-
Se non avete letto l’ultimo di Franzen, forse non potrete capire l’ultima di Succession. Succession è, da un punto di vista antropologico, politico, culturale, il documento più rilevante sull’eterna giovinezza degli Stati Uniti, sul loro stato di adolescenza che nelle epoche resta immutata.
-
E qui torniamo a Franzen, che in Crossroads sceglie i primi anni Settanta e le loro contraddizioni come sfondo di una storia che è identica a questa. I personaggi di Franzen, a pensarci bene, sono gli stessi di Succession.
-
Da un punto di vista psicanalitico, non c’è opera che abbia meglio riassunto la nostra incapacità – nostra cioè di noi che viviamo in quest’epoca – di diventare grandi.
Se non avete letto l’ultimo di Franzen, forse non potrete capire l’ultima di Succession. L’ultimo di Franzen – s’intitola, lo saprete, Crossroads, da noi lo pubblica al solito Einaudi – è un romanzo sulla famiglia americana come pressoché tutti i romanzi di Franzen, soprattutto come quello che resta inarrivato (Le correzioni, saprete anche questo). Ma è anche una grande parabola sullo stato dell’Unione, in senso politico e ovviamente letterale, come (aridaje) tutti i libri dell’autore; è il racconto dell’ennesima nascita di una nazione che sembra non crescere mai, costretta alla sua condizione d’infanzia perenne.
Così sono i personaggi di Jesse Armstrong, l’inventore di Succession: bambini-per-sempre che non riescono mai a superare qualsivoglia esame di maturità, e che solo nell’ordine classicamente famigliare ogni volta ristabilito (i figli contro il padre, che però è molto spesso un capriccioso ragazzino anche lui) possono pensare di sopravvivere.
Succession è, da un punto di vista antropologico, politico, culturale, il documento più rilevante sull’eterna giovinezza degli Stati Uniti, sul loro stato di adolescenza che nelle epoche resta immutata.
Ma procediamo con ordine.
Complessità e semplificazioni
La terza stagione, in Italia ancora in corso su Sky, è cominciata laddove finiva la precedente: dallo strappo definitivo tra il padre (Logan Roy, interpretato dal monumentale Brian Cox) e il meno prodigo dei figlioli (Kendall, il sempre più stratosferico Jeremy Strong).
Dalla guerra ormai aperta tra il capofamiglia che guai a levargli il potere e il figlio che pensa di poterlo arraffare per sé senza averne i mezzi, ché, come tutti i figli diventati grandi (vabbè) in questo secolo, è un bimbetto fragile che quel potere non sa nemmeno da che parte cominciare a maneggiarlo. Ma così si semplifica troppo.
E, parlando di semplificazione, Succession è un mondo – di milionari, sì; di stronzi, sì; di eterni bambini, sì – ma è soprattutto la migliore televisione possibile che si possa confezionare in questo momento della storia in cui si tende davvero a semplificare tutto.
Succession non semplifica: Succession complica, amplifica, stressa – la narrazione, l’arco psicologico (gli esperti lo chiamano così) dei personaggi, la pazienza stessa dello spettatore – perché solo la complessità può combattere la semplificazione, appunto; e l’approssimazione, la facilità, il dibattito ridotto a infografica che è la via più facile, oggigiorno.
Lo dico fin da quando uscì la prima, sbalorditiva stagione: nel panorama audiovisivo corrente, Succession è una delle pochissime (l’unica?) serie in grado di trattare lo spettatore da adulto; da pensatore critico, e non solo da content user da manovrare a colpi d’algoritmo.
Il reverse benchmark, in questo senso, è The Morning Show, una serie adulta e complessa solo “presso sé stessa”. E questo fin dalla prima osannatissima stagione, che almeno un po’ ci provava, a porre sfumature in un discorso sul “post MeToo” in realtà molto più autoassolutorio di quanto lasciasse pensare e sperare. Figuriamoci con la seconda stagione, andata da poco su Apple TV+, che invece evidenzia il paradosso dell’impianto generale: fingere di ragionare sui temi complessi che offre il dibattito di oggi per poi lasciarsi irretire dal dibattito stesso, che costringe conformisticamente ad allinearsi. Ma questa è un’altra storia, o forse no.
Ecco, il punto è precisamente questo: Succession può permettersi una trama che è, quella sì, semplicissima e in fondo sempre uguale a sé stessa – papà e figli lottano per la gestione dell’azienda di famiglia – proprio perché la complessità la mette altrove: nei personaggi che sono specchio della nostra società fragile, mitomane, più vittimista che vittima; nel cortocircuito politico e culturale di un paese che non sa più in cosa specchiarsi, in quali valori credere, in quale visione riporre il proprio futuro.
Figli di ieri e di oggi
E qui torniamo a Franzen, che in Crossroads sceglie i primi anni Settanta e le loro contraddizioni come sfondo di una storia che è identica a questa, che è identica a tutte. I personaggi di Franzen, a pensarci bene, sono gli stessi di Succession.
C’è il padre di famiglia travolto da una contemporaneità che non riesce a decifrare, nonché tradito dalla stessa (mal)educazione impartita ai figli. C’è il figlio che vorrebbe opporsi ai valori paterni, e che dunque sceglie la guerra invece della fede: ma, per debolezza, non riuscirà a compiere la propria missione. C’è la figlia che, per dimostrare – anche se mai lo ammetterà – il suo amore al padre, finirà dentro un matrimonio con un bravo-ragazzo-a-caso che spegnerà i suoi talenti, le sue ambizioni. C’è il figlio che si lascia travolgere dal vizio per non assumersi le responsabilità a cui quella famiglia da sempre lo chiama. Sono i personaggi del libro o quelli della serie? Le rapide descrizioni possono valere per entrambi.
La sola differenza è che i protagonisti di Succession fanno più male a noi che li guardiamo perché stanno dentro il mondo che è lo stesso nostro, non ci sono Vietnam e liberazione sessuale come quinta. I personaggi di Succession sono i figli, i bambini, del nostro mondo e del nostro tempo.
Dei bambini hanno le stesse paure. La paura di finire in prigione (cresce in meschinità e, a livello di scrittura, in meraviglia il genero interpretato da Matthew Macfadyen). La paura di essere preda dei bulli (a riguardo, il capoclan medesimo ha qualcosa da rimproverarsi: basti la strepitosa puntata in cui il bilionario Adrien Brody cerca di far fuori in un colpo solo il padre e il figlio in guerra). Soprattutto, hanno paura di non piacere a papà, e di conseguenza a tutti quanti.
Da un punto di vista psicanalitico, non c’è opera che abbia meglio riassunto la nostra incapacità – nostra cioè di noi che viviamo in quest’epoca – di diventare grandi.
In uno degli episodi più belli della terza stagione (il settimo, quello della festa di compleanno di Kendall) c’è un dettaglio che è l’emblema preciso di tutto questo: per accedere alla sala in cui ha luogo il party, gli invitati devono attraversare un corridoio a foggia di vagina da cui è uscito il festeggiato, e dunque i suoi fratelli – che reagiranno a questa trovata ciascuno a modo suo: chi scandalizzatissimo e chi invece edipicamente affascinato.
Fino al finale, ma qui davvero non si può spoilerare, che ristabilisce, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, il consueto (dis)ordine iniziale: padri e figli che non potranno crescere mai, forse perché non vogliono.
La maestra cattiva
Tutt’attorno, c’è l’America come nazione che non diventa mai grande nemmeno lei, dal chi-ce-l’ha-più-lungo del torneo tra milionari al lobbismo politico da ragazzini: i Roy sono i Kennedy che si può meritare questo tempo immaginario e immaginato (ma perfettamente verosimile) perché come loro sono il prodotto di una dynasty di infanti.
La cosa più bella, tra le tante, che ha prodotto l’intelligentissimo, il complessissimo, l’adultissimo Succession sta, ironia della sorte, proprio nel dibattito di oggi, nell’America di oggi. Forse avrete letto in giro del caso che più ha titillato la bolla statunitense nei giorni scorsi.
Il New Yorker ha pubblicato un ritratto di Jeremy Strong, cioè l’attore che fa Kendall, molto ben scritto ma assai poco lusinghiero. Ci si burla del suo Metodo (maiuscolo), che non gli consentirebbe di prendere Succession per la commedia che è, «lui la recita come fosse l’Amleto», sintetizzo. Si scava nel carattere difficile, qualsiasi cosa significhi, che ha condizionato la sua carriera. E via così.
A fronte di un pezzo che da noi sarebbe impubblicabile per ben altri motivi (vorrai mica inimicarti gli uffici stampa), laggiù succede ciò che la serie ha sempre voluto inscenare: l’asilo Mariuccia che sono diventati (che sono sempre stati) quel paese e il suo popolo.
Il New Yorker era di colpo la maestra cattiva, i primi della classe (Aaron Sorkin, Jessica Chastain, Anne Hathaway) prendevano pubblicamente le difese del povero compagnuccio ferito. Jeremy Strong la vittima, Kendall il più figlio di tutti: cioè quello su cui la serie ha sempre giocato, fino alla fine di quest’ultima stagione. Succession aveva già detto tutto, aveva già capito tutto.
© Riproduzione riservata