi ho potuto viaggiare, ho vissuto per parecchio tempo in Paesi occidentali, quindi sono anche arrivato in altri continenti, ho beneficiato della rivoluzione tecnologica dei computer, dei telefoni cellulari e delle reti di socializzazione.
Ho vissuto in una prosperità diffusa, in uno spazio corretto, in un sistema sanitario e formativo che le teste coronate del passato non avrebbero nemmeno sognato, e in cui vive oggi pressoché ogni abitante dell’Europa.
Ho creduto sinceramente nell’utopia di Francis Fukuyama, secondo cui la storia termina nel momento in cui la maggioranza degli Stati del mondo si dichiarano seguaci del sistema democratico di tipo americano.
In realtà, il crollo dell’Unione Sovietica, la caduta del Muro di Berlino, l’abolizione della Cortina di Ferro erano state vittorie della democrazia che avevano portato molto ottimismo nel mondo.
Dal dicembre 1989 fino all’11 settembre 2001 abbiamo vissuto probabilmente nel periodo migliore della storia dell’umanità, dodici anni in cui abbiamo sperato che le ideologie avessero trovato la loro fine e ci fosse concesso di vivere le nostre vite in pace.
Dal 1945 non c’era più stata una guerra guerreggiata, le dittature erano cadute, il progresso tecnologico è divenuto esponenziale, avevamo accesso a tutta la musica, a tutti i libri e a tutti i film tramite streaming, potevano sognare la discesa su Marte, le vittorie contro il cancro e altre malattie, l’abolizione delle discriminazioni e delle disuguaglianze fra gli uomini, un mondo globalizzato nel quale ognuno può comunicare all’istante con tutti gli altri, l’azione di contrasto al riscaldamento globale.
Gli Stati in cui c’era ancora una dittatura sembravano fare anch’essi, almeno al livello di enunciazione, passi verso la distensione e verso spazi di democrazia.
Era troppo bello perché fosse anche vero, di fatto quei dodici anni di wishful thinking contraddicevano vistosamente il principio hobbesiano dell’homo homini lupus, come pure il famoso passo di Immanuel Kant là dove parla del “legno storto dell’umanità, dal quale non potrà venir mai fuori qualcosa di buono.”
Dal 2001 le cose sono cambiate
In realtà, gli attacchi alle torri gemelle di New York sono stati la chiave di volta al di là della quale, indipendentemente da spiegazioni e colpevoli, la condizione del mondo ha preso nuovamente sempre più a deteriorarsi, ponendo fine alle illusioni e riportando in primo piano i governi illiberali, i tiranni paranoici, la spartizione delle sfere d’influenza.
Ma, come usiamo dire, la nostra pelle ci è più vicina della camicia: per noi, che vivevamo in un piccolo Paese dell’Est Europa, tutte queste cose parevano lontane, e non avevano ancora alterato in maniera decisiva il nostro modo di vivere.
Ioana ed io siamo scrittori, e la cosa più importante per noi non è l’agiatezza, ma la libertà d’espressione, che abbiamo ottenuto in Romania dopo il 1989.
Ho potuto scrivere, ho potuto insegnare all’Università, ho potuto partecipare, come giornalista su tematiche civili, alla vita della comunità romena, anche se, dando fastidio ai politici corrotti e antidemocratici, ho subito conseguenze dolorose. Il vero colpo di grazia me l’ha però inferto la pandemia.
Un’ombra
Infatti, dopo che i sintomi fisici sono passati, altri sintomi, infinitamente più inquietanti e più terribili, mi si sono scatenati in seguito, in quei due anni quanto è ancora durata l’epopea del Covid, delle mascherine e dei vaccini, dell’isteria di massa, delle migliaia di morti.
Molto presto ho cominciato ad avvertire una depressione, una depressione endogena come non avrei creduto fosse possibile, soprattutto perché non avevo mai avuto problemi del genere.
Sono una natura in generale solare, serena, non avevo preso fino a quel momento né un sonnifero, né una compressa antidepressiva, né un qualche tipo di droga che migliorasse il mio stato di spirito, così come usavano fare alcuni dei miei amici.
La depressione mi ha colto in maniera inattesa, come un’automobile in strada, è passata sopra di me e mi ha lasciato disteso sull’asfalto con le ossa rotte.
So che non c’è per nulla stato qualcosa d’insolito in tutto questo periodo, che si protrae ancora oggi. So che negli ospedali psichiatrici i pazienti sono ora dieci volte più numerosi che in passato: l’uomo non è fatto per rimanere chiuso in casa, l’insegnamento on-line non è insegnamento, le strade, le sale cinematografiche, i teatri e i musei deserti non danno un’immagine troppo ottimistica, mentre il lavoro fatto da casa significa meno danaro per tantissime persone. Com’è possibile restare con la mente integra, pur senza prendere il Covid?
Nel mio caso però tutto è stato di una brutalità estrema. Mi sentivo a quel tempo come un fiammifero bruciato dalla testa ai piedi, di cui fosse ancora rimasto soltanto un filamento di cenere.
Avevo un gusto di cenere sulla lingua, sicché posso dire ora che gusto ha la depressione. È stata la prima volta in cui è comparso nella mia mente un pensiero che non avevo avuto mai: il pensiero persistente del suicidio.
Il ritorno alla poesia
Il sintomo più inspiegabile che ho avuto nel corso dell’estate successiva è stato il voler scrivere versi. Trent’anni prima avevo preso la decisione di non scrivere più, mai più, neanche una sola poesia.
Ne avevo scritte fin troppe, otto volumi, e mi è parso che bastasse. Non volevo arrivare a essere un poeta vecchio, con quaranta volumi pubblicati, e con gli ultimi trentanove che fossero soltanto dei cloni del primo.
Sono passato alla prosa, e questo è ciò che ho fatto fino a quell’estate, rispettando rigidamente la promessa fatta a me stesso. Con mia grande sorpresa, però, nella depressione che mi è scattata allora ho cominciato ad avvertire il desiderio compulsivo di scrivere poesie.
Come il profeta Isaia, avvertivo che se non scrivo non respiro più. Scoppiavo per la troppa poesia accumulata in me. Ho resistito per un po’ a questo sintomo insensato della malattia, alla fine ho però ceduto, come un alcolista, e mi sono precipitato, una mattina, alla macchina da scrivere.
Ho scritto, in una sorta di raptus, venticinque poesie una dopo l’altra! Sgorgavano come un getto d’acqua turbolento dalla cannella di un rubinetto inutilizzato da decenni. L’indomani ne ho scritte altre venti.
Non riuscivo a crederci: il mio vecchio ritmo era all’incirca di una poesia ogni due settimane. Ora scrivevo come mosso da demoni, col cuore in gola.
Dopo un mese di scrittura frenetica, così come il sorcio maschio entra in una frenesia erotica al cui compimento muore esausto, ho sentito di dovermi fermare. Dal magma fluito da me ho scelto cento poesie meglio riuscite e ho composto un libriccino di versi, il più dimesso che si possa immaginare: scuro, deprimente, senza immagini, senza infiorettature, senza alcunché di poetico, in pratica una raccolta di grida di dolore, così come faceva la dattilografa prendendo appunti nella stanza della tortura nel film Brazil di Terry Gilliam.
Quando stai male non hai più tempo per creare metafore, mi dicevo, bisogna urlare. Il libro si è intitolato “non gridare mai aiuto” e, con la sua copertina grigiastra e il suo aspetto da ‘arte povera’, è diventato il brutto anatroccolo della mia opera.
Non l’ho mai considerato un libro mio, bensì della pandemia. Sì, in quell’estate la pandemia ha scritto, tramite me, un libro di versi che mi ha salvato la vita. Tutta la malattia, tutta la purulenza, tutto il sangue rappreso ne hanno impregnato le pagine, quasi fossero un pezzo di garza con del sulfamidico posto sopra una ferita.
L’ho pubblicato non come se fosse un’opera d’arte, così come sono gli altri miei libri, ma quale testimonianza di un’agonia. In segno di riconoscenza, per il fatto di essere rimasto in vita grazie a lui.
Poi la mia depressione, scemando d’intensità verso la fine dell’anno, ha assunto altre forme: ho investigato e rivisto la mia vita vissuta fino a quel momento per appurare, con sorpresa e tristezza, di non avere avuto una vita.
Non avrei dovuto scrivere
La mia biografia è stata la bibliografia. Ossessionato dalla letteratura, sono rimasto cieco alle cose che accadevano intorno a me. Non ho osservato l’amore con cui mi hanno circondato le persone a me vicine. Non ho saputo donare loro, a mia volta, qualcosa di me.
Fino ad allora ero stato fiero dei miei libri, della mia scrittura. Nel corso della pandemia ho avuto la rivelazione che, scrivendo senza sosta, con il massimo fervore e al livello più alto che mi fosse possibile, per una durata di quarant’anni, ho sprecato buona parte della vita.
Mi sono reso conto che sarebbe stato molto meglio se non fossi stato scrittore, ma un individuo qualunque, in grado di godere della bellezza sconfinata del mondo, di amare e di essere amato, di operare bene, o quanto meno di osservare il mondo circostante con i suoi colori e i suoi suoni.
Per un’intera vita non ho saputo cosa mangio, né con che cosa sono abbigliato, né chi sono coloro che mi stanno intorno, essendo assillato attimo dopo attimo dal miraggio della mia arte, la letteratura. Sono stato troppo poco consapevole degli amori, dei tradimenti, delle gioie e delle tristezze della vita.
E la più deprimente di tali scoperte è stata che non ho nemmeno più tempo sufficiente per risanare il passato, per tergere le lacrime, per placare i rimorsi, per offrire a quelli mi circondano l’amore che non ho dato loro quando ne hanno avuto maggiore bisogno.
Nell’autunno della mia vita mi sono ritrovato, così come non mi ero visto nemmeno per un istante fino ad allora, simile a un albero da frutto senza raccolto.
Se qualcuno mi chiedesse ora se ho realizzato qualche cosa a questo mondo, non parlerei dei miei libri, che considero soltanto dei prodotti inerenti alla mia mente, per i quali io sono stato un mero varco di passaggio verso il mondo, ma delle azioni che la saggezza dell’uomo della strada considera le realizzazioni supreme: sì, ho costruito una casa, ho avuto un figlio e ho piantato un albero da frutto.
Poi è arrivata la guerra in Ucraina
Poiché le disgrazie non vengono mai sole, subito dopo la pandemia è arrivata la guerra d’Ucraina, che si osserva in maniera diversa quando si ha una frontiera di parecchie centinaia di chilometri col Paese aggredito.
Putin è brutale e autarchico, la sua guerra è ugualmente primitiva quanto quella dei Tatari di un tempo, portata avanti però con mezzi incomparabilmente più distruttivi. La Russia è la prima potenza che, dopo il 1945, minaccia con l’uso dell’arma nucleare.
Quante altre disgrazie non bussano però oggi alle nostre porte! Occorre parlare ancora del riscaldamento globale, con le sue minacce per la nostra progenie? Ovvero della disumanizzazione che ci toccherà nel Metaverso di Mark Zuckerberg? O dei meteoriti che non siamo ancora in grado di fermare? Vogliamo ricordarci della Cina, dell’India, del Vicino e del Medio Oriente, della Corea del Nord e di altre realtà illiberali, con leader totalitari?
È sorprendente che la nostra specie, questo “legno storto dell’umanità”, ancora non sia stata a tutt’oggi annichilita. Ciò che accade oggi è difatti in consonanza con antichissime profezie.
Il nostro è un tempo apocalittico, e tutto ciò che possiamo ancora sperare è che almeno i nostri figli abbiano ancora una loro vita, poiché si sentono già voci autorevoli che dicono che probabilmente non entreremo nel prossimo secolo.
Nel frattempo, trascino con me la mia depressione, al fianco di milioni di altri individui. Sì, i nostri antenati hanno vissuto tempi difficili, i nostri sono però tempi invivibili.
Come scrive Kafka nella Lettera al padre, a loro è toccato salire una scalinata con molti gradini, mentre a noi ne tocca una con un solo gradino, alto però quanto tutti gli altri. Com’è possibile salire un gradino più alto di te stesso? Questo non è più un gradino, ma un muro. Siamo tutti oggi con le spalle al muro.
Mircea Cărtărescu sarà ospite all'ultima serata del “Letterature Festival” allo Stadio Palatino di Roma, il 21 luglio.
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