- È la nuova serie dei record di Netflix, la più vista in oltre 90 paesi, Italia compresa, destinata a diventare la serie di maggior successo nella storia della piattaforma.
- Prodotta in Corea del Sud, l'autore racconta di averla scritta mentre si trovava sommerso dai debiti e a un passo dalla bancarotta.
- «Volevo realizzare un’allegoria o una favola sulla moderna società capitalistica», ha raccontato, ma secondo alcuni la sua operazione ha avuto persino troppo successo.
Se non avete ancora sentito parlare di Squid Game o se nessuno ve l’ha consigliata ormai appartenente a una minoranza. La nuova serie sudcoreana prodotta da Netflix è la più vista in 90 paesi al mondo, Italia compresa, e potrebbe presto diventare la più vista di sempre sulla piattaforma.
Coreani e capitalismo
La premessa è semplice: un gruppo di persone indebitate e sulla soglia della bancarotta si sfida in una versione mortale dei giochi da cortile da bambini per l’intrattenimento di un gruppo di ricchi depravati.
Gli elementi per un successo planetario ci sono tutti: un protagonista buono ma spiantato con cui identificarsi; maschere e uniformi colorate facili da ricordare; una sequenza di cliffhanger disseminata in modo scientifico.
Nel mezzo di questa confezione non proprio originalissima, l’autore ha inserito una critica all’ideologia capitalistica che è, alternativamente, smaccata e sottile. Grossolana e raffinatissima.
Hwang Dong-hyuk, l’autore, lo ha detto chiaramente: «Volevo realizzare un’allegoria o una favola sulla moderna società capitalistica, che dipingesse una competizione estrema, simile a quella nelle nostre vite». L’idea gli è venuta quando lui stesso si trovava sommerso dai debiti a un passo dalla rovina. Per nove anni ha cercato di vendere l’idea, ottenendo una decina di rifiuti.
Tra i paesi industrializzati, la Corea del Sud è uno di quelli con la popolazione più indebitata. Negli ultimi anni diseguaglianze economiche sono esplose e hanno raggiunto il livello degli Stati Uniti. Prima di Squid Game, il film Parasite, una commedia nera sulle diseguaglianze nella società coreana, è stato il primo film straniero a vincere l’Oscar come miglior film.
Nel paese il dibattito su questi temi è aspro. I difensori del libero mercato sono forti e vocali hanno popolari canali YouTube seguiti da centinaia di migliaia di persone in cui accusano il sistema mediatico coreano di essere nelle mani della sinistra socialista e attaccano l’espansione dello stato sociale, che spingerebbe i coreani a stare “sul divano”.
Millefoglie anti-capitalista
La critica di Hwang è organizzata come una torta millefoglie. Il primo stato è la panna: voluminose e impossibile da non notare, ma piuttosto privo di sostanza. C’è un gruppo di disgraziati che si gioca la vita in modi brutali per ottenere una seconda occasione.
Sono poveri, impotenti e disperati ed è impossibile non simpatizzare anche con i più sgradevoli tra di loro. Dall’altro ci sono i “Vip”, una banda di ricconi arroganti e mascherati dall’accento straniero che sembra la versione aggiornata del “maiale capitalista” di un manifesto sovietico.
Il secondo strato è la sfoglia, sottile, ma croccante. A un certo punto, gli organizzatori mascherati scoprono che qualcuno dei loro sta facendo il doppio gioco e passa informazioni a uno dei partecipanti. Nella scena successiva, i giocatori trovano appesi i corpi dei responsabili della truffa.
Uno dei cattivi spiega: «Queste persone hanno inquinato la purezza dell’idea su cui abbiamo costruito questo gioco. All’interno di questo luogo, tutti voi siete considerati eguali. A tutti devono essere garantite eque opportunità, senza svantaggi ingiusti, senza discriminazioni».
Giustizia, sostengono, significa concedere a tutti eque opportunità. Ma Squid game mostra la falla di questo ragionamento: se eque opportunità significa avere un’eguale chance a un round di tiro alla fune, come capita ai protagonisti subito prima di incontrare i corpi appesi, chi nasce debole non si trova affatto di fronte a un competizione giusta.
I protagonisti sono consci dell’ipocrisia dietro l’idea dell’equa opportunità. Non solo perché gli organizzatori cambiano le regole del gioco per renderlo più spettacolare. Quando ai partecipanti viene richiesto di dividersi in squadre, inizia una discussione sull’accettare o meno le donne: i giochi da cortile, ragionano, hanno quasi tutti una componente fisica in cui le ragazze partono svantaggiate.
Il protagonista, Seong Gi-hun, ama sua figlia e la sua anziana madre. Ma è uno spiantato, non appena ha due soldi se li gioca alle scommesse, è pieno di debiti (insieme a milioni di altri coreani). Non è adatto alla società in cui vive. Che senso ha parlare di equità, sembra chiederci Squid game, se il successo richiede specifici che non tutti possiedono?
E arriviamo alla goccia di rum nell’impasto del millefoglie.
Le regole decise dagli organizzatori stabiliscono che i partecipanti possono votare a maggioranza di far terminare il gioco. Dopo la prima manche mortale, la maggioranza vota per per far finire tutto. I partecipanti tornano a casa, ma dopo pochi giorni molti di loro tornano. Apparentemente, è una decisione narrativa che mette in dubbio tutto l’impianto critico della serie: i giocatori scelgono di loro volontà di ritornare. Anche l’economia di mercato ci lascia liberi di scegliere.
Hwang spende un intero episodio per sottolineare quanto questa apparente libertà di scelta sia falsa. Quando Seong, il protagonista, torna a casa è ancora inseguito dagli usurai, sua è madre è in ospedale e lui non può permettersi le cure costose, sua figlia sta per partire per gli Stati Uniti con la madre, perché lui non può mantenerla.
La verità, insomma, è che Seong non ha scelta: deve partecipare al gioco se vuole sopravvivere. Uccidere o essere ucciso. Così come ogni mattina la maggior parte di noi si deve alzare dal letto e lottare. Non c’è possibilità di dire: «No, non voglio giocare».
Una serie venuta troppo bene?
Si tratta di un prodotto così ben fatto che alcuni sostengono sia persino controproducente per la causa per cui si batte. Le persone rischiano di sentirsi più politicamente attive soltanto per aver visto la serie, ha scritto Bobo Matjila, attivista e autrice di podcast americana, mentre in realtà non ha fatto nulla per cambiare le cose. Anzi, guardare Squid game finisce per favorire la piattaforma che la ospita, Netflix, una delle società simbolo del nuovo capitalismo digitale, i cui azionisti sono anonimi investitori come i Vip della serie.
Perché il capitalismo contestato da Squid Game è un sistema che può finanziarie una critica a sé stesso così radicale e, invece di esserne danneggiato, guadagnarci milioni.
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