- Premio Internazionale Cherasco Storia a un libro originale che ricostruisce la storia sorprendente e drammatica delle trasformazioni economiche, sociali e culturali di quella tazzina che beviamo ogni giorno.
- Il caffè, entrato nella quotidianità di miliardi di persone con tanta spontaneità e naturalezza, è diventato un impero.
- Questo libro racconta il tracciato di due strade parallele: quella del caffè e quella del capitalismo che, nascendo e crescendo insieme a cavallo del Ventesimo secolo, hanno contribuito a dividere il mondo tra una grande ricchezza e una dura povertà.
Augustine Sedgewick, docente presso la City University of New York, con il suo ultimo libro, Coffeeland. Storia di un impero che domina il mondo, Einaudi, è il vincitore del premio internazionale Cherasco storia presieduto dallo storico Alberto Melloni, che sarà consegnato il 28 maggio. Il caffè, entrato nella quotidianità di miliardi di persone con tanta spontaneità e naturalezza, è diventato un impero. Questo libro racconta il tracciato di due strade parallele: quella del caffè e quella del capitalismo che, nascendo e crescendo insieme a cavallo del Ventesimo secolo, hanno contribuito a dividere il mondo tra una grande ricchezza e una dura povertà. Dagli altopiani di El Salvador alle tavole di tutte le famiglie, questa straordinaria storia apre una nuova prospettiva su come funziona il mondo globalizzato. Il caffè è uno dei prodotti più preziosi e strategici dell’economia globale e la bevanda più popolare al mondo. Coffeeland ricostruisce la storia sorprendente e drammatica delle sue trasformazioni imprenditoriali, sociali e culturali nell’arco di quattrocento anni. Dopo aver letto questo libro, non penserete più le stesse cose del vostro caffè mattutino.
Molti anni dopo, Jaime Hill avrebbe ripensato al pomeriggio del suo sequestro e dato la colpa al padre. Era il 31 ottobre 1979, sul finire della giornata, e Jaime si era appena seduto alla scrivania per scrivere a sua figlia Alexandra. In El Salvador di allora, Halloween rappresentava ancora una novità, una festa introdotta con l’ondata delle famiglie dei diplomatici che erano giunte nel paese da Cuba dopo la rivoluzione castrista del 1959.
La tradizione di «dolcetto o scherzetto» aveva preso rapidamente piede nei quartieri alti della capitale, San Salvador, dove il quarantaduenne uomo d’affari viveva e lavorava come dirigente nell’azienda di famiglia.
Ogni anno c’erano sempre più bambini in costume che andavano a suonare i campanelli, di solito in macchina, per sicurezza. Ciò nonostante, Halloween non era nulla al confronto dell’imminente Dia de los Muertos (Giorno dei morti), celebrato all’inizio di novembre, che segnava l’apertura della stagione del raccolto.
Jaime l’attendeva sempre con ansia, quando sei mesi di violenti acquazzoni lasciavano finalmente il posto a cieli azzurri e brezze fresche, e il suo entusiasmo la diceva lunga sulla storia del paese. Privo di una costa atlantica, quando El Salvador conquistò l’indipendenza dalla Spagna nel 1821 era una regione economicamente svantaggiata, terra di agricoltori di sussistenza con quattro avvocati e quattro medici su 250.000 abitanti. Solo due o tre navi all’anno facevano scalo nel suo porto principale.
Questo non vuol dire che i suoi cittadini fossero propriamente poveri, povero, è un termine relativo e infatti l’altro aspetto dell’isolamento commerciale del paese era l’uguaglianza economica. I viaggiatori provenienti dall’Europa che sbarcavano nel Salvador a metà del XIX secolo rimanevano colpiti dall’assenza di qualsiasi tipo di povertà estrema e dall’evidente ricchezza del terreno.
Indaco e balsamo, esportazioni redditizie, prosperavano nelle campagne, e anche le città erano letteralmente sotto un pergolato di alberi da frutto tropicali, tra cui palme, arance e banani a foglia larga, che quasi sprofondavano sotto i pesanti caschi di frutti d’oro. Mentre i visitatori stranieri si meravigliavano dell’abbondanza della natura e scorgevano un luogo eminentemente idoneo alla crescita di prodotti tropicali, la maggior parte dei salvadoregni viveva grazie ai raccolti delle terre comuni. Avevano scarsi incentivi a coltivare prodotti nuovi e sconosciuti da destinare alla vendita su mercati lontani, e ancor meno a lavorare per qualcuno impegnato in tale attività. Tradizionalmente, gli agricoltori di sussistenza della regione temevano l’arrivo della stagione secca.
Ogni novembre, con la prospettiva di mesi di siccità, i salvadoregni, come i loro vicini, pregavano per il ritorno delle piogge che per loro erano fondamentali. In pieno Ottocento, la vita di molte persone nella campagna salvadoregna procedeva perlopiù come nei secoli precedenti. Al sorgere del sole, gli uomini portavano gli attrezzi agricoli lungo stretti sentieri sterrati che andavano dai piccoli villaggi agli orti lontani, e la sera tornavano a casa con prodotti da mangiare o da vendere nei mercati locali.
I genitori insegnavano ai figli tutto ciò che dovevano sapere per vivere in questo modo. E una volta all’anno, quando il tempo cambiava, i salvadoregni, come i loro vicini in tutto il centro America, onoravano gli antichi debiti delle loro famiglie verso la terra e invocavano gli spiriti tutelari dei loro antenati decorando tombe, ballando, cantando, bevendo e festeggiando.
Ma c’erano anche salvadoregni per i quali questa profonda continuità con il passato non era motivo di festeggiamenti – quelli che guardavano al mondo dei motori a combustione, dei telefoni e delle luci elettriche e temevano che il loro paese stesse rimanendo indietro – e questo gruppo esercitava un potere politico enorme. In modo sottile all’inizio, e poi in maniera radicale dopo il 1879, le basi agricole della vita salvadoregna vennero scardinate per aprire la strada a un futuro diverso.
Nel 1889, quando il nonno di Jaime Hill, James, allora giovane diciottenne, arrivò nel Salvador da Manchester, era in atto una profonda trasformazione. Nel giro di due generazioni, il paese era cambiato radicalmente. La prima cosa che colpisce il visitatore, scriveva un viaggiatore americano nel 1928, è l’apparente unanimità di pensiero: il caffè. Tutto è caffè, tutti sono direttamente o indirettamente impegnati con il caffè. El Salvador è un paese che deve vivere come una cosa sola, e con un solo tema, un unico argomento: il caffè, aveva osservato nello stesso anno il ministro dell’Agricoltura salvadoregno, piantatore egli stesso.
Pur essendosi stabilito nel Salvador quando il boom del caffè era in corso già da un decennio, e benché in quanto immigrato gli fosse vietato ricoprire cariche politiche, si può dire che James Hill abbia fatto più di chiunque altro per trasformare il paese d’adozione in una delle monocolture più intensive della storia contemporanea. Nella seconda metà del Novecento, grazie anche alle pratiche introdotte da Hill nelle piantagioni e nella manifattura di sua proprietà il caffè era arrivato a coprire un quarto della terra coltivabile del Salvador e occupava un quinto della popolazione.
Le piantagioni salvadoregne avevano una produzione per ettaro superiore del 50 per cento a quella del Brasile e i raccolti di caffè rappresentavano un quarto del Pil del paese e oltre il 90 per cento delle sue esportazioni. In modo significativo – e in parte dovuto, ancora una volta, alle relazioni che Hill aveva contribuito a instaurare –, la maggior parte di queste esportazioni finiva all’interno di lattine dai colori vivaci sugli scaffali dei supermercati negli Stati Uniti che, nello stesso periodo, erano diventati di gran lunga i primi al mondo per il consumo di caffè. In un secolo, il raccolto nel Salvador aveva assunto un nuovo significato – raccogliere e macinare il caffè destinato alle tazze degli americani – e la ricchezza del suo territorio era passata in mani altrui.
Nella famiglia Hill, di conseguenza, l’inizio della raccolta del caffè significava normalmente grandi guadagni, ma il 1979 fu un anno insolito. Il clima, come sempre, era cambiato al momento giusto, portando cieli sereni e l’aria asciutta, ideale per la raccolta e la lavorazione del caffè. Eppure, queste condizioni favorevoli erano state offuscate da alcuni avvenimenti all’interno della famiglia e nel paese in generale. Jaime, il maggiore dei tre fratelli, era stato da poco sollevato dall’incarico che ricopriva nell’azienda di famiglia.
Quest’ultima, a partire dalla Seconda guerra mondiale, aveva ampliato il proprio raggio d’azione dal caffè al settore immobiliare, alle costruzioni, alla finanza e alle assicurazioni. Cosa ancora più preoccupante, il ritorno di antichi conflitti politici aveva messo seriamente in dubbio la riuscita del raccolto annuale. Cent’anni di caffè avevano diviso El Salvador in due. Nello stesso momento in cui il paese aveva raggiunto livelli eccezionali di produttività economica, era anche diventato povero sotto alcuni aspetti fondamentali. L’80 per cento dei bambini della nazione era malnutrito. La povertà estrema, un tempo inesistente, era diventata uno dei due tratti fondamentali della vita salvadoregna; l’altro era la straordinaria ricchezza delle leggendarie quattordici famiglie, tra cui la famiglia Hill, che aveva cominciato con il caffè e proseguito l’attività nel settore fino a monopolizzare quasi del tutto la terra, le risorse, l’economia e la politica del paese. C’erano i membri dell’oligarchia – istruiti all’estero, trasportati sui sedili posteriori di auto blindate di produzione europea, con il potere negli affari e nel governo garantito dai militari, le guardie del corpo private e le ville protette da alte mura e cancellate – e poi c’erano tutti gli altri. La spaccatura nel Salvador fra i molto ricchi e i molto poveri aveva dato luogo, a contestazioni, ma storicamente l’opposizione al capitalismo del caffè era stata oggetto di una brutale repressione, e per un certo periodo la resistenza popolare, un tempo di per sé spaventevole, era stata spinta nella clandestinità.
Nonostante il pericolo, lo spirito rivoluzionario aveva ritrovato vigore dopo la vittoria di Castro a Cuba. A sua volta, il governo salvadoregno – appoggiato dagli Stati Uniti, in massima allerta contro il comunismo nell’emisfero – rispose con un’escalation di forza bruta attraverso dimostrazioni amplificate dall’arrivo sulla scena di una nuova presenza minacciosa: oscuri squadroni della morte, finanziati dall’oligarchia e composti da soldati che facevano un secondo lavoro. Per tutti gli anni Settanta, un’ondata di rapimenti, sparizioni e assassinii portò a sanguinose ritorsioni e al terrore generalizzato.
Poi, il 15 ottobre 1979, ci fu un colpo di stato. Come era già accaduto altre volte nella storia salvadoregna, il cambio di governo imposto con la forza non produsse trasformazioni concrete a livello né di politiche né di vita quotidiana. Nonostante fosse trascorso qualche tempo, a Halloween le conseguenze del golpe non erano ancora del tutto chiare.
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