Mirko ha diciotto anni e 278 mila follower su TikTok. Dieci giorni fa ha pubblicato un video che lo ritrae in lacrime sotto la scritta «Io da bambino mentre piango per la morte di mia madre». Stacco. Mirko sta ballando adesso, la caption recita: «come rispondo ai cristiani quando mi dicono che è tutto un piano di Dio». In sottofondo Brividi di Blanco e Mahmood.

Ele<3 , che di follower ne ha ancora pochi, fa il suo debutto su TikTok con un’immagine di lei disperata per la morte del padre, seguono nuvole di varie forme in cui, scrive, vede i contorni di cuori lasciati in cielo dal genitore come saluto e promessa di veglia eterna.

Roberta, lontana da Ele<3 per età e geografia, commenta: «è successo anche a me». Sul suo profilo, infatti, compare un video breve, lo screenshot della schermata di WhatsApp più indimenticabile della sua vita, quel messaggio che le comunicava che suo padre non c’era più.

Gigi invece è un adulto con dei progetti e una moglie, o almeno così sembra all’inizio del video. Vediamo lei sorridente, denti bianchissimi.

Sulla sua fronte primeggia una frase «Sei mesi fa». Una musica ritmata accompagna una carrellata di immagini della coppia; si baciano, mangiano un panino, cantano Vasco, si abbracciano sotto la Tour Eiffel.

Più la musica incalza, più le didascalie si fanno intense “avevamo tutto”, “a noi bastava noi”. E poi la melodia si placa, la batteria rallenta e la ragazza adesso è ritratta in ospedale. Stacco.

La scena si apre su un salotto; il divano vuoto, il doppio mazzo di chiavi sul tavolino, le ciabatte rosa sotto al termosifone. Il video, 34.500 like, chiude così: «La vita senza te non è vita».

La vita eterna social 

Se nell’Antico Egitto si pensava che il corpo per rinascere dovesse rimanere integro, sembra che qui in Occidente, nel 2022, si stia strutturando un pensiero di vita eterna sconnesso dal corpo ma collegato al ricordo del defunto sui social, dove il like diventa “terapeutico” per chi resta.

Durante gli anni dell’università, una mia conoscente fotografa perse sua sorella.

Il giorno del funerale pubblicò la foto della tomba su Facebook; splendeva il sole quella mattina, i raggi battevano sulla data di nascita della ragazza. Ne rimasi indignata.

Dentro di me mi dissi che una tale esposizione del dolore non poteva essere altro che una puerile richiesta di attenzione. Paragonai il suo atteggiamento al mio di qualche anno prima, quando il lutto era capitato a me. Ma mi resi presto conto di un dettaglio: mio padre era morto nel 2000, quando i social ancora non esistevano.

In psicologia il lutto viene definito come la condizione successiva alla perdita o quella anticipatoria. Questa distinzione tra lutto prima della morte e lutto post morte - che forse alcuni possono trovare sorprendente ma che, a pensarci bene, può aver colto ciascuno di noi se mai ci siamo trovati a fare i conti con una persona cara malata e abbiamo avuto paura di perderla - su TikTok è diventata un trend. 

Il rito è semplice, il montaggio anche: un video diviso in due parti, nella prima parte il protagonista piange per la morte di un amico, nella seconda parte svela che l’amico in questione è ancora vivo. Anche qui i commenti imperversano: «lo faccio pure io» dice Nina, «pensavo di essere l’unico» commenta Vittorio.

«Che bella idea, serve per provare emozioni e prepararsi se succede, ve’?», scrive Simona. «Amo, non porterà sfiga?», chiede Cate.

La morte è social, ma non è una novità; Instagram e Facebook strabordano di post di saluto per anniversari e ricorrenze.

TikTok però è andato oltre, ha portato sugli schermi l’elaborazione del lutto.

Non è la prima volta che un media pone l’attenzione su queste tematiche, ma è la prima volta che la spettacolarizzazione della morte si fa da parte per lasciare spazio alla riflessione di chi resta.

Se i talk show televisivi ci hanno abituati alla testimonianza della tragedia in versione melodramma mal scritto, che alcuni li allontana altri li fa sentire fortunati di non essere al posto di chi soffre, i video di TikTok in cui le persone raccontano i loro lutti, stando ai i commenti, scaturiscono emozioni completamente diverse.

Quei contenuti non vengono guardati da semplici curiosi ma da chi ha vissuto situazioni simili. È un grande cambiamento nella narrazione del lutto che passa dall’essere spettacolarizzato ad essere innesco per una comunità che cerca una vita più serena.

A dirla così, tuttavia, non sembra nemmeno questa una grande novità; sembra che dove la religione non riesca ad arrivare, sia arrivato TikTok.

E infatti la Chiesa non si tira indietro; così, tra un balletto coreografato in cucina e i cinque consigli per l’eyeliner perfetto, può capitare di ritrovarsi a guardare un prete che seguendo un trend basato su una strofa di Come se non fosse stato mai amore di Laura Pausini, accusa una maestra di aver bocciato un bambino nonostante avesse perso la madre pochi mesi prima. I commenti al post del seguitissimo sacerdote sono centinaia.

Ragazzi che in poche, pochissime, righe raccontano che anche loro hanno preso brutti voti a scuola nonostante la morte di genitori, amici, fratelli, nonni.

In queste fugaci esternazioni di dolore, le parole cancro e tumore vengono utilizzate senza remore, con refusi e emoticon di croci ad accompagnarle. Gli adolescenti non hanno più bisogno di metafore per la malattia, nessun “brutto male.

Ne sarebbe forse felice Susan Sontag che in uno dei saggi più belli della storia della letteratura Malattia come metafora racconta quanto i termini utilizzati per indicare le malattie più gravi facciano paura all’essere umano che non pronunciando alcune parole si illude di liberarsi anche di ciò che identificano. Ma Susan Sontag non ha vissuto abbastanza a lungo da vedere TikTok.

Postare è vivere

Anni dopo aver ingiustamente criticato le scelte della mia conoscente, mi sono ritrovata per caso con una foto di mio padre e me da bambina tra le mani. Io e lui alle giostre: la dimostrazione che per un periodo di tempo, seppure breve, siamo stati vicini. Ho sentito subito fortissimo il desiderio di fare un post con quell’immagine.

Solo dopo averlo pubblicato mi sono resa conto di una cosa: avevo messo mio padre su Instagram. La sua faccia ne stava nel mio feed su un social che nemmeno ha mai saputo potesse esistere (Zuckerberg aveva sedici anni quando mio padre è morto). Eppure, per quella giornata di cuori e vicinanza, io ho sentito mio padre più vivo.

Lo spazio che abitava non era più quello della mia sola memoria, era diventato cittadino di un villaggio a me caro, un villaggio che frequento ogni giorno.

Grazie a Instagram adesso io e mio padre siamo nello stesso posto, vicini, insieme per sempre: mi vengono i brividi a scriverlo - e non quelli di Mahmood e Blanco ma quelli di chi si rende conto di quanto ti può far diventare superficiale il dolore.
Era inevitabile che i social, grande rivoluzione delle nostre vite, rivoluzionassero alla fine anche le nostre morti ma c’è da chiedersi quanto il discorso che avviene in quegli spazi trasformi le esistenze. Storicamente le popolazioni si sono evolute anche in rapporto alla gestione della morte e alla sua percezione; cimiteri, funerali, rituali e usanze hanno sempre rappresentato tratti distintivi delle società e delle religioni che le dominano.

Senza filtri

Il lutto su TikTok non è accompagnato da nessun trigger warning. Ti arriva in faccia, come nella realtà; un secondo prima stai guardando un cucciolo di husky, un secondo dopo ti compare il viso di Daniele, morto a 31 anni per infarto.

Mi domando come possano convivere nello stesso luogo due sensazioni tanto estremizzate quanto opposte: da una parte i social ci fanno sentire invincibili, potenti, immortali, dall’altra sono una delle maniere che abbiamo trovato per sopportare l’idea della fine e quindi della nostra vulnerabilità.

In mezzo ci passano delle tendenze che alternando euforia a dolore, forse, in una maniera ancora da affinare, se guardati da una diversa prospettiva ci abituano all’instabilità della vita.

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