-
«Si è riunito il consiglio di amministrazione», dice il vicedirettore in tono rassegnato. «Lo fanno solo per pararsi il culo», gli risponde il caporedattore «delle molestie a loro non importa nulla».
-
Nei giorni seguenti il direttore dichiarerà ai cronisti sotto casa di essere innocente e di non volersi dimettere dalla guida del giornale. La procura aprirà un fascicolo a suo carico. Il consiglio di amministrazione deciderà di sospenderlo da tutti gli incarichi.
-
Oggi mi chiedo: gli uomini sono tutti predatori potenziali? E un uomo accusato di molestie è colpevole fino a prova contraria? Stiamo tentando di cancellare secoli di abusi punendo in modo sommario tutti i maschi?
«Si è riunito il consiglio di amministrazione», dice il vicedirettore in tono rassegnato. La porta del suo ufficio è rimasta socchiusa. Mi sono avvicinata per bussare ma poi sono rimasta sulla soglia ad ascoltare.
«Lo fanno solo per pararsi il culo», gli risponde il caporedattore «delle molestie a loro non importa nulla».
«Proprio così, lo fanno per l’immagine, per non perdere i contratti pubblicitari, per le aziende dell’editore… chi può permettersi oggi di difendere un direttore accusato di molestie?».
Il vicedirettore e il caporedattore hanno una decina d’anni in meno del direttore. Hanno imparato il mestiere da lui. Qualche anno fa hanno lasciato il quotidiano per il quale lavoravano per iniziare con lui una nuova avventura editoriale e hanno fondato insieme questo giornale. Per loro il direttore è un modello: un uomo ancora giovane, carismatico, di cultura e con una grande capacità comunicativa. Eppure, i loro nomi compariranno per primi sotto la richiesta di dimissioni che verrà pubblicata dal giornale una settimana più tardi – la stessa richiesta che ho firmato anch’io.
«È successo tutto nel suo ufficio, a quanto pare era quasi riuscito a sfilarle le mutandine», dice la responsabile della pagina culturale mentre si lava le mani nel bagno delle signore.
«Ma sei sicura? Io ho sentito dire che si è trattato solo di un bacio», ribatte la collega della cronaca.
Dopo aver ascoltato la conversazione nell’ufficio del vicedirettore ho sentito un bisogno urgente di urinare e sono venuta in bagno. Ho osservato perplessa la macchia rossa sugli slip – da qualche mese il mio ciclo è diventato irregolare – e ho cercato un tampone nella borsa. Le due donne che parlano non sanno che sono qui.
«Sicurissima, lo sa tutta la redazione. Qualcuno dice addirittura che si sia abbassato i pantaloni e l’abbia costretta a inginocchiarsi».
«Davvero? Io ero convinta che S. e il direttore avessero una relazione da tempo. Negli ultimi mesi hanno passato tutti pomeriggi chiusi nell’ufficio di lui… lei poi è una gran bella donna e al direttore le belle donne sono sempre piaciute. Ti ricordi quando si diceva che andasse a letto con quella della redazione esteri?».
«No, secondo me a S. il direttore non interessava. Lei pensava solo alla carriera, c’era in ballo quella corrispondenza a Londra. Piuttosto quella che ha una cotta per lui è l’italiana. Si vede benissimo che ne è innamorata».
Un pugno di terra
Mi cade il tampone nel gabinetto. «Maledizione», sussurro. Strappo un po’ di carta igienica dal rotolo e tampono la macchia rossa sugli slip. Tiro più volte lo sciacquone ma il tampone prima viene risucchiato nello scarico e poi torna indietro e galleggia nel vortice. Nel frattempo, le due donne si sono accorte di non essere sole e sono uscite dal bagno.
L’italiana di cui parlavano sono io.
Nei giorni seguenti il direttore dichiarerà ai cronisti sotto casa di essere innocente e di non volersi dimettere dalla guida del giornale. La procura aprirà un fascicolo a suo carico. Il consiglio di amministrazione deciderà di sospenderlo da tutti gli incarichi. Un’altra donna si farà avanti dicendo di essere stata molestata anni prima. Tutta la vicenda avrà un forte impatto mediatico, se ne parlerà anche all’estero. La giornalista che lo ha accusato otterrà la corrispondenza a Londra, diventerà molto popolare, pubblicherà un libro sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro.
Qualche mese più tardi, rientrando dal supermercato, la moglie del direttore troverà il corpo nudo del marito in camera da letto. «Si è impiccato a una trave del soffitto con la cintura dell’accappatoio», scriveranno i giornali. Della redazione, soltanto la sua segretaria e io andremo al funerale. La segretaria si avvicinerà alla moglie per salutarla, io invece rimarrò più indietro, senza trovare il coraggio di farmi avanti e presentarmi. Cosa avrei potuto dirle? Condoglianze? Mi dispiace? Non volevo veramente firmare la richiesta di dimissioni? Sono io quella innamorata di suo marito?
Mentre la bara scura viene calata nella terra, osservo la figlia adolescente del direttore. Ha gli stessi occhi neri del padre, le stesse sopracciglia arcuate sotto la fronte spaziosa. Che penserà di lui? Se ne vergognerà? Crederà che sia stato vittima di una ingiustizia, che sia stato diffamato? Che rapporto avrà in futuro con gli uomini? E con le donne?
Solo quando la famiglia lascia il cimitero trovo il coraggio di avvicinarmi. Mi chino per raccogliere un po’ di terra, la infilo nella tasca del cappotto. È umida e fredda, deve aver piovuto molto la notte scorsa. La stringo nel pugno, la sento appiccicarsi ai polpastrelli, infilarsi sotto le unghie. Rimango per qualche minuto a guardare l’iscrizione sulla lapide: “marito e padre amorevole, giornalista appassionato.” Vorrei riuscire a piangere ma le lacrime non si fanno mai trovare quando le cerco.
Il coraggio per scriverlo
Ripenso alla richiesta di dimissioni. Quando ho firmato credevo che fosse la cosa giusta. Ho firmato per contribuire a combattere il patriarcato, mi sono detta. Ho firmato perché bisogna difendere le donne, i maschi si sono sempre difesi bene da soli. Ho firmato per quel ragazzo che mi importunava all’uscita della scuola elementare. Ho firmato per quel professore di matematica che più volte al liceo tentò di mettermi le mani addosso. Ho firmato per mio padre che molti anni fa lasciò mia madre per una collega più giovane. Ho firmato per Eva, cacciata dal paradiso e costretta a partorire con dolore. Ho firmato per Maria, vergine e madre – io la verginità l’ho persa da tempo e la maternità vorrei cercare di evitarla.
Ho firmato perché il direttore chiamava S. nel suo ufficio invece di chiamare me. Se avesse provato a baciarmi, cosa avrei fatto? Non ne ero innamorata come diceva la mia collega, ma lo ammiravo, ne ero affascinata. Forse gli avrei detto di sì perché anche a me interessava la corrispondenza a Londra. O forse, per lo stesso motivo, gli avrei detto di no, volevo meritarla.
Ho firmato per essere coerente con quello in cui credo? Ho firmato perché non volevo che si dicesse che non ero dalla parte di una donna molestata? Quindi ho firmato perché firmavano tutti? Ho firmato per una questione di giustizia o per un desiderio di vendetta?
Non so più dire perché ho firmato. Non so se il direttore ed S. avessero una relazione o un rapporto professionale. Non so se lui abbia solo tentato di baciarla o se le abbia usato violenza – un bacio comunque è un fatto grave di per sé… oppure no?
Oggi mi chiedo: gli uomini sono tutti predatori potenziali? E un uomo accusato di molestie è colpevole fino a prova contraria? Stiamo tentando di cancellare secoli di abusi punendo in modo sommario tutti i maschi? E ora che le donne denunciano di più, gli uomini molestano di meno? Forse si faranno solo più furbi per evitare di essere scoperti. Le aziende preferiranno non assumere più donne, soprattutto se attraenti? I colleghi maschi eviteranno di invitarle per un aperitivo dopo il lavoro? Lasceranno la porta dell’ufficio sempre aperta? Le denunce colpiranno soprattutto gli uomini di potere mentre gli altri rimarranno impuniti?
Sarebbe più facile non porsi domande a cui non si sanno dare risposte. Mi sento in colpa verso le donne e verso gli uomini, verso il direttore e la sua famiglia, in colpa verso la mia collega a Londra e verso me stessa.
Il vento soffia tra le tombe di questo piccolo cimitero fuori città, la moglie lo ha scelto per evitare inutili clamori. Ho letto che bisognerebbe interrogare il vento per sapere se si è veramente felici: il vento ricorda all’infelice le sue fragilità, a chi è felice racconta invece che non ha più il potere di ferirlo. Il sibilo di questo vento mi parla senza equivoci, mi dice che sono vulnerabile, precaria, umana, forse addirittura inutile. Eppure, quando soffia di nuovo, sento che non sono ancora del tutto infelice.
È ora di tornare al giornale, c’è un articolo a cui penso da giorni. Credo di aver trovato finalmente il coraggio per scriverlo.
© Riproduzione riservata