Questo testo è un estratto della lezione magistrale che Stefania Auci ha tenuto al Festival del giornalismo culturale di Urbino diretto da Lella Mazzoli che si è tenuto tra l’8 e il 10 ottobre 2021. 


Nella postfazione al suo primo romanzo Il corso delle cose, Andrea Camilleri racconta di come abbia dovuto fare una scelta: aveva una trama strutturata, pensata in italiano ma, nello stesso tempo, quella lingua non rispondeva alle sfide narrative che la storia gli poneva. Così racconta: «Mi feci presto persuaso, dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente. Quando cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello che avevo in mente da scrivere, immediatamente invece la trovavo nel mio dialetto o meglio nel parlato quotidiano di casa mia».

La frase che mi ha subito colpito in questa spiegazione è proprio «le parole che adoperavo non mi appartenevano interamente». Noi apparteniamo a una lingua e quella lingua ci definisce, conserva i nostri ricordi e i nostri valori. È come se Camilleri stesse dicendo: «L’italiano è l’ufficialità, il mondo esterno. Ma il siciliano è la nostra parlata, quella che racconta il nostro passato e il nostro presente». Insomma, come tutte le lingue, anche quella siciliana ha diritto a esprimere orgoglio, cultura, identità. Ma un autore scrive prima di tutto di sé stesso e del suo vissuto, quindi questa identità non è mai unica, anzi. Si nutre di individualità, si confronta con la storia e con la cultura, con il mondo e con la percezione del mondo, in un moto che può essere di ribellione o di adattamento e, talvolta, di entrambe le cose insieme.

Il dipinto di Pitrè

Non è una cosa esclusiva della Sicilia e del dialetto siciliano, ma nella produzione degli scrittori siciliani le forze in gioco mi sono sempre sembrate più diverse, imprevedibili ed esplosive. E spesso contraddittorie, a conferma del fatto che il dialetto è una sorta di punto nevralgico in cui si concentrano le istanze più diverse, non solo quelle linguistiche.

Se vogliamo parlare anzitutto di consapevolezza dell’universo del dialetto, in Sicilia bisogna fare il nome di Giuseppe Pitrè, vissuto a Palermo tra il 1841 e il 1916. Di umili origini, questo studioso di etnografia e folklore raccolse le fiabe, i canti e le storie che ascoltava dalla gente mentre lui esercitava la professione di medico. Il suo lavoro di ricostruzione filologica e storica di usi e tradizioni siciliane è stato, per me, una rivelazione.

Non posso dire di aver letto per intero i 25 volumi della sua Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane in cui ha raccolto tutte le manifestazioni dell’animus e del genius della Sicilia, ma vi posso assicurare che i suoi scritti hanno una vitalità e un’efficacia rare e dipingono un quadro movimentatissimo e pieno di sfumature del popolo siciliano e del suo dialetto.

Tuttavia Pitrè si limita – per così dire – a raccogliere e a spiegare. Ben altre cose accadono quando, a doversi confrontare con il dialetto, sono gli scrittori. E accadono soprattutto in relazione a quel momento determinante nell’evoluzione della nostra lingua che è l’Italia post-unitaria, con l’incontro della «selva di dialetti», per usare l’espressione di Tullio De Mauro, con un italiano «la cui tradizione attraverso il tempo era affidata a una minoranza di addottrinati, che la usavano solo nelle scritture».

Lo scontro ovviamente non è solo linguistico: è politico, economico, sociale e – perché no – anche psicologico ed emotivo. Mi ritengo una persona abbastanza coraggiosa, ma ci vorrebbe ben più di un po’ di coraggio per riassumere questa situazione così complessa in poche righe. Vorrei comunque tracciare un breve percorso all’interno della letteratura siciliana, così da dare un’idea di quanto sia stato importante, nell’isola, tale incontro-scontro.

Verga e Capuana

È ovviamente da Giovanni Verga e Luigi Capuana – contemporanei di Pitrè – che devo partire. Entrambi hanno nei confronti del siciliano e delle classi popolari uno sguardo assai meno innamorato e poetico di Pitrè e ciò si coglie all’istante, per esempio, nell’uso «funzionale» del dialetto nei Malavoglia, ben lontano dalla parlata popolare, un’«illusione» – come è stato detto da più parti – messa in atto per narrare le vicende di padron ’Ntoni e della famiglia Toscano in maniera più efficace e per assicurare al romanzo una maggiore diffusione.

In Mastro-don Gesualdo, però, c’è anche un’altra funzione espressiva del dialetto, più vicina a quell’idea di appartenenza cui facevo cenno all’inizio. Ma qui è un’appartenenza in senso socialmente negativo: il dialetto traccia infatti una rigorosa linea di confine tra ricchi e poveri, definendo un al di qua formato da coloro che hanno un’istruzione e risorse economiche e un al di là di ignoranza e di povertà. Il tutto sotto un’apparenza di oggettività e di assenza di giudizio. Una freddezza che vorrebbe essere giustizia, ma che spesso si trasforma in una condanna senza appello.

È interessante notare che, là dove Verga ripulisce, Luigi Capuana invece accentua, convinto però che il dialetto debba rimanere confinato nella sfera del popolare, nelle novelle o nei testi teatrali dalle coloriture paesane: ancora una volta un’appartenenza che è in realtà un distacco, un allontanamento. Non è un caso che Capuana usi il siciliano per scrivere poesie d’amore a Giuseppina Sansone, la domestica semianalfabeta con cui ebbe una relazione ventennale e che gli diede numerosi figli, nessuno dei quali riconosciuto.

Quasi al confine tra Verga e Capuana si situa poi Federico De Roberto: se ne I Vicerè, uscito nel 1894, l’uso del dialetto è assai limitato e serve a ornare – in modo ironicamente amaro – le vicende degli Uzeda di Francalanza, nelle «novelle di guerra», pubblicate tra il 1919 al 1923, i «fanti» si esprimono unicamente in dialetto, mentre gli ufficiali usano l’italiano. Una scelta stilistica di certo intesa a rappresentare il vero in senso mimetico, ma che finisce per dar corpo a due mondi distinti.

Pirandello e Sciascia

Diverso ancora è l’uso del dialetto in Luigi Pirandello assimilabile al prodotto degli esperimenti di un chimico che prova a far reagire sostanze diverse, ne osserva, attento, i risultati e poi procede ad altri esperimenti. Fuor di metafora: Pirandello scrive, riscrive, corregge, elimina, condensa, espande e contrae in una costante, indefessa riflessione sulla scrittura, rivelandosi quindi, in rapporto al dialetto, assai meno «classista» dei suoi predecessori. Ne sono la prova, per esempio, le commedie Pensaci Giacomino e Liolà. Angosciato dalla malattia mentale delle moglie e dal fatto che il figlio Stefano era stato fatto prigioniero, Pirandello non solo «fugge» in un mondo «di commedia» ma attinge al dialetto inteso come veicolo di «quella vivezza […] quella natività spontanea che è condizione prima e imprescindibile dell’arte». Così scrive nella premessa alla traduzione in italiano di Liolà, aggiungendo: «Una letteratura dialettale, in somma, è fatta per rimanere entro i confini del dialetto».

Una conclusione che sembra una condanna all’esilio del dialetto, ma che in realtà propone – direi finalmente – la piena consapevolezza dell’esistenza di una lingua in grado di rappresentare la realtà italiana, una lingua comune cui il dialetto deve in qualche modo cedere il passo. E quell’accenno alla «vivezza» del dialetto racchiude ed esalta la sua caratteristica di patrimonio da conservare, di mezzo espressivo di elezione per una certa realtà, quindi, in fondo di appartenenza. C’è, insomma, il superamento dell’idea che il dialetto sia in qualche modo una forma espressiva inferiore.

Quando muore Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia ha quindici anni: è un avido lettore e, nel suo quotidiano, convivono e convivranno sempre italiano e dialetto. Senza inseguire a tutti i costi ambizioni veriste e respingendo le coloriture del folklore, la lingua di Sciascia fotografa, con semplicità ed efficacia, una situazione in cui le parole dialettali sono usate accanto a quelle italiane. È importante sottolineare la consapevolezza di questa pratica, il suo aderire in prevalenza a elementi concreti (la cultura della campagna e degli artigiani) e il suo fine che, come spesso avviene in Sciascia, è quello di una verità mutevole, contraddittoria e sfuggente. Ne nasce, come dice Calvino, una «scrittura sorvegliatissima», che gli permette di trasformare un evento di cronaca nera, un caso politico o una storia di mafia in un exemplum di narrazione brillante, impregnato di considerazioni che trasudano di sicilitudine.

A questa stessa filosofia sembra aderire Gesualdo Bufalino, peraltro legato a Sciascia da lunga amicizia. Ma, per Bufalino, la lingua è metafora di una civiltà in continuo cambiamento, dove magico, onirico e realistico convivono senza scontrarsi anzi nutrendosi l’uno dell’altro. Proprio sulla musicalità del dialetto, Bufalino afferma «più sembra rustico e greve, più riesce a sprigionare musiche, eloquenza e fantasie espressive che non trovano uguale nella parlata cortese». Bufalino individua nel siciliano una componente sensuale, spiccatamente emotiva, che lo aiuta a ricreare ed evocare suggestioni di immenso fascino.

Siamo partiti da un dialetto che serviva a indicare una condizione sociale e siamo approdati, attraverso una progressiva, intensa riflessione linguistica, a quella che Bufalino chiama un’«isolaplurale», un luogo ideale ma non astratto in cui il dialetto si muove libero da pregiudizi, forma espressiva indipendente e feconda. Lingua vera e viva.

Testa e cuore

E qui torniamo a Camilleri: «Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore».

Testa e cuore. C’è forse un modo di appartenenza più intenso e autentico di questo?

E vorrei partire proprio dalla testa e dal cuore per parlare brevemente del mio rapporto col dialetto.

Prima il cuore, però. Cioè la mia famiglia. Dal punto di vista linguistico, credo di essere una sorta di fossile vivente. Nata da genitori anziani, fin da piccola ho potuto ascoltare espressioni dialettali e termini così antichi da risultare incomprensibili anche ai miei coetanei. Questo perché i miei genitori, benché fossero entrambi insegnanti elementari e quindi, in teoria, difensori dell’italiano, non hanno mai avuto timore di usare il dialetto in casa. Quindi un dialetto espressivo, caldo. «E quando impara l’italiano, ’sta picciridda?» chiedevano alcuni amici, un po’ sorpresi. Ma i miei genitori scrollavano le spalle e rispondevano che c’era il mondo fuori di lì, c’era la scuola, c’era la televisione per imparare l’italiano. Solo da grande mi sono resa conto di cos’abbia significato per me questa totale assenza di snobismo da parte loro. Il dialetto in casa mia era una lingua vera e propria e come tale io l’ho imparata, assaporata e vissuta, senza pregiudizi.

Ecco perché parlo di cuore: ogni parola in dialetto per me è un grumo di ricordi, di sentimenti e di affetti. Non posso sentire il verbo trubbère senza pensare all’istante a mio padre. «Conza sta’ tavula cu’ trubbere comu i cristiani». («Prepara la tavola da pranzo con la tovaglia per mangiare come i cristiani») era una delle sue frasi tipiche, una protesta contro la barbara abitudine delle tovagliette all’americana. Potrei fare molti altri esempi e tutti sarebbero piccole macchine del tempo, insieme grimaldelli e casseforti di ricordi.

Tuttavia non sospettavo che questa familiarità col dialetto mi sarebbe stata molto utile anche nel mio lavoro d’insegnante. Nonostante la lezione dei miei genitori, ero convinta che un docente dovesse comunque «tenere un contegno» e usare sempre l’italiano. Mi sbagliavo, e di grosso. Per i ragazzi dell’Istituto alberghiero in cui insegno – ragazzi che talvolta vengono da situazioni familiari difficili – l’italiano è davvero la lingua un po’ rigida e poco espressiva degli adulti. Serve, ma non comunica. È necessaria, ma non sufficiente. E così, nei momenti più delicati e magari con gli alunni più ribelli, diventa fondamentale capire il dialetto, e talvolta è un dialetto così stretto che pure io fatico a capirlo. Ma è la voce della loro interiorità, quella con cui confessano, rivelano, chiedono. E, lo devo ammettere, questa è una cosa che talvolta accade anche con gli adulti, anche se dobbiamo sempre ricordare che, per il siciliano: «A megghiu parola è chidda chi nun si dice». Insomma, non importa se si parla in siciliano o in italiano: bisogna sempre saper scegliere cosa dire, come dirlo e a chi dirlo.

Nella saga dei Florio

Come narratrice della storia dei Florio, ho pensato fin dall’inizio che la presenza del siciliano nei Leoni di Sicilia e nell’Inverno dei Leoni fosse indispensabile. Anzitutto perché i Florio non sono siciliani, ma vengono da Bagnara Calabra: Il protagonista dei Leoni di Sicilia, Vincenzo Florio è un semplice putiàro, cioè proprietario di una putìa, un piccolo negozio, e in breve tempo si trova a sfidare i potenti mercanti locali, a comprare terre dai nobili spiantati (che, per sommo disprezzo, lo apostrofano in francese) e ad avere rapporti d’affari con l’isola intera. In questa progressiva conquista di Palermo, la volontà d’impadronirsi delle sfumature della parlata locale è un’altra – l’ennesima – sfida dei Florio, parallela a quella economica e sociale. E le cose si complicano ulteriormente nel periodo della loro espansione: dopo che suo figlio Ignazio è stato rifiutato da una baronessina (perché è soltanto un portarrobbe, cioè non è nobile) Vincenzo lo manda a studiare le fabbriche e le officine inglesi, e Ignazio torna «ricco» anche di quella lingua, che apre a lui e a Florio altre porte, altri orizzonti.

La cosa singolare è che, nell’Inverno dei leoni, ho invece dovuto fare, in un certo senso, il percorso inverso: siamo verso la fine dell’Ottocento e i Florio, ormai potentissimi, hanno finalmente raggiunto quella nobiltà tanto desiderata, ovviamente non per sangue ma per matrimonio, dato che un altro Ignazio – quello che diventerà senatore – ha sposato una nobildonna, Giovanna d’Ondes Trigona. E qui c’è – si potrebbe dire – la beffa: la baronessa Giovanna si ostina a usare il dialetto e costringe un irritatissimo Ignazio a correggerla e poi a metterle accanto precettori che le insegnino «quel po’ di francese, di tedesco e di inglese sufficiente a fare conversazione». Ho scelto di dare questo tratto al personaggio di Giovanna perché esprimersi in dialetto esalta per me l’emotività di questa donna forte e fragile insieme; le dà, a mio parere un’individualità che sarebbe stata meno intensa se veicolata dall’italiano. In Giovanna, insomma, ho cercato di conciliare cuore e testa, come ho provato a fare anche con Giulia, la sorella di Ignazio, che ricorre al dialetto – a parole anche crude – quando deve raccontare e spiegare la propria vita emotiva.

Infine, in questo secondo volume, il dialetto mi è stato prezioso non soltanto nel suo uso «classico» di definizione delle classi sociali (dai padroni agli operai), ma anche come un segno concreto del fatto che – nel turbine di eventi storici e personali che travolgono i Florio dal 1870 al 1935 – l’appartenenza alla realtà, alla cultura e allo spirito siciliano sono una costante, una voce continua, come quella che sente Franca Florio – la cosmopolita Franca, la donna più bella d’Europa – in uno dei suoi ultimi viaggi a Palermo, quando la rovina è ormai inevitabile. «Le sembrava che Palermo la chiamasse. La città rivoleva la sua regina, con le sue feste spensierate, gli applausi a teatro, i valzer ballati fino all’alba, il gelo di mellone del suo monsù. Ma poi anche quella voce si era affievolita fino a spegnersi. Forse Palermo ha capito che, quando il tempo della felicità è finito, si può soltanto sperare che qualcuno se ne ricordi, si era detta».

E siamo di nuovo ai ricordi, al cuore, all’appartenenza a un mondo. E siamo di nuovo alla testa, alla riflessione sul tempo trascorso, sulla cultura, sulle convenzioni sociali.

Non è poco. Anzi, prima che «il fragore del mare si plachi del tutto» come dice Tomasi di Lampedusa, forse è una delle cose più vere che ci è dato di avere.

Sabato 16 ottobre Stefania Auci presenta al Salone del libro di Torino, alle 14, in sala oro pad. oval, il libro L’inverno dei Leoni. Con l’autrice interviene Paolo Di Paolo.

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