- Il fotografo Massimo Vitali racconta in un’intervista la sua visione della fotografia, dopo l’abbandono del fotogiornalismo.
- Il Wall Street Journal ha definito il suo lavoro «ricerca sociologica attraverso la fotografia d’arte». «Mi riconosco e mi piace», commenta Vitali. «Cerco di restituire dei pezzi di storia, di vita, e cerco di fornire elementi molto precisi e apparentemente inutili. A me piace la storia dell’uomo normale».
- Sullo stato attuale di pandemia aggiunge: «È più facile che la gente se ne dimentichi piuttosto che venga trovato un vaccino. Sarà sempre così, siamo animali sociali».
Iniziamo dalle sue idee sul fotogiornalismo, che ha peraltro frequentato a lungo. Lei pensa che il fotogiornalismo non sia possibile.
Essendo un fotogiornalista pentito dico tutto il male possibile del fotogiornalismo. L’ho fatto per anni con risultati veramente mediocri, non mi piaceva quello che facevo. Il fotogiornalismo non ha più ragione di esistere. Preferisco la people photography, i telefonini della gente che registrano quello che deve essere registrato, male o bene, non importa. Registrano.
Il fotogiornalista ha un atteggiamento spocchioso, di quello che dice “ora ti faccio vedere come si fa”, ma ti fa vedere qualcosa che vuole lui. È terribile! Non è nemmeno un tema di ideologia, non importa che egli sia un fotogiornalista di sinistra, impegnato, o di destra.
È il fatto stesso che si ponga come unione tra quello che succede nel mondo e il suo pubblico a farmi orrore, perché ovviamente non è così. Non si può più credere a una cosa del genere. Lui scatta qualcosa perché gli piace quella luce, perché cerca la foto più drammatica e teatrale possibile.
Il fotogiornalismo è comunque morto da solo, senza nemmeno bisogno di fargli il funerale e di tutta la sua storia c’è ben poco da salvare. Ovviamente poi le foto di tutti vogliono dire qualcosa, il problema è porsi l’obiettivo di voler “spiegare le cose” al mondo, c’è una certa hybris insomma, che io detesto.
Dunque a quanto capisco lei ama di più la people photography perché il dilettante registra semplicemente una cosa che accade, senza un punto di vista o un obiettivo prefissato. Il fotografo casuale col telefonino vede una cosa che lo colpisce e la registra, in modo reattivo e quindi naturale, quasi animale, risponde a uno stimolo e se anche volesse non avrebbe il tempo e gli strumenti per organizzare un punto di vista…
Non riesce a fregarti. Soprattutto con i filmati fatti col telefonino, fanno vedere molto di più di quello che vorrebbe farti vedere chi l’ha fatto. Sono liberi, veri, molto di più di quello che farei io. Il non-fotografo fa una foto perché gli accade qualcosa di inaspettato, non è preparato, quindi più naturale e più vero. L’esatto contrario di quello che faccio io. Io ho sempre un progetto.
Però lei sostiene che anche nel suo campo, diciamo la fotografia d’arte, si debba cercare la naturalezza. Tuttavia il suo lavoro è progettuale fino all’ossessività, e tecnicamente molto complesso. In che modo sono naturali o semplici le sue foto?
Le mie foto sono matter of fact, sono banali, non c’è nulla di strano o di pre-ordinato. Io cerco situazioni qualunque e in queste situazioni cerco di mettermi in una posizione abbastanza normale, ho trovato quale può essere, a una certa altezza, con una prospettiva banale. Le mie foto non hanno composizioni ricercate. Metto la macchina e quello che succede succede, la macchina sta lì. Il fotoreporter cerca come i cani da tartufo, io sono il contrario.
La neutralità ripetuta del punto macchina – sempre la stessa prospettiva, quasi sempre la stessa altezza, solo piccole variazioni chiaramente dettate dalla “forma” del luogo, sono certamente elementi forti. Ma lo è altrettanto il lavoro che fa in postproduzione, esaltando i bianchi a rendere astratta la natura, quasi a volerla cancellare per mostrare gli esseri umani ancora più “nudi”, nel loro appariscente rivelarsi pieni di colore.
Questa è una ottima definizione, mi piace quello che dice. In effetti io vorrei rendere meno importante la spiaggia: dalla spiaggia chiara io faccio uscire i corpi, le forme, gli asciugamani, gli oggetti che gli umani portano con loro. Io cerco il mio bianco per semplificare la foto.
Chi guarda deve concentrarsi sull’umanità, su come siamo noi, su cosa facciamo quando non succede nulla. Non m’interessa fotografare uno che spara con un fucile, per me è più importante sapere cosa fai quando non fai niente. La maggioranza delle persone fa cose assolutamente normali, a me interessano loro: la storia è fatta da persone normali che fanno cose normali.
Il Wall Street Journal ha definito il suo lavoro come «ricerca sociologica attraverso la fotografia d’arte». Direi che è un giudizio condivisibile.
Mi riconosco e mi piace, perché il mio lavoro si basa su un tipo personale di studio sociologico. Cerco di restituire dei pezzi di storia, di vita, che possono essere usati da gente che ha più strumenti di me. Io cerco di fornire elementi molto precisi e apparentemente inutili. A me piace la storia dell’uomo normale.
Diciamo che lei produce delle testimonianze utili a dei futuri Jacques Le Goff, lo storico francese della Nouvelle Histoire, basata sull’analisi delle vite comuni e non sugli eventi eccezionali.
Precisamente. A me interessa la vita di persone assolutamente normali, che sono poi quelli che poi formano davvero la nostra società. Quelli sì che cambiano la storia forse più di uno che fa un atto sconsiderato, o lancia i razzi contro i bambini in Siria. La normalità della vita ha più impatto.
Le sue foto che non hanno un semplice soggetto è come se ci dicessero anche che l’individuo è scomparso, che siamo solo massa.
Questo no, io uso dei raggruppamenti di gente perché è più facile in un gruppo vedere accadere le cose. Quando la gente è raggruppata scoccano più scintille, e quindi c’è più individuo.
Come se fossero quei quadri rinascimentali, grandi tele popolate da un’umanità multiforme, che ti invitano a guardare con attenzione ogni figura per capire in che relazione stia con le altre, come un enigma a chiave.
Le fotografie di oggi hanno quasi tutte grandi cieli, grandi spazi e poca gente. Quando ho iniziato venticinque anni fa ho pensato proprio a quel tipo di arte rinascimentale e non alle fotografie. Il paesaggio era in secondo piano.
I “personaggi” hanno un’importanza notevole ma non sono sempre così presenti come singoli. Il fatto poi che fossero pieni di gente, ognuno al suo posto, ognuno con una ragione, significava che se non fossero stati pieni di gente il pittore non sarebbe stato pagato. Il fatto che in basso a destra ci fosse il finanziatore del quadro, che alcuni fossero centrali, altri fossero persi nel paesaggio: tutto aveva un significato preciso.
Erano dei business plan non dei quadri…
E anche le mie foto sono la stessa cosa. Intendo dire che perché una fotografia abbia un suo valore, perché tu la venda, anche se non è la cosa principale, deve trasparire una certa fatica, non può essere una cosa che chiunque può fare, come nella street photography, un altro problemaccio, che ti dà l’idea che uno per caso è passato in un posto dove succedeva qualcosa di interessante e l’ha fotografato. Se così fosse avrebbe potuto starci cinque anni lì senza che nulla accadesse.
La chiameranno reazionario dopo questa conversazione… mentre uno dei moventi iniziali della sua ricerca ha a che fare con la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994.
Sono rimasto incredulo, sì. Il giorno in cui vinse le elezioni dovevo cercare di usare un nuovo cavalletto che mi ero costruito e siccome stavo vicino a Pietrasanta mi sono detto “vado alla spiaggia” e da lì partì tutto.
Io voglio fotografare della gente, ma in spiaggia come la fotografo? Metto il cavalletto in mare e così la gente, che guarda sempre verso il mare, guarda verso di me. E poi ovviamente ho iniziato a interessarmi a come la gente si comporta, come si muove o come non si muove.
Ma che c’entra Berlusconi?
Ero scioccato dal fatto che una notevole maggioranza degli italiani avesse votato Berlusconi. Se vado in spiaggia e ho davanti duecento persone un centinaio di queste aveva votato Berlusconi. Volevo guardarli in faccia, volevo capire.
E ha capito qualcosa?
Assolutamente no, non si capisce mai niente. Io sono sempre spinto da qualcosa, che poi non si realizza, come le foto fatte dopo il lockdown. C’è una differenza con le foto fatte prima? Non lo so.
La ragione per cui io sono andato su certe spiagge per fare certe foto era data quest’anno dalla curiosità di studiare i comportamenti della gente dopo il lockdown. Poi alla fine fai le foto e ti accorgi che non c’è quasi nessuna differenza. Non vedi tutti questi indizi. Giustamente, perché non devi vedere nulla.
Vedere nulla. Gli avvenimenti tragicamente significativi e globali del nostro secolo, avevano tutti nell’immagine la comunicazione più efficace, pensiamo alla guerra in diretta o all’11 settembre. Il virus è invece un nemico invisibile; le immagini degli ospedali non erano diverse da immagini di ospedali in tempi normali. Non c’era modo di rappresentare il dramma, se non per sottrazione; i negozi chiusi, le strade deserte.
Sì infatti l’unica grande foto è stata quella del papa da solo, quella è stata la foto del lockdown.
Però è una foto simbolica, non è autosufficiente. Se non sai che c’è la pandemia non puoi capirla quella foto. Fuori dal contesto la puoi interpretare in altro modo. Se vedi la foto dell’aereo che colpisce una delle torri gemelle non devi sapere nient’altro, non ti serve il contesto, è tutto lì. Il mondo intero ammutolì in diretta. La pandemia è il contesto, non il soggetto. Una strada vuota ha un significato solo perché sappiamo il motivo per il quale è vuota. E quando è tornato nelle spiagge, capisco che non si vedesse nessuna differenza…
No, solo le prime sono meno popolate, e i ragazzi sono più aggressivi. Ho notato che appena dopo l’apertura i ragazzi tra i 12 e i 18 anni erano molto più aggressivi, sembravano dire “ci avete tenuti chiusi per mesi, ora noi siamo uguali a voi adulti”.
Al mio livello l’ho notato anche dal modo in cui le ragazze dopo il lockdown usano dei costumi di quelli tipo brasiliani col culo di fuori che a dodici anni non usavi. La bambina è stata chiusa in casa per mesi e quando finalmente esce vuole fare quel che le pare.
Quindi addirittura vede la fine del lockdown come un momento di emancipazione generazionale?
Assolutamente. E questa è una cosa che ho sentito, in quei momenti iniziali, perché sono in una situazione privilegiata. Vedo e mi accorgo di certe cose che non tutti vedono, poi magari vedo delle stupidaggini. Posso intrattenervi sui cambiamenti dei costumi da bagno, sul fatto che venticinque anni fa uno che faceva le foto su una spiaggia era considerato un matto, anche solo perché la cosa del portare la macchina fotografica in spiaggia era considerato avventuroso, la sabbia poteva rovinarla. Oggi chiunque fa le foto in spiaggia.
Avrà anche visto nascere la cultura di massa del tatuaggio.
Ah certamente. E ora ne vedo la fine. Vedo tatuaggi rugosi, che invecchiano, penzolano dalla pelle raggrinzita. Ho questa mania della tecnica, cerco di fare le foto più precise possibili, con più dettaglio possibile, voglio vedere uno a quaranta metri da me cosa sta facendo, sono ossessionato dal dettaglio, e scopro cose davvero orribili. È difficile e noioso il lavoro che faccio. Non è che puoi bighellonare, andare in giro… no, deve essere tutto organizzato e predisposto.
Quanto si sente distante dai suoi soggetti?
Per nulla. Io non ho mai guardato dentro la macchina, se guardi dentro il mirino è come se tu stessi spiando, io non guardo nella macchina, io sono di fianco alla macchina e guardo la gente, mi sento molto vicino alla gente, e loro non si sentono spiati.
Quando dici che stai facendo una foto immediatamente non gliene frega più un cazzo a nessuno. La foto è una cosa banale. Basta la parola foto e scompaiono tutti, e io divento invisibile. E ho tutto il tempo di osservare liberamente tutto quel che accade. Le mie foto sono stampate molto grandi perché questa misura dà la possibilità di avere un confronto con la foto, cosa che su uno schermo non è possibile. Vedi e non vedi.
Ma d’altra parte questo è quello che mi salva, se vendo le foto è anche perché la gente le vuole avere in casa, le vuole apprezzare nel tempo, le vuole vedere bene. I miei, diciamo così, clienti, mi dicono le stesse cose che dico io, alcuni soggetti su certe foto diventano membri della famiglia.
Adotta una foto… In effetti le sue foto mi paiono contemporanee e al tempo stesso antimoderne, nel loro essere così dipendenti dalla tecnica e d’altra parte così violente a causa dell’elisione del paesaggio, dello scenario. Lei ha visto generazioni di italiani andare in spiaggia. Come è cambiato dal suo punto di vista il divertimento, il tempo libero?
La gente che fotografo non si diverte. Sono spesso assenti, sono tristi. Se parliamo dei miei lavori in discoteca è diverso. Le disco, che una volta erano i punti nodali della società dello sballo, adesso non hanno più quel ruolo centrale che avevano prima. D’altra parte mi sembrerebbe noioso andare a fotografare dei giovanotti che fanno l’aperitivo sui Navigli.
Le discoteche sono state alla fine degli anni Novanta un momento importante per me, erano qualcosa di straordinario, poi ho fatto i concerti, ne ho fotografati svariati, fino a Jovanotti, che è stato un punto di svolta molto interessante perché ha riunito un pubblico assolutamente trasversale.
Le ha fatto un favore, ha riunito i suoi soggetti preferiti: ha portato la gente a ballare in spiaggia di giorno.
Meglio di così non poteva fare! Ma veramente l’importanza delle foto è che ho ritrovato la stessa trasversalità che tu trovi su una spiaggia.
Tempo fa diceva che le sembrava di vivere in un mondo sanificato.
Sa, uno dice tante cose, che poi vorrebbe rimangiarsi. Ricordo il tema della società sanificata. Erano altri tempi, erano gli anni zero, in cui la società era molto più in movimento e in fondo quelli che stavano sulle spiagge si comportavano in un modo diverso dal resto della società. Erano più normali, come se portassero il tinello di casa al mare, erano casalinghi mentre invece fuori c’era molto più fermento. Per questo mi parevano sanificati.
Vivevano il tempo libero in modo omogeneo al tempo casalingo. Passivi e rilassati, senza grandi voglie. Senta la spaventa l’idea che la società permanga nello stato attuale di sanificazione, che scompaiano i suoi soggetti?
La pandemia finirà e non finirà, come tutte le cose. La pandemia è come l’Aids, non è mai finito ma a nessuno frega più un cazzo. Già quest’estate la gente si era dimenticata della pandemia, anche troppo direi, e dopo tre o quattro lockdown la gente tornerà a fare quello che ha sempre fatto, che ci sia un vaccino o no. La pandemia diventerà una cosa alla quale nessuno penserà più. Sarà cronica. Quando iniziò l’Aids c’era una vera paura, la sentivi, ora tutti fanno quel che gli pare con tutti, a nessuno viene in mente “forse questa cosa non la faccio perché c’è l’Aids”, anche se non hanno trovato il vaccino.
Per fortuna hanno trovato cure più efficaci e dunque è diventata una malattia come un’altra. Secondo me è più facile che la gente se ne dimentichi piuttosto che venga trovato un vaccino. La gente sarà sempre così, siamo animali sociali, tenderemo a rimanere tali. Sono cose già successe nella storia dell’umanità, non vedo perché questa debba essere un’eccezione.
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