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- Nel sud della Francia esiste un legame unico fra luce e colore che negli ultimi secoli ha ossessionato un gran numero di artisti.
- Camminando per le campagne del Luberon, si ha talvolta la sensazione di percepire una “luminescenza” simile alla coda lunga di un’esperienza psichedelica.
A Cap Ferrat, in Costa Azzurra, qualcuno ha installato una cornice gialla sopra una piccola baia. Bevo una birra ai tavolini di un camion che vende bibite ghiacciate e pan bagnat e osservo il flusso di persone che usano la cornice per scattare selfie o fotografie. Queste installazioni pensate per le “photo opportunity” generano reazioni quasi pavloviane ovunque vengano messe, ma in questo specifico angolo di mondo una cornice appoggiata sul paesaggio evoca anche un rapporto fra territorio e pittura che negli ultimi secoli si è dimostrato fra i più prolifici, alimentato dal legame unico che qui hanno luce e colore.
Una specificità che ha ossessionato un gran numero di pittori, da Cézanne che anche per questo motivo lasciò poco e quasi sempre controvoglia la natia Aix en Provence, a Van Gogh che in fuga da Parigi si rifugiò ad Arles, a Picasso che passava le estati sulla Costa Azzurra, a Matisse che si trasferì a Cimiez, oggi un quartiere di Nizza, a Raoul Dufy che si sottrasse ai toni freddi della sua Le Havre per dipingere tele che sembrano quasi esplodere di colore e la lista potrebbe andare avanti ancora a lungo.
Luminescenze provenzali
In Ventiquattr’ore nella vita di una donna Stefan Zweig fa dire al personaggio di una nobildonna scozzese habitué della Costa Azzurra: «Lei conosce la Riviera. (…) A volte (…) vi sono giorni in cui la bellezza si desta ed erompe, grida forte le vivaci tinte fantasticamente lucenti, e ci scaglia contro, vittoriosa, l’esuberanza dei suoi colori seducenti, e arde e brucia di sensualità».
Alcune persone dopo aver effettuato delle esperienze psichedeliche riferiscono di aver continuato a percepire – anche sei mesi o un anno dopo la fine del trip – una sorta di leggera “luminescenza” posata sopra la superficie degli oggetti e sui paesaggi naturali, un residuo di alterazione percettiva interpretato talvolta come l’indizio di un livello ulteriore e nascosto della realtà, un mistero pulsante occultato dentro il cuore del mondo, l’ipotesi di una connessione universale fra le cose.
Nei giorni seguenti, camminando per le campagne del Luberon, ho avuto più volte la sensazione di percepire qualcosa di non troppo diverso da quel genere di coda lunga psichedelica. Era come se una leggera patina lucente fosse sovrapposta ad ogni cosa: agli ulivi, alle vigne, alle querce, ai cipressi e ai monti in lontananza. Attraverso la vividezza dei colori, la natura si manifesta in Provenza con un’assertività differente sia dai toni aridi e costanti del nostro mezzogiorno che dalle tavolozze chiaro scure e dalle luci leggere e diffuse dei territori del nord.
Armonie di Cézanne
Davanti a quel tono specifico – un’intensità del colore così esuberante e vitale da sembrare quasi capace di mettere in discussione i bordi degli oggetti– mi è parso per la prima volta di capire cosa stesse cercando di fare Cézanne nei suoi dipinti, quale orchestrazione di rapporti, quale armonia delle parti cercasse di rivelare. Una sensazione possibile perché Cézanne aveva avuto successo nel suo tentativo, era riuscito cioè a ricreare nelle sue opere precisamente quell’intangibile rapporto fra luce e colore; il mio guardare era diventato così un riconoscere una rappresentazione già nota dentro una realtà prima sconosciuta.
Cézanne è riuscito nel compito non attraverso il realismo ma evocando la perturbazione che si manifesta in noi quando ci sembra di intuire l’esistenza di un’essenza delle cose. Il legame fra realtà e rappresentazione qui non è solo sociologico o culturale, è anche, e forse soprattutto, tecnico e percettivo, è un qualcosa che nasce dall’insistere artistico su uno specifico fenomeno fisico-biologico, ovvero il presentarsi del mondo allo sguardo, un processo con implicazioni filosofiche fondamentali. Per questo motivo così come non si può mai apprezzare, né capire fino in fondo, un dipinto guardandone la fotografia, è impossibile capire davvero il legame che intercorre fra un dipinto di Cézanne e la luce che si distende sui dintorni di Aix en Provence se non si fa prima esperienza diretta di entrambi.
Nel luglio del 1876 Cézanne scrisse a Pisarro da L’Estaque, una località di mare nei pressi di Marsiglia: «Il sole è così terrificante che sembra che la silhouette degli oggetti non sia solo in bianco o nero ma anche in blu, rosso, marrone e violetto. Potrei sbagliarmi ma mi sembra l’esatto contrario del modellare» (Cézanne a l’Estaque).
Pisarro, nove anni più anziano e dotato di un carattere paziente e conciliante, aveva una notevole influenza su Cézanne. Poco tempo prima gli aveva scritto «Non lavorare pezzo per pezzo. Applica il colore ovunque e osserva attentamente i valori tonali in rapporto al paesaggio. (…) l’occhio non deve concentrarsi su un punto specifico ma deve assorbire tutto e nel fare questo nota il riflesso dei colori sull’ambiente. (…) non seguire regole e principi, ma dipingi quello che vedi e senti. (…) devi essere intrepido, anche di fronte al rischio di fare male e di sbagliare. C’è un solo maestro: la natura». In un’altra occasione Pissarro aggiungerà a proposito del suo rapporto con l’amico: «Eravamo sempre assieme, ma ognuno di noi teneva per sé l’unica cosa che conta: le proprie percezioni».
Seguire questo genere di insegnamenti era molto pericoloso non solo perché mettere in discussione il canone lo è sempre ma perché l’alternativa proposta da Cézanne aveva al centro la soggettività in un’epoca in cui l’io non era ancora diventata la misura di tutte le cose: tanto individualismo non appariva solo dilettantesco ma anche intollerabilmente sfrontato.
La maggior parte della vita di Cézanne fu quindi difficile, venne a lungo deprecato e ridicolizzato dal mondo della cultura parigino mentre nella sua Aix en Provence era lo strano figlio incapace di un famoso banchiere. Oltre al mancato riconoscimento – anzi all’aperto disprezzo – del mondo artistico e alla conseguente penuria di vendite, Cézanne dovette subire costanti ristrettezze economiche e le ire del padre, a cui nascose anche l’esistenza di una moglie e di una figlia.
I tesori di Aix
Aix è ancora oggi la località che meglio custodisce lo spirito provenzale, signorile città appena ritirata nell’entroterra alle spalle di Marsiglia, ha un centro color pietra e terra, ricco di piazze e di fontane. Città universitaria, Aix è benestante, sede di festival e ricca di musei, il principale dei quali conserva diverse opere di Cézanne ma è intitolato a un altro pittore cittadino, François-Marius Granet. Granet è interessante sia in sé sia come antitesi di Cézanne: lo precede di una cinquantina di anni ma è un pittore che guarda al passato anche oltre il suo dato anagrafico.
In un’epoca di crescente secolarizzazione, Granet si recò in Italia per un viaggio di ricerca spirituale e lì si dedicò ai paesaggi, alle rovine romane e ai soggetti sacri. Dipinse notevoli quadri a olio in cui i giochi di luce sono spesso teatrali e drammatici, quasi caravaggeschi, e restituì con abilità la costanza dei colori dell’Italia centrale. Ai nostri occhi però Granet risulta eccessivamente ancorato a due soli stati d’animo: il pathos del dramma epocale – eccessivamente “scritto” – e, per contrasto, la contemplazione dell’idillio perduto, sia esso naturale o classico. I suoi paesaggi sono fermi, privi di dinamismo, come ipostatizzati nel tempo, dominano e determinano in toto i personaggi che, quando ci sono, paiono più exempla che individui in carne ed ossa.
Nonostante le innegabili qualità pittoriche – che si apprezzano in particolar modo confrontando le sue opere con i tanti epigoni del tempo – la narrazione langue, l’assenza di errore e d’incertezza annoia, la diversità irriducibile di quella vita interiore rispetto alla nostra rendono Granet un pittore incapace di trattenere a lungo lo sguardo contemporaneo.
Al tempo di Cézanne però questo genere di opere avevano un mercato fiorente presso i collezionisti di provincia e aiutano a capire quanto, non solo a Parigi ma anche nella sua Aix, Cézanne fosse un’anomalia e come fosse in fondo comprensibile che il successo per lui tardasse ad arrivare. In compenso l’uso del colore di Cézanne darà il là a molti degli esperimenti e delle correnti più importanti degli anni successivi, tanto da venire considerato «il padre di tutti noi» sia da Picasso che da Henri Matisse.
Nel museo Cantini di Marsiglia è esposto uno Studio accademico di un uomo proprio di Matisse, un quadro a figura unica particolarmente magnetico e dotato di una profondità quasi inquietante. Ottenuto senza linee o forme delineate, ritrae un uomo nudo con la testa leggermente alzata e il soggetto non emerge dal tratto ma dalla dinamica con cui i colori interagiscono fra di loro, proprio secondo la lezione di Cézanne.
Nello stesso museo è esposto anche Sviluppo in marrone, un quadro dipinto alcuni decenni più tardi da Vassily Kandisky, un’opera che rappresenta una deriva ulteriore e successiva dell’originaria rivoluzione di Cézanne. In questo caso ci sono diversi passaggi intermedi in più rispetto al quadro di Matisse, mutazioni successive che comprendono la reintroduzione delle forme, questa volta però geometriche e astratte; tutto però si regge ancora sull’emotività liberata del colore.
Van Gogh ad Arles
Vincent Van Gogh influenzò a sua volta i posteri ma conobbe se possibile ancora meno successo in vita – anzi sarebbe più corretto dire che non ne conobbe affatto visto che in tutto vendette un solo quadro. Il pittore olandese visse per un periodo ad Arles, la capitale della Camargue ed estrema propaggine ovest della Provenza. Anche in questo caso la corrispondenza è impressionante: la luce della Camargue si rivela quella dei quadri di Van Gogh già dai raggi che, attraverso le ultime nubi di un fortunale appena concluso, illuminano i campi di girasole all’ingresso della città.
Quando arrivo, Arles è bagnata dalla pioggia e sembra una città punita, sull’orlo dell’abbandono, definita dalle muffe e dagli aloni sui muri, ma appena si asciuga muta forma, la luce le dona un’identità indolente, mediterranea, riemerge un sud prima insospettabile. È pur sempre un sud della Francia per cui al blu screziato del Rodano, a quello limpido del cielo e ai toni chiari delle case, si mischia il verde intenso degli alberi nelle piccole piazze che si aprono inaspettate nel dedalo del centro e quello, fuori le mura, delle coltivazioni, degli acquitrini, delle risaie e delle paludi del delta.
Arles è ricca di vestigia romane, tra cui un grande anfiteatro che fino al XIX secolo era stato inglobato dalla città, con abitazioni che si erano sviluppate attorno e dentro le sue mura. Riportato alla luce, oggi è sede delle ferias, le corride coi tori che aprono e chiudono l’estate. Arles ha un ritmo tutto suo, più lento e meridiano, è una città dove i ristoranti stellati e le boutique con le capsule collection dei marchi alla moda si alternano a dei bar dove è possibile bere un pastis con due euro, una cadente chiesa sconsacrata è diventata sede espositiva ed è possibile perdersi dentro la grande libreria di Actes Sud, una delle rarissime case editrici francesi che non hanno la loro sede principale a Parigi.
Ad Arles non esiste più la “Casa gialla” dove Van Gogh sognò di creare una comune di artisti ma riuscì a portare soltanto Gaugin (che si fece spesare dal fratello dell’olandese). Gaugin trovò la città sporca e la convivenza fra i due pittori finì poco tempo dopo con Van Gogh che si lanciò per le vie del centro all’inseguimento del collega, brandendo un rasoio. Gaugin dopo avere affrontato Van Gogh – che si calmò – corse a fare i bagagli. Rimasto solo l’olandese si tagliò l’orecchio e fu ricoverato all’Hôtel-Dieu, l’antico ospedale di Arles. Oggi il cortile dell’ex ospedale è ancora piuttosto simile al dipinto che ne fece Van Gogh e nella struttura è ospitata una grande biblioteca pubblica.
La costa
Un po’ più difficile, oggi, è avvertire la luminescenza dei colori sulla costa, a causa degli effetti della speculazione edilizia sui paesaggi, una grigia devastazione che costringe al costante esercizio mentale di provare a immaginare che cosa dovessero essere i villaggi di pescatori e le città prima di trasformarsi negli attuali addensati di ecomostri. Fra gli sfregi peggiori della Costa Azzurra ci sono le vele di Villeneuve-Loubet, curiosamente simili a quelle di Scampia e costruite a poca distanza da Antibes e dal Musée Picasso.
Nel raggio di pochi chilometri sono così contenuti tre strati tra loro molto diversi e perfettamente simbolici del presente di questa parte della regione. Il primo sono i mastodontici e sgraziati condomini, il secondo è rappresentato dai giganteschi yacht dei miliardari alla fonda a poche decine di metri dalla costa: navi che spesso fanno sfoggio di tutto il necessario per i “giochi d’acqua”, dagli acquascooter fino agli scivoli gonfiabili che dai ponti superiori si infilano nel mare. Il terzo, come fosse il centro di un’irradiazione finita male, è la minuscola città vecchia, il silenzioso insediamento originario di Antibes attorno a quello Château Grimaldi oggi diventato il Musée Picasso.
È stata infatti anche l’eco degli artisti e delle loro opere ad agevolare nei decenni le colate di cemento: il mercato immobiliare richiedeva prossimità non solo alla polvere di stelle e al bel mondo ma anche all’aura e al mito dell’arte. Non è forse un caso che le stesse firme apposte sulle opere – usanza sconosciuta per lunghi secoli nel mondo della pittura – dagli artisti che hanno reso famoso questo territorio siano diventati dei brand, spesso anche più degli stessi quadri.
Il museo all’interno dello Château Grimaldi nacque da un incontro di Picasso con il curatore dell’allora museo di Antibes, una chiacchierata in cui l’artista si lamentò del fatto che nessuno stato gli avesse mai offerto una grande superficie da decorare. Detto fatto, viene arrangiato un piano di quell’austero palazzo sul mare che poco tempo prima proprio Picasso avrebbe voluto comprare per sé, salvo venire anticipato proprio dal comune di Antibes.
I Picasso di Antibes
Nascono con quelle residenze i “Picasso di Antibes”, opere a riguardo delle quali l’artista – molto più abile nel promuoversi rispetto a Cézanne o a Van Gogh – ebbe a dire «per vedere i Picasso di Antibes bisogna andare ad Antibes». Frase in realtà solo parzialmente vera perché una parte importante di quei lavori l’artista li portò poi con sé a Parigi. Quello che rimane comunque è tutt’altro che irrilevante. Per quanto riguarda il legame fra pittura e luce del territorio sono particolarmente significative alcune nature morte – pesci, polpi e ricci di mare – e i piatti di ceramica che Picasso prese a decorare dopo aver visto quelle di Vallauris, un paese fra Antibes e Cannes dove, per via della presenza di argilla, si produce vasellame sin dall’antichità.
Ricchi di fauni e di animali, i Picasso di Antibes fondono le sfumature color terra dell’abitato con il blu del mare e l’azzurro del cielo ed è il contrasto fra colori a dominare la resa. È sempre il contrasto – ma in una maniera ancora più smaccata ed evidente – ad essere alla base del lavoro di Raoul Dufy, raccolto questa estate nella temporanea L’ubriachezza del colore all’Hôtel de Caumont, il museo dell’elezione della borghesia di Aix en Provence. Il pittore del nord della Francia sceso in Provenza esaspera le giustapposizioni fino a creare quasi una sorta di ebrezza cromatica.
La forza dei colori, la decisione e la ricchezza della luce sono forse l’unica costante in questo territorio di mezzo fra il centro e il sud d’Europa, una terra florida, rigogliosa e piena di compresenze inusuali: gli ulivi si alternano alle vigne, alle querce, ai castagni, agli alberi da frutto, fino alle risaie e agli acquitrini della Camargue o e ai campi di lavanda del Luberon.
Un paesaggio cangiante che sembra contenere sempre almeno un paio di mondi contemporaneamente e che non ha ispirato solo i pittori ma anche Nietzsche – che faceva lunghe passeggiate presso Eze, un piccolo paese a strapiombo sul mare vicino a Nizza – e Petrarca che visse a lungo a Fontaine-de-Vaucluse, un borgo di montagna dove sale in superficie la più grande fonte d’acqua sorgiva d’Europa e dove lungo i rivoli dei ruscelli si dice che il poeta abbia conosciuto la sua Laura.
Sfregiato da un turismo di massa fatto di bancarelle e camion di cibo take away, Fontaine-de-Vaucluse è oggi un luogo piuttosto deludente dove sento una guida dire ai suoi clienti cinesi che l’accesso agli ultimi metri alla fonte sarebbe vietati, ma se scavalcano la recinzione «nessuno li arresterà».
L’abbondanza d’acqua garantita da fonti come questa, dalle precipitazioni e dal sistema di chiuse e canali sul Rodano gioca un ruolo fondamentale nella vegetazione della Provenza e nella sovrabbondanza dei suoi colori.
Un altro segreto me lo rivelerà una sera la signora che affitta una delle case del mio viaggio, quando le confiderò, assieme a delle considerazioni sull’impressionante varietà delle coltivazioni, anche le riflessioni su colore e paesaggio finite poi nell’apertura di questo pezzo.
La donna, una danese cinquantenne che un paio di decenni fa ha sposato un vigneron della zona del Mont Ventoux, sorridendo dice che qui piove, è vero, ma poi arriva sempre il mistral e spazza via di un colpo tutte le nuvole, lasciando la vegetazione rigogliosa sotto il sole del Mediterraneo.
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