Stare bene è un lavoro. Fingere di stare bene è molto peggio. Truffare il mondo costa una fatica inaudita.

Nessuno meglio di Sylvia Plath sapeva che la perfezione era una maledizione. Eppure, non riusciva a smettere di essere perfetta.

Ted Hughes – il marito che non sopportava più il suo sorriso esagerato – le diceva che le si sarebbe pietrificato il viso, e che aveva già le zampe di gallina attorno agli occhi. E Sylvia? Continuava a cucinare bugie e sorrisi perché voleva risultare comunque impeccabile.

L’inganno

Ted Hughes era il suo grande amore. Insieme, si erano costruiti un inferno lastricato di case luminose, figli e feste di Natale con addobbi rosso sangue. Anche Sylvia si vestiva di rosso a Natale, mentre il resto dell’anno sceglieva principalmente abiti bianchi, di mussolina di cotone, e nastri azzurri di seta per i capelli. Era la messa in scena dell’inganno: se ci credono gli altri, poi ci credo anche io.

L’inganno per Sylvia Plath termina l’11 febbraio del 1963, all’alba. La poetessa si sveglia nella casa londinese in cui si è trasferita con i figli dopo la recente separazione da Hughes, prepara loro la colazione (pane, burro e due tazze di latte), spalanca la finestra della camera in cui dormono, sigilla col nastro isolante le fessure della porta della stanza, e poi infila la testa nel forno a gas della cucina.

In Lady Lazarus, la poesia che verrà pubblica postuma nel 1965, scrive: «Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa. Io lo faccio in modo eccezionale…Ammetterete che ho talento».

Per capire cosa si frantuma in lei, è uscito da poco Euforia. Un romanzo su Sylvia Plath, di Elin Cullhed, pubblicato da Mondadori, che racconta i 365 giorni precedenti a quella mattina di febbraio particolarmente fredda.

In una nota introduttiva al romanzo, l’autrice ci avverte che Euforia non dovrebbe essere letto come una biografia, perché «i personaggi del libro sono traslati a un livello di finzione e fantasia narrativa». Ma è nella finzione che ritroviamo la Sylvia Plath più vera, sempre in attesa della catastrofe perché: «Un momento ero in pace un altro ero felice, un terzo ero disperata un quarto piangevo, sudavo, avevo nostalgia, desideravo e speravo».

Euforia è anche un romanzo capace di raccontare tutte le donne del mondo. Nell’immaginare l’ultimo anno di vita della poetessa, Cullhed parla soprattutto di quanto possa essere crudele la maternità e la vita coniugale per ciascuna di noi. Come è stato per Plath, è stato del resto per l’autrice: giovane scrittrice, moglie di uno scrittore, i figli piccoli e la certezza che quei bambini fossero topi che le rosicchiavano tempo ed energie, mentre il marito faceva il marito. Più lei affogava, più lui stava bene e scriveva, muovendosi nella vita senza sapere cosa significa sentirti ombra.

«Non sono un’ombra, anche se un’ombra si diparte da me. Sono una moglie», scriveva a propria volta Plath, che ci provava davvero a essere la figlia, la moglie e poi la madre sfavillante, ingaggiando delle guerre feroci soprattutto contro sé stessa.

Materiale raccontabile

Quando i due si incontrano, nel 1956, Sylvia ha ventiquattro anni, una borsa di studio per Cambridge e delle ballerine rosse: appena entra in una stanza c’è sempre qualcuno che vuole fermarsi a parlare con lei, e baciarla. Poi, però, in quella stessa stanza, entra Ted Hughes, che molti anni dopo ricorderà così la prima volta che si sono visti: «Non ci eravamo abbracciati, ma saltati addosso». I baci diventano all’istante colluttazione, e il combattimento resterà la loro dichiarazione d’intenti.

Entrambi scrivono poesie, Sylvia è già stata pubblicata, Ted non ancora. Lui ha ventisei anni e «il suo nome», scriverà Plath, «significa dono di Dio, io non credevo in Dio, ma credevo in Ted». Si sposano dopo quattro mesi.

Euforia racconta quello che accade sei anni dopo il matrimonio, quando la loro storia sta per marcire, anche se in Sylvia tutto nasce. Hanno già una bambina, Frieda, di due anni, e un altro figlio in arrivo. Si sono appena trasferiti nel Devon, e ogni mattina si svegliano guardando letteralmente la morte.

La canonica presa in affitto affaccia su un piccolo cimitero, e mentre Sylvia apre le persiane salutando quei vicini addormentati che le stanno decisamente simpatici, fa più fatica con gli altri, quelli vivi, che deve frequentare per obbligo sociale.

Cullhed indaga i suoi pensieri: «Le persone non erano affatto come nel mio paese natale, dove a uno si potevano rivolgere le parole I love you soltanto per aver condiviso un pasto. I love you. Si donava un pezzetto del proprio cuore con facilità».

Nei luoghi da cui proviene Hughes non c’è posto per l’amore e si stringono i denti, perché, pensa Sylvia, «lì l’anima e l’estetica e il modo in cui si interagisce gli uni con gli altri non hanno importanza, nessuna raffinatezza, la gente è volgare e sboccata e che colpa ne ho se ero una persona che sapeva amare e sapeva essere bella e sono entrata nella sua Inghilterra, nella sua rozza eredità di carbone e vestiti sporchi».

La gravidanza non piace a Sylvia, la fa sentire «ammuffita e troppo lievitata». Più la pancia cresce, più è consapevole che la sua vita indietreggia mentre quella degli altri corre in avanti. Però le piace partorire, perché significa trovarsi al centro delle cose che accadono. Il bambino che nasce si chiama Nicholas, Ted guarda la moglie sfinita e le dice «poverina». Lei è contenta perché è «la sua poverina», finalmente lui si preoccupa per lei.

Ma subito dopo Ted può sparire nella sua mansarda a scrivere perché, in quanto uomo, è libero di fare ciò che vuole, mentre lei diventa proprietà di tutti, materiale raccontabile per il paese: «Io ero una donna, dovevo ballare e cucire e fare la maglia davanti a loro. Era me che volevano catturare». Così, Plath fa quello che il mondo si aspetta da lei: lascia perdere la scrittura, sta sveglia la notte per preparare torte, milioni di torte che poi congela, dice che si rallegra dei suoi lavori a maglia e dei successi di Ted.

Eppure, doveva essere lei la ragazza del futuro: La campana di vetro – il suo primo attesissimo romanzo – sta per essere pubblicato, ma adesso tutti vogliono le poesie del marito, e lei si ritrova retrocessa da promettente scrittrice a casalinga disperata.

Una coppia infernale

Ted continua a partire, Londra lo reclama e lei lo saluta con baci e saliva, vuole imprimergli il suo odore come scudo magico contro le altre, perché sa che ci sono. Poi si morde un polso dalla rabbia: «Avrei potuto sparare a un’anatra e lasciarla sventrata in giardino come monito, oppure a un bambino, perché no. Ted doveva capire cosa mi faceva quando mi lasciava sola in quel modo».

In Euforia non ci sono buoni e cattivi, perché ci troviamo davanti a una coppia infernale: Hughes tradisce e umilia, Plath è una vittima violenta e ossessiva, ciascuno apparecchia con cura la dannazione per l’altro. «In futuro la gente si ricorderà di me…Ted laverà le pagine del mio libro come io ho lavato la sua camicia sporca», profetizza Plath in Euforia.

Dopo che lui l’ha lasciata, Sylvia si sveglia alle 4.30 del mattino, per rubare il tempo prima che cominci l’accudimento dei figli. In una poesia scrive che dovrebbe pettinarsi i capelli seduta su uno scoglio in Cornovaglia, portare calzoni tigrati, avere un amante. Invece, quando i bambini si svegliano, prepara la colazione e poi passa l’aspirapolvere. Mentre pulisce, pensa a quanto sarebbe bello se riuscisse ad aspirare via dai suoi pensieri anche Ted, come fa con lo sporco: è certa che l’anima microscopica del marito entrerebbe nel sacchetto dell’elettrodomestico.

Goethe scriveva che dove c’è molta luce, l’ombra è più nera: la vita di Sylvia Plath è stata così, sovraesposta e piena di buio. Dopo il suicidio, in una lettera che Ted scriverà alla madre di lei – infinitamente amata e altrettanto odiata dalla figlia – racconterà di come erano entrambi ridotti a vivere praticando come unico stato mentale quello della follia.

Ho sempre provato per Ted Hughes fastidio misto a compassione. A tutti è capitato, almeno una volta, di essere il cattivo nella storia di un altro. Ma lui ha fatto strike: ci sono decine di libri in cui è ritratto come il sadico aguzzino, l’esecutore morale del suicidio di ben due compagne che hanno infilato la testa nel forno (la seconda, facendo fare la stessa fine anche alla figlia di 4 anni, avuta con lui). È un ben strano primato il suo.

Chi sopravvive

L’unica a resistere a tutto questo frantumarsi sarà Frieda, la bambina che nel romanzo di Cullhed Sylvia indica – insieme a Nicholas – come la prima delle sette ragioni per non morire, perché: «Il suo sorriso è come inciso dentro di lei. Forse è una difesa, una corazza contro l’oscurità che vede nei suoi genitori, che grazie a quel sorriso sentinella non penetra dentro di lei. Sopravvivrà a tutti noi».

Frieda è in effetti sopravvissuta. Ed è la sola. Suo fratello Nicholas si è suicidato a quarantasette anni, lo hanno trovato nella sua casa di Fairbanks, in Alaska, impiccato.

Frieda è diventata una scrittrice e illustratrice di letteratura per l’infanzia. Si è sempre opposta agli adattamenti romanzati della vita dei suoi genitori, rifiutando di collaborare e negando il permesso di utilizzare le loro poesie. Probabilmente non gradirà troppo neanche questo romanzo, che ha ottenuto il più importante e prestigioso riconoscimento letterario svedese, il Premio August.

Nei quadri di Frieda ci sono gufi, moltissimi gufi giganti. In una sua poesia, Plath scriveva che i gufi sanno esplorare il buio che abbiamo dentro. Forse, più li disegni grandi, più entrano dentro di te, e magari quel buio te lo tolgono.


Elin Cullhed è autrice del libro Euforia. Un romanzo su Sylvia Plath, da poco pubblicato per Mondadori

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