- Economia circolare, transizione ecologica, cambiamento climatico sono espressioni entrate ormai nel patrimonio linguistico e culturale condiviso. L’importante è essere consapevoli delle riflessioni che mettono in luce la natura della sostenibilità come ecosistema flessibile, interconnesso tra persone oggetti, abiti e il mondo in cui abitiamo.
- Anche i marchi del fast fashion si stanno impegnando in comportamenti sostenibili: il colosso svedese H&M sotto la dizione “sostenibilità” raggruppa una serie di azioni e prodotti che vanno nella direzione di un futuro sostenibile.
- La sostenibilità è una via percorribile, e sta diventando sempre più una necessità. Il rapporto tra moda e sostenibilità però è fruttifero solo quando i prodotti sono il risultato di un’interazione intelligente tra la consapevolezza etica e la ricerca nel design.
Economia circolare, transizione ecologica, cambiamento climatico sono espressioni entrate ormai nel patrimonio linguistico e culturale condiviso. L’importante è essere consapevoli delle riflessioni che mettono in luce la natura della sostenibilità come ecosistema flessibile, interconnesso tra persone oggetti, abiti e il mondo in cui abitiamo.
Un progetto che consideri problematiche tecniche e tecnologiche, ma anche fatti politici e dimensione estetica in modo che possano, insieme, trasformare i labirintici meccanismi del consumo e della produzione di moda.
L’idea è che nel sistema della moda le regole della sostenibilità siano automaticamente inglobate nella progettazione. Il ruolo della scuola è fondamentale: formare designer consapevoli, che siano naturalmente portati a progettare oggetti belli e interessanti in cui la sostenibilità non deve essere un valore aggiunto, ma una caratteristica intrinseca.
“Slow fashion”
Il London College of Fashion ha fondato il Centre for Sustainable Fashion nel 2007, diretto da Dilys Williams «per provocare, sfidare e mettere in discussione lo status quo della moda, progettando soluzioni trasformative in equilibrio tra ecologia, società e cultura».
Tra i membri Sandy Black, autrice di Eco-Chic: The Fashion Paradox (2008) e del Sustainable Fashion Handbook (2012), e Kate Fletcher, attivista nel campo della moda sostenibile e titolare del progetto Local Wisdom. È Kate Fletcher che ha coniato, per la prima volta nel 2007, l’espressione «slow fashion», contrapponendo questo modo di considerare e progettare la moda al cambiamento frenetico imposto dalla fast fashion.
La tesi fondamentale è legata al rapporto emotivo che una persona ha con un capo d’abbigliamento o un accessorio. Fletcher si schiera contro l’atteggiamento bulimico assunto dalla moda negli ultimi anni, privilegiando la qualità nel consumo rispetto alla quantità, ed è molto dura con le catene della grande produzione: «La fast fashion non è davvero questione di velocità, ma di avidità: vendere di più, fare più soldi. Il tempo è solo uno dei fattori della produzione, insieme con il lavoro, il capitale e le risorse naturali che vengono manipolate e spremute, nella ricerca del massimo profitto. Ma velocità non è sinonimo di libertà. I brevi tempi di consegna e i vestiti a buon mercato sono resi possibili solo dallo sfruttamento del lavoro e delle risorse naturali».
Per la sostenibilità
In realtà, anche i marchi del fast fashion si stanno impegnando in comportamenti sostenibili: il colosso svedese H&M sotto la dizione “sostenibilità” raggruppa una serie di azioni e prodotti che vanno nella direzione di un futuro circolare con l’utilizzo di materiali organici e l’impiego di cotone, lana e materiali riciclati, rimessi nel circolo del consumo e dell’acquisto, investendo moltissimo nella comunicazione.
Sicuramente queste introduzioni possono essere importanti dal punto di vista della sensibilizzazione di un vasto pubblico, ma soprattutto funzionano a livello di marketing. Se da un lato le linee sostenibili sono uno sforzo nella giusta direzione, dall’altro sono spesso espedienti per pubblicizzare il marchio e vendere di più (e non necessariamente le linee sostenibili).
Anche perché, come alcuni analisti hanno sottolineato, se la chiusura del cerchio è sicuramente importante, non mette, però, in discussione quello che va considerato il vero problema, ovvero la sovrapproduzione di abbigliamento. E il fatto che quando un prodotto costa molto poco, vuol dire che le persone che lo hanno fatto probabilmente sono state pagate poco o hanno lavorato in condizioni non accettabili.
In Italia, già dal 2012, la Camera nazionale della moda italiana ha sottoscritto il Manifesto per la sostenibilità della moda italiana, elaborato nell’ambito dei lavori della Commissione ecologia e ambiente presieduta da Anna Zegna, momento celebrato dalla suggestiva performance di Michelangelo Pistoletto Il terzo paradiso.
Tracciabilità
«Il manifesto riguarda tutta la catena del valore della filiera e si sviluppa in dieci punti, dal design e progettazione alla scelta delle materie prime. Dai processi produttivi, con un’attenzione particolare alla valorizzazione del nostro territorio, all’innovazione. Dalla distribuzione e il marketing fino all’etica di impresa. E per finire la comunicazione e l’educazione all’interno del settore e nei confronti del consumatore».
La necessità, appunto, di informare e sensibilizzare il consumatore: la questione della sostenibilità della produzione di un capo di abbigliamento o di un accessorio va letta anche in chiave di tracciabilità e della pratica dell’etichettatura etica.
La sostenibilità riguarda tutti i processi organizzativi e produttivi. Manteco, eccellenza italiana del tessile (azienda nata negli anni quaranta del Novecento), è un caso significativo di industrianato, neologismo che indentifica modalità produttive tipicamente italiane nella piccola e media dimensione, in grado di combinare le più avanzate tecnologie con un’attenzione di tipo artigianale per i dettagli.
L’azienda è da tempo impegnata negli obiettivi connessi alla sostenibilità e ha messo a punto il Project43 per rispondere alle esigenze della tracciabilità e della promozione di modelli virtuosi di economia circolare. Scopo del progetto è ottimizzare i materiali esistenti e promuovere pratiche Zero Waste, recuperando gli scarti dai produttori di abbigliamento che utilizzano i tessuti, e rigenerandoli (fibre, filati) in nuovi tessuti di qualità.
Non solo marketing
La vera rivoluzione è possibile se i marchi di produzione tessile abbracciano le politiche sostenibili. In questo panorama, anche il marchio Canepa di Como, che produce tessuti per l’alta moda, si è proposto come portabandiera nella produzione di tessuti sostenibili, aderendo già nel 2011 (prima impresa tessile al mondo) alla campagna Detox di Greenpeace, per una supply chain della moda trasparente e libera da sostanze tossiche.
L’azienda sfrutta le limitazioni imposte dalla legge, trasformandole in incentivi per portare avanti la ricerca. Canepa ha sviluppato il progetto SaveTheWater, Kitotex, insieme al Cnr, che permette di eliminare le sostanze nocive all’ambiente e di ridurre drasticamente i consumi di acqua nei processi di lavorazione del filato per tessitura.
La sostenibilità è una via percorribile, e sta diventando sempre più una necessità. Il rapporto tra moda e sostenibilità però è fruttifero solo quando i prodotti sono il risultato di un’interazione intelligente tra la consapevolezza etica e la ricerca nel design. Marco Ricchetti, economista e analista delle relazioni tra produzione industriale e creativa nella moda, è tra i fondatori della piattaforma digitale Sustainability-Lab nata per attivare la community degli esperti, delle imprese e delle istituzioni che intendono partecipare allo sviluppo della cultura della sostenibilità.
L’obiettivo di azioni come queste è smettere di utilizzare la sostenibilità come uno strumento di marketing per trasformarla nel background costante di ogni azione creativa e produttiva. Consapevolezza e trasparenza da ambo i lati, quello dei produttori e quello dei consumatori, portano al rifiuto quasi automatico dei prodotti che nascono da pratiche obsolete, non sostenibili e, sempre più spesso, illegali.
Questo è forse il più puro e auspicabile dei lussi, in una società in cui tutto è apparentemente di tutti: far diventare un processo nuovo da meccanico a naturale, cambiare il modo di pensare in meglio, essere consapevoli che la nostra identità, la nostra coscienza, il nostro essere nel mondo si rispecchiano anche nelle nostre scelte vestimentarie. Noi siamo quello che indossiamo.
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