- Non riuscendo a raggiungere il calamaio. Mi arrampicai sulla sedia. Spinsi via quei mattoni rilegati in cuoio ammassati sulla scrivania. Facendomi spazio.
- Poi presi il taccuino rosso. Lo scorsi pagina dopo ordinatissima pagina fino a trovare un foglio bianco. Presi il calamaio di vetro con l’inchiostro blu.
- Questo racconto è tratto dal nuovo numero di Finzioni, il mensile culturale di Domani che puoi scaricare e leggere a questo link.
Non riuscendo a raggiungere il calamaio. Mi arrampicai sulla sedia. Spinsi via quei mattoni rilegati in cuoio ammassati sulla scrivania. Facendomi spazio. Poi presi il taccuino rosso. Lo scorsi pagina dopo ordinatissima pagina fino a trovare un foglio bianco. Presi il calamaio di vetro con l’inchiostro blu.
Tolsi il tappo conico. Cercando sulla scrivania trovai lo strumento dal lungo pennino che avevo visto usare da mio padre. Lo intinsi nell’inchiostro. Iniziai a scarabocchiare sul foglio. Concentratissimo. Lingua tra i denti. Gomiti sulla scrivania. Le ginocchia che sfregavano contro il piano di legno di rosa. Non riuscendo a decifrare. Dando il mio senso al linguaggio che ancora non aveva iniziato a rivelarmisi. Lavorai sodo a riempire la pagina. Come avevo visto fare da lui. Da mio padre. Pagina dopo pagina.
Nell’eccitazione la mano che scriveva rovesciò il calamaio. Sulla pagina. Non riuscendo a fermare il fluire dell’inchiostro ne guardavo l’emorragia sulla pagina. Come una mareggiata che presto si portò via il castello di sabbia che avevo laboriosamente scritto-graffiato-scarabocchiato annegando tutto nella sua scia. Divorando il bianco. Mostro dalle fauci blu. Scoppiai a piangere. Forte. Confuso. E mortificato. Un fiume di lacrime. Scacciando l’inchiostro. Sbavandolo. Rimproverandolo. Combattendo la sua devastazione a pugni chiusi.
E poi. Sotto i miei occhi. L’avanzata dell’inchiostro si fermò. Vicino all’orlo del foglio. Indietreggiò. Si inarcò in una curva. Mostrò il ventre verde corallo. Fece dietrofront. E iniziò a richiamare le sue forze. A raccoglierle in una nuvola turbinosa che trapanava un foro al centro della pagina. Un esercito in blu che decideva di affogarsi nel gonfiare della propria marea. Finché non restò null’altro che un cerchio regolare. Un lago blu. Calmo. Sereno. Castigato.
Le lacrime di un bambino di quattro anni avevano lavato la pagina.
Venti minuti.
Gli chiesero: «Come fai a creare tanto vuoto?»
«In realtà non si tratta di vuoto, vero? Voglio dire, c’è la luce...la calma occupa spazio...»
Domanda a me stesso: In che cosa consiste l’esperienza del palcoscenico?
Un’iconografia di impressioni,
di influenze,
di letture e di esperienze visive,
di ebbrezze e spudoratezze,
di malattie sofferte senza essere pazienti,
dello star male,
dello star semplicemente ad aspettare per ore intere,
dell’imparare a infilare piselli verdi in punta di forchetta e coltello,
del rubare idee e barare ribaltando le immagini e
riproducendole come progetti “nuovi”,
di idolatria,
di voglie,
di irrequietezza e frustrazione,
di povertà,
di opportunità perse e poi afferrate quando meno ce lo si aspetta,
di incapacità,
di fatica dentro un corpo che intuisce il movimento ma non sa replicarlo,
di croci portate,
di timidezze e dei loro opposti,
dell’imparare a mendicare favori,
del vivere con il volto infangato,
di orgoglio sepolto e funerali senza numero,
di trepidazione,
di tutto esaurito e di serate con meno pubblico,
di entrate perse e “momenti di magia”,
di cura,
di dettaglio,
dell’ingegnarsi,
del capire che le scale a libretto non servono solo per salirci,
del gettare al vento la cautela,
di rischi corsi e alluci incappati negli spigoli,
di discese scivolose e di ripetizioni,
di sedute di counselling,
dell’amare donne e uomini,
del commuoversi per cause che sembrano perse,
di politica e ore passate nelle stazioni ferroviarie,
di arte, e musica, e cinema,
di lacrime che scorrono facili o devono essere spremute da occhi troppo stanchi, di tessuti, e legno, e metallo, e pittura, e carta, e grasso, e del desiderio infinito di far sembrare “cosa che è” quello che “cosa” non è...
Domanda a me stesso: Perché la memoria è tanto spesso sensuale? Che cos’ha in comune la memoria con il fatto di progettare scenografie? O libri? O cataloghi?
Tutto.
6 dicembre 1992
È passata un’ora dalla demolizione della Moschea di Babri. Ho il compito di progettare una nuova scenografia per un concerto di musica indiana con Hari Prasad Chaurasia al flauto e Zakir Hussain alle tabla. Da 15 anni progetto scenografie usando qualsiasi materiale su cui riesco a mettere le mani: gli oggetti trovati e gli effimeri effetti da macchina del fumo oggi non vanno.
Ho appena sentito che dopo la demolizione a Babri un gruppo di gente è saltato sul treno da Pune a Bombay, urlando, con l’intenzione di tagliare le mani a Zakir.
Come tradurre questo senso di smarrimento in una scenografia che sia un tributo al grande musicista e allo stesso tempo un’espressione di questa giornata impossibile?
Prendo due scale a libretto di alluminio che si trovano in teatro. Sono di diverse altezze. Le posiziono in diagonale sul retro della piattaforma di m. 5 x 2.5 coperta di velluto nero che a sua volta viene posizionata nel mezzo del telo nero opaco che copre l’intero piano scenico come un sudario.
Poi inserisco tra i gradini delle scale dei listelli di legno come lance giganti. In fretta e furia incigno e spiego interi rotoli di stoffa rosso sangue. Appendo un’estremità alla soffitta nera sopra le scale. L’altra estremità annoda le scale e poi scende a cascata sul velluto nero. Arriva fino al nero del telo sul piano scenico. Ora il sangue non si ferma più. Scorre copioso e senza controllo. Come un’arteria recisa.
Copre i sedili in una bisettrice diagonale del teatro e arriva nell’atrio e sale le scale e raggiunge la strada. Taglio l’altro lato che a sua volta va a formare una bisettrice diagonale della prima. Come una “croce” gigante di Rosso. E anche questa trova l’uscita e arriva in strada dall’altro ingresso.
Il pubblico dovrà prendere posto tra il sangue.
Autunno 2017
Catalogo dei lutti
Khadi. Tessuto fatto a mano. In 21 varianti e altrettanti colori. Una meraviglia rilegata in tessuto. Le labbrature di questo “oggetto” rifinite in oro e questa “doratura” che accidentalmente fa “sospirare” le pagine quando le si sfoglia. Come fossero state visitate dal ricordo di un lutto. Che viene da un passato remotissimo e sepolto. Un suono come quello che certo deve fare il cuore quando lo si strappa da chi ama. Matrimonio di intento e fortuna? Strumento di progettazione intuitiva? Forse entrambe le cose. E la carta. Natural Evolution, con tessiture appositamente progettate scannerizzate e stampate su bianco.
Fa pensare a una carta che il fuoco ha lambito senza riuscire a bruciarla. E quindi alla capacità di reagire e all’impulso di sopravvivere. Come i libri che facciamo. E il modo in cui li facciamo. I cataloghi dei nostri libri. Non solo libri. Delle nostre passioni. Lavoro di cura per quel certo tipo di letteratura e pensiero e filosofia e politica e performance e poesia e teatro e film che forma la nostra vita come editori. Un catalogo che deve trasmettere tutto ciò ai nuovi lettori che lo sfoglieranno. E i testi che contiene. Quelli appositamente scritti da autori e traduttori e librai ed editori. Un catalogo che avviene una volta l’anno ed è ogni anno nuovo. Tematico. Come questo. Il cui tema è il Lutto. Di ogni genere. Dalle relazioni alla professione. Fino alla perdita della vita stessa. Un catalogo in cui si troverà nuovo significato a ogni “immersione”.
Un catalogo che scivola nella coscienza. Che dà un’immagine personale dell’intento dell’editore senza la retorica di spiegazioni aggiunte. L’oggetto è la cosa. Nulla che vi guidi tranne quanto vi suggerisce la progettazione. Il modo in cui si creano le immagini. Da fotografie scelte negli archivi personali. I vostri e il mio. Effetto seppia che fa pensare ai fragili petali dei fiori chiusi nei vecchi libri.
Il lavoro dell’artista, la trasformazione in collage che si muovono dentro e fuori dai testi. Interpretando. Interagendo. Portando il lettore a più nuove scoperte. Non si tratta solo dei contenuti ma anche della qualità tattile del progetto. La relazione con i libri veri e propri. Quelli orgogliosamente presentati nel catalogo.
Una festa dei sensi.
Io sono un editore. Un editore che ha imparato a “mancare di rispetto” all’idea corrente di “confine”. Non per un senso di arroganza. O perché “so io come si fa”. No. Per ragioni che sono politiche. Come devono essere di questi tempi quasi tutte le cose. E, certo, culturali. È sempre culturale il nostro “bagaglio”! Confini. Fatti dall’uomo.
Confini. Fatti dalle nazioni. Ma la cultura viaggia. Traduce. E quindi trasgrediamo. Non solo i confini ma anche l’immaginazione. Sovvertiamo le strutture esistenti suggerendone delle nuove. Nuovi modi di essere comunità.
Fabbricano stati-nazione che ghettizzano il libro. Ne fanno una merce. Da cacciare. Gettare a terra. Comprare e vendere da un territorio all’altro. Da una lingua all’altra. Come schiavi letterari.
Insomma sto cercando di dire che in questo. Nostro mondo. Dell’editoria. Si spendono. Troppo tempo. Troppa energia. Troppi soldi. Per creare strutture che in ultima analisi ci intrappolano.
I libri attraversano continenti, linguaggi e territori, volano agevolmente nell’universo delle idee. Non lo dirò mai abbastanza: in un mondo globalizzato, la località geografica è un esubero.
Chiunque sia economicamente affidabile, produca libri secondo i rigorosi criteri dell’eccellenza e abbia un sistema di distribuzione dotato della giusta cortesia dovrebbe poter pubblicare ovunque si trovi. Questa pratica del non-confine in un mondo che ama costruire muri.
Mi si chiede spesso di parlare di “sostenibilità”, di “struttura”, di “visione” e della “capacità di reinventarsi”. Non ho mai risposte convincenti. Non ho metodi scientifici o razionali di arrivare alle “cose”; vivo mano nella mano, o “ammanicato” e perciò complice, con “l’incertezza” e “l’intangibile”. Gli opposti della struttura.
Mi rendo conto anche di vivere in un tempo che non presta fede a quell’istinto fisico e viscerale. Specialmente non negli affari e nella politica. Anzi, anche nel mondo dell’arte questo fidarsi dell’istinto va scomparendo.
Sottesa a tutto ciò è l’urgenza di sopravvivere e di fare. Specificamente, “fare arte”. Ed è precisamente questo che gli editori indipendenti fanno da tanti decenni. Dire “sopravvivere” dà un senso di precarietà. Vero; ma non per questo siamo obbligati a essere stressati e infelici! Finché si riuscirà a far fronte alle necessità quotidiane — a produrre un certo tipo di libro che verrà acquistato da pochi; a rendere possibile una performance sperimentale; a creare la mostra di un artista che nessun altro voleva presentare.
Basta cominciare. Il resto verrà da sé.
Come faccio a spiegare una vita intera passata a sopravvivere d’istinto nel mondo dell’arte?
Non ci sono strategie, tranne quelle che vengono col senno di poi. Logica retrospettiva. Metodo che si rivela dopo che hai accettato dei libri che magari ti avevano attirato solo per via del titolo. O l’istinto che ti insegna a leggere la scheda di 150 parole dell’editore francese, tedesco o italiano mentre prendi alla svelta una decisione. Pensando sì, questo può andare. Forse. O forse ti fidavi di un crescente numero di traduttori con interessanti desiderata. E certo anche di editori che ti portavano d’istinto le loro offerte.
Pubblichiamo quello che vogliamo pubblicare. Quello che vogliamo pubblicare è quello che ha significato per noi. Spesso questo sembra fuori tempo rispetto alle tendenze che vediamo intorno a noi. Le nostre scelte hanno a che vedere da una parte soprattutto con la libertà. E d’altra parte, con la condizione umana. È giusto prendere in considerazione tutto ciò che si trova sotto questo segno. Attraverso le culture. Attraverso i linguaggi. I confini. Le ideologie. L’autore sconosciuto avrà tanto spazio sullo scaffale quanto quello affermato. Ci consideriamo parte di una comunità mondiale. Quindi condividiamo apertamente idee pensieri risorse con altri editori. Princìpi questi che rispettano traduttori e autori con pari cortesia.
La nostra è una pratica che resterà sempre vulnerabile. La nostra apertura alle idee ci rende ricettivi a tutto ciò che è nuovo e inesplorato. Specialmente in questi tempi in cui la cultura viene lentamente ma inesorabilmente insidiata da forze tutt’altro che benigne. Io mi sento osservato come non mai. E mi spaventa pensare che una tecnologia che non capisco mi spia e nel contempo mi diverte. Sedotto e sorvegliato. Questo “Loro” che pervade interamente le nostre vite. Questo “Loro” come Stato. Come stato mentale. Come potente presenza che la spunterà. “Loro” come le Società di Capitali. “Loro” come i giornali. Come la televisione. Come teatro e cinema. “Loro” come Media con la M maiuscola. “Loro” come potere che non conosce limiti. “Loro” senza coscienza. Già. È come ascoltare una musica ipnotica e nel contempo maligna. Attraente. Che rifiuta di lasciar libera la mia attenzione.
Ascolto i canti ma non capisco le parole.
Lo spazio per i nostri canti non è libero come un tempo.
Domanda a me stesso: Quali erano i principi base che non hai compromesso?
Restare onesto. Eticamente in armonia con me stesso. Continuare a lavorare e restare con l’arte. Non cadere nella trappola di creare solo commercio, ma fare anche commercio. Divergere dalla tendenza dominante: non per arroganza, ma per non fare il già fatto. Alzare la posta, sempre, che sia per scelta o per ventura. Quella parola: ventura. Restare aperto all’accidentale, al caso, al fato, alla buona vecchia fortuna. Tenere un posto a tavola per l’ospite inatteso ma sempre benvenuto. Essere indipendente, nel pensiero e nell’agire. Dar coraggio agli altri perché facciano lo stesso. Praticare quello che predico. Fatti e non solo parole. Riconoscere e premiare l’iniziativa con libertà e responsabilità. Non farmi sviare dai riconoscimenti. Persistere persistere persistere, specialmente nei giorni più bui. Essere creativo con qualsiasi risorsa disponibile. Riconoscere che ci sono sempre risorse disponibili: menti idee contatti persone fondi.
Il principio al cuore di tutto è questo: che il personale e il politico sono la stessa cosa. Tutto il nostro lavoro deve scaturire da questo. E dobbiamo lottare a ogni costo per l’indipendenza, che sia di espressione artistica, di pensiero letterario o di modi di guadagnarsi la vita.
Non lo ripeterò mai abbastanza: non si tratta di quanto si è grandi. Della scala su cui si lavora. Si tratta di scegliere ciò che permette il rischio di uscire dalle strutture messe in piedi con tanta “magnificenza” dal mondo delle società di capitali editoriali. Di pubblicare libri che riteniamo debbano esistere. Di trovare i lettori che devono esserci.
La “fascia di pubblico da raggiungere” è un’irrealtà. Nessuno può sapere per certo che cosa leggeranno le persone. È sempre dopo questo “accadimento” dell’acquisto e della lettura di un libro che lo si capisce. Non prima. E spesso la saggezza aziendale può farci scivolare dentro quella che potremmo benevolmente chiamare la tendenza dominante. Quello che altri hanno fatto prima di te. Con apparente successo. Successo che replicano, libro dopo libro. A piacimento. Con le cifre che cantano. Le formule consuete del successo. Se fai così e così e poi così, ecco il bestseller. Quindi fai così. Moltiplica i profitti. Perfettamente accettabile.
Spesso è la saggezza stessa che ti strizza l’occhio e chiede: «E se mi gettassi via e lasciassi prevalere l’istinto?» Quello che ti senti nelle ossa. Lascia che salga e ti avvolga. Fa’ quello che vuoi fare. Non si tratta di fare la cosa giusta. O, all’opposto, quella sbagliata. Solo quella che va fatta. Perché. Ecco, perché qualcuno l’ha da fare, e tanto vale che quel qualcuno sia tu. L’editore indipendente.
Seagull vive di relazioni. Con gli autori. Con gli altri editori e con l’intera comunità di lettori produttori venditori di libri. Con culture separate da distanze grandi in media come un oceano. Con lettori altrettanto distanti tra loro. E invisibili. Finché decidono di mostrarsi. Ma per farli apparire, devi fare libri con cui possano sentirsi in dialogo. Libri che hai nutrito fino a renderli tangibili. Libri su cui hai scommesso la vita. Non una volta. Ma ogni volta che pubblichi. Avete presente quando arrampicandosi su un albero ci si sporge su un ramo senza sapere se terrà? Ecco, se si vuole essere indipendenti, meglio abituarsi a camminare su quel ramo.
D: Come definiresti uno scritto onesto?
Onesto è uno scritto che ha una magia retrospettiva. Che viene da un’intuizione nata al momento dello scrivere. Che gioca a nascondino con il fondamento logico e con i suoi detriti. Una pratica che è riconoscimento della paura dell’ignoto che ci si apre man mano davanti, una parola dopo l’altra, e inizia a risvegliare i sensi mentre si scrive. La musa si attiva solo quando ci si permette di scrivere con una benda sugli occhi ben chiusi e con le mani legate dietro la schiena così da non poter sciogliere il nodo né per impulso né per l’intento deliberato di ingannare lei. La musa serve ed è servita al meglio quando rimane invisibile e senza volto.
L’onestà implica un essere vulnerabili. Queste parole che vado intrecciando saranno capite, saranno in risonanza con il lettore? Non importa quanto sia aspra la verità. Per funzionare, la scrittura deve eludere le difese del lettore. La sua corazza di risposte ben collaudate. Il vostro essere vulnerabile reso visibile dal loro leggere.
12 aprile 2020
In un pomeriggio leggo un libro intero. Sento che l’autore mi persuade a entrare nella vita dei personaggi. È buona letteratura. Mi attira a sé. Ma una parte di me diffida. Riconosco la trappola. E il fascino delle parole. Mi arrendo a loro come un lettore consenziente. Voglio che le parole funzionino. E le parole a loro volta cercano il più possibile di funzionare. Ma sotto sotto si sente un’assenza di verità. Si può imparare a scrivere bene quando si ha qualcosa da dire. Ma chi scrive deve lottare per riuscire a creare quello che dice e come lo dice senza ricorrere a deliberato artificio. Non credo che questo si possa fare se non partendo dall’intuito.
Domanda a me stesso: Come si fa di questi tempi a essere un buon umano?
Tempi bui. Ma questo già lo sapete. Quel che importa è insegnare ai nostri giovani. La possibilità della resistenza. Il bisogno costante di rimanere vigili consapevoli attivi interessati. L’attività che traduce l’impulso creativo in attivismo. Traduzione come bisogno. Scri-vivere. De-scrivere il male e l’ingiustizia che restano nascosti in mezzo a una quotidianità così scontata da diventare modus vivendi: “è così, è sempre stato e sarà sempre così, nulla da fare”. Quindi: tradurre queste storie nell’esistenza. Traduzione come maieutica? Forse.
Metti in crisi il linguaggio che hai coltivato con tanta cura. Rivisita il significato di parole che hai assorbito fin dall’infanzia come verità universali. Considera l’atto del tradurre come impulso, motivazione, come il “dire” quello che altrimenti resterebbe “non detto”. Quindi: alzare la voce e parlare del proibito? Forse. Rompi le strutture che regolano l’atto del tradurre da un linguaggio all’altro. TraduAzione. Attivismo. Mestiere che si fa passione. Quel che importa è sovvertire lo status quo. Traduzione come sovversione. Traduzione come atto letterario. Come atto politico. Traduzione come cinema. Traduzione come teatro.
Resistenza come modo. Di vita. Modi anche di vivere una vita che non sia priva di speranza. E quindi, una vita. Di Speranza. Una vita che suggerisce la possibilità del bene.
Come ogni altra cosa, “il bene” è una pratica. C’è da imparare come si fa. Studiare le variazioni. Praticare. Ora dopo ora. Per giorni interi. Per una vita. Traduzione come Resistenza.
Gli editori resistono. Punto e basta.
Tempi di rabbia, i nostri. Tempi che tendono a spingerci sull’orlo dell’ira. Una piccola provocazione. Un colpetto nella direzione sbagliata. Basta a farti cadere in un momento di rabbia imperdonabile. L’abisso che non offre ritorno. Ci si insegna a credere che sentire una rabbia disperata non sia una soluzione. Eppure quante volte ogni giorno oscilliamo sull’orlo? Come angeli che lottano prima della caduta. Ali legate. Mani e piedi legati insieme. Spaventati dall’ignoto. La caduta oltre l’orlo è il tuffo nel limbo.
Cadere Cadere Cadere
15 dicembre 2021
Proprio mentre iniziava a cadere la prima neve.
Mi guardai alle spalle per vedere le orme che avevo lasciato. Che mi seguivano. Come ombre che si rifiutano di lasciarti. Che cambiano forma. E misura. Muovendosi a ritroso. Facendosi più lunghe o più corte. Spesso scomparendo completamente. Poi riapparendo. Attaccandosi alle mie braccia ai piedi alle spalle e spesso tendendosi verso il volto o la nuca. Schivando. Saltando. Saltellando. Restando basse e poi scattando. Senza respiro. Guardo di nuovo e vedo i piccoli mulinelli di neve che stanno cancellando le orme lasciate. Dai miei passi in ritirata.
Senza lasciare traccia.
Come se nessuno avesse mai camminato da queste parti.
Tranne il vento d’inverno.
È Naveen Kishore, fondatore ed editore di Seagull Books, casa editrice indipendente nata a Calcutta nel 1982 e con sedi a Londra e New York, il vincitore della prima edizione del Premio Cesare De Michelis, riconoscimento riservato all’Editore che nel panorama internazionale ha saputo sviluppare progetti editoriali che si sono distinti per qualità, innovazione e capacità di promuovere e diffondere, attraverso i libri, le culture di tutto il mondo, con un percorso di ricerca nello spirito che ha animato il lavoro di Cesare De Michelis, fondatore di Marsilio, a cui il Premio è dedicato.
Ad assegnare il Premio, nato su iniziativa del Festival Internazionale di Letteratura Incroci di civiltà-Università Ca’ Foscari, di Fondazione di Venezia e di Marsilio Editori, è una Giuria presieduta da Teresa Cremisi e composta da Giuliano da Empoli, Flavio Gregori, Giuseppe Lupo, Giovanni Peresson, Stefano Salis, Giovanni Dell’Olivo e Francesca Varotto.
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