- Appena entrata con un’amica all’Arboretum, locale londinese che ospita l’amatissimo 99 Club, mi ha assalito una sensazione di disagio: lo dico subito, le uniche stand up che avevo visto, prima di allora, erano sullo schermo del mio mac.
- Ero dunque terrorizzata di essere interpellata da uno dei comici coinvolti (Michael Odewale, Marlon Davis, Dane Baptiste, introdotti da Carly Smallman). Conoscendomi, mi sarei pietrificata.
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Appena entrata con un’amica all’Arboretum, locale londinese che ospita l’amatissimo 99 Club, mi ha assalito una sensazione di disagio: lo dico subito, le uniche stand up che avevo visto, prima di allora, erano sullo schermo del mio mac. Ero dunque terrorizzata di essere interpellata da uno dei comici coinvolti (Michael Odewale, Marlon Davis, Dane Baptiste, introdotti da Carly Smallman). Conoscendomi, mi sarei pietrificata. Non sono tipo da battuta pronta, da immediatezza in generale, sono una che vive attraverso il filtro della scrittura. Però bazzico ogni tanto (online, appunto) tra le comiche inglesi: Aisling Bea, Sarah Millican, Roisin Conaty, Sarah Prescoe, tutte impegnate in un discorso pop-femminista che smonta i cliché sessisti, spesso in modo surrealista.
La mia preferita è la scoppiettante Katherine Ryan, canadese trapiantata a Londra che riesce a raccontare perfettamente l’esatta ricetta che compone la personalità inglese, quel cinismo rimboccato nell’etichetta sfrenata che però, diciamocelo, rende la vita in Inghilterra più facile che in qualunque altro luogo, perché garantisce un sostrato di gentilezza che ad esempio in Italia viene spesso obliterato dai mood del momento. E poi la crisi del pensiero: i tories e gli smottamenti politici pericolosissimi che caratterizzano l’era post-Brexit.
La serie The Duchess, scritta e interpretata da Ryan, si apre con la figlioletta che sul tragitto verso la scuola elementare comunica allarmata alla madre: «Mamma, la gente viene dai paesi stranieri e ci ruba il lavoro!», a cui lei risponde esasperata: «Con tutto il rispetto, la tua opinione è spazzatura. Ecco il problema della libertà di parola, è una conquista fondamentale finché non ti rendi conto che si applica a chiunque. Olive, la gente che viene dai paesi stranieri sei tu! Sei nata da un’immigrata. Non lasciare che ti rubino il lavoro, lava il bagno, sistemati la stanza, make Britain great again! E poi, io faccio solo i lavori che tu non faresti mai».
Ecco un esempio di english humour, benché impastato allo stile enfatico e scanzonato americano. Diverso da quello dei comici all’Arboretum, più concentrati sulla demolizione sistematica del politically correct. Ma non pensate che la stand up inglesi sia in qualche modo derivativa, anzi, ha radici antichissime. Già nel 1831 nasceva a Covent Garden (dopo un periodo iniziale all’interno del Theatre Royal) il Garrick Club, il cui regolamento includeva il motto “Meglio non fare entrare dieci ineccepibili che ammettere un noioso”, una convinzione che contribuì a sviluppare il suo fascino, e che in qualche modo rispecchia l’attitudine inglese alla commedia.
Scrive Megan Nolan, autrice irlandese di Atti di sottomissione (o, in originale, “di disperazione”), sul Guardian, di aver tentato con estremo insuccesso la strada della stand up comedy, per poi scoprire che essere spiritosi non è sufficiente per quell’atto creativo più attivo e irruento che è la stand up, e riflette su cosa decreti il successo di quest’operazione misteriosa che è far ridere la gente. «Due urgenze in competizione — il bisogno di approvazione e la pura arroganza — sono fonte di diverse nevrosi, ma sul palco il loro scontro crea un momento esilarante e inimitabile di euforia e di condivisa umanità».
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