- Non era scrittrice di diari: «Ho un quadernetto per scrivere sciocchezze e no, regalato da Angelo» appunta il primo giorno. Fluidità, freschezza, telescopica capacità di cogliere rapidamente le più diverse tonalità di ciò che le accade.
- Figlia dell’attivista e sindacalista lombarda Maria Giudice e dell’avvocato socialista Giuseppe Sapienza, morto nel 1947 tra e braccia di una sua giovane amante in un hotel di Palermo
- Goliarda Sapienza è stata al centro di un mondo schiacciato dall’ideologia che lei ha contrastato e forse sconfitto con l’intelligenza dell’ironia, un fatalismo da mondo antico, uno sguardo indulgente e umanitario.
Difficile trovare un’immagine di Goliarda Sapienza in cui non stia sorridendo, soprattutto nella maturità e nella vecchiaia. In gioventù, quando era stata un’attrice di teatro e di cinema ci si imbatte soprattutto in ritratti posati, apollinei bianco e nero che colgono poco di questa donna eccezionale e misteriosa. Le foto della donna di cinquant’anni, di sessanta, e settanta, invece, sono un po’ come la sua scrittura, luminosa e aperta.
Chi ha letto L’arte della gioia, l’epopea di un personaggio femminile straordinario, Modesta, uno dei maggiori romanzi scritti in Italia nella seconda metà del Novecento – e che Goliarda Sapienza non vide mai pubblicato quando era in vita – sa di cosa sto parlando: una scrittura viscerale e accogliente, ma non per questo meno rifinita e stilisticamente orchestrata.
Ma non siamo qui per parlare del romanzo, bensì di un’altra scrittura di Goliarda Sapienza, quella più personale e intima, il diario, dove la scrittrice, a partire dalla metà degli anni Settanta, ha riversato la cronaca delle sue giornate e dei suoi pensieri. Già usciti in passato separati, i diari tornano ora da Einaudi riuniti in Scrittura dell’anima nuda. Taccuini 1976-1992 a cura di Gaia Rispoli, con due preziosi scritti di Angelo Pellegrino, attore siciliano dal volto notissimo (ha recitato in decine di film, da Bertolucci alla commedia all’italiana), scrittore e traduttore, marito della Sapienza che per primo le regalò un quadernetto. Dopo la morte nel 1996, è stato Pellegrino a battersi instancabilmente per la pubblicazione del romanzo uscito in Italia da Einaudi nel 2008.
«Scrivere sciocchezze»
Sapienza non era scrittrice di diari: in alcuni suoi libri degli anni Sessanta, come Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, aveva già narrato in parte la sua vita. Forse, dunque, la fluidità, la freschezza, la telescopica capacità di cogliere rapidamente le più diverse tonalità di ciò che le accade viene ai diari da un’occasionalità non voluta. «Ho un quadernetto per scrivere sciocchezze e no, regalato da Angelo» appunta il primo giorno.
Siamo nell’agosto 1976 e Goliarda Sapienza ha appena concluso di vergare le mille cartelle de L’arte della gioia. Il diario è una camera di decompressione per tornare alle realtà, per uscire dalla bolla della creazione. In quei mesi, avviene un’altra cosa che merita di essere registrata: il ritorno in Sicilia dopo tantissimi anni di assenza. Ma non torna nella sua Catania, torna invece a Palermo, che «languisce in una corolla di monti assetati».
Palermo dove suo padre, l’avvocato socialista Giuseppe Sapienza, nel 1947 era morto abbracciato a una giovane amante in una stanza del celebre hotel delle Palme. «Ritorno fisicamente a Palermo dopo ventidue anni» appunta Goliarda: «Nella lontananza, il pericolo di rivalutare mio padre si profilava. Non è vero che il tempo fa giustizia, al contrario il tempo mente». Ma su cosa mente?
Un’infanzia catanese
La vita di Goliarda Sapienza rischia sempre di scadere nella facile mitologia, e non solo perché era la figlia di questo «maschio sfrenato», battagliero antifascista, pensatore libertario, che un bel giorno aveva incocciato sulla sua strada un’altra figura ragguardevole, la sindacalista e giornalista lombarda Maria Giudice, che fu tra le prime attiviste a battersi per il lavoro femminile nell’industria tessile del pavese, venne arrestata varie volte, riparò in Svizzera dove conobbe Lenin e Mussolini (lo definì un vanesio).
Maria aveva già molti figli suoi quando si unì all’avvocato catanese, vedovo con due maschi e una femmina (e un altro maschio l’aveva perso, ragazzo, in uno strano annegamento mai chiarito, forse una ritorsione mafiosa). La loro figlia, nata nel 1924, ebbe il nome Goliarda proprio per via di quel figlio morto che si chiamava Goliardo.
Coi fratellastri strinse un rapporto intenso, più volte rievocato nei libri. Il vecchio quartiere di San Berillo il teatro di quell’infanzia un po’ selvaggia (cacciata da scuola perché figlia di noto avversario del regime). Bella di una bellezza stentorea da attrice di teatro pirandelliano (autore amatissimo), a diciassette anni la madre la porta in treno a Roma e la iscrive all’Accademia di arte drammatica Silvio D’Amico.
Durante la guerra è ricercata dalle SS insieme alla madre. Entra in azione nella resistenza cittadina collegandosi con il padre avvocato anche lui giunto a Roma clandestinamente: fu il padre tra coloro che tirarono fuori Sandro Pertini da Regina Coeli prima che fosse tardi. Pellegrino, nel suo bellissimo Ritratto di Goliarda Sapienza, racconta che Goliarda affrontava teatralmente i posti di blocco tedeschi per far passare carichi d’armi e un giorno uccise una SS per evitare un rastrellamento.
Dramma nel dramma: in quegli anni finali di guerra la madre si ammala e viene ricoverata in un istituto psichiatrico. Dopo la guerra la futura scrittrice lavorerà con Blasetti, con Visconti, poi sposa il regista comunista Citto Maselli a cui resterà legata da una grande e conflittuale amicizia. Lei era fondamentalmente anarchica e fu sempre allergica agli integralismi del partito, alle posizioni ufficiali, alle varie trasformazioni dei comunisti italiani. Divisa tra teatro e scrittura, a un certo punto sceglie la seconda.
A cinquant’anni conosce Angelo Pellegrino (che ne ha venti di meno) al quale resterà legata fino alla fine, mentre ama anche le donne, alcune molto intensamente ma «in modo sostanzialmente ideale e anche sororale» scrive Pellegrino.
C’è un fatto sul quale di solito si appoggia la leggenda maledetta di Goliarda Sapienza: il furto di alcuni gioielli a casa di un’amica pittrice nel 1979 (una vecchia amante, ci informa Domenico Scarpa nella postfazione all’edizione tascabile de L’arte della gioia), furto che la condusse per alcuni mesi in carcere, esperienza «voluta» forse come atto di ribellione e richiesta d’attenzione, dal quale nasce però uno dei suoi libri più belli, il reportage esistenziale L’università di Rebibbia, ritratto ineguagliato di una coralità femminile che cambia la sua vita.
La religione della «giornata»
Dicevamo, la leggenda: vita tormentata, segnata a un certo punto dai clamorosi rifiuti da parte di tutti gli editori italiani di pubblicare L’arte della gioia, che poi uscirà postumo in Francia, Germania, Spagna con grande successo. Nel taccuino però troviamo una verità diversa. Goliarda Sapienza professava una religione sua: quella della «giornata» intessuta di piccole cure: la cucina, il bar, la scrittura, il cinema, l’amicizia.
Anche il grande rifiuto del romanzo (un vero thriller editoriale che non è altro, in fondo, che una penosa storia di provincialismo e miopia culturale) è entrato nella vita della scrittrice come un male naturale, che la Sapienza assolve e non condanna. Questa è l’impressione maggiore che esce dai suoi diari, chiamiamola pure una lezione.
Il passare degli anni, anche i tormenti e l’assenza cronica di soldi, la scomparsa degli amici, il ritorno al teatro per sbarcare il lunario, la solitudine e l’amore per Gaeta, l’esperienza del carcere, che per lei, come quasi tutto ciò che le accade, è indagine nel passato: «So perché ho voluto tutto questo! Dovevo riaffrontare il mio inconscio che taceva, far rivivere emozioni, visi e altro della mia infanzia vera». Quel teatro catanese, popolare, colorato, dove forse tutto è stato vissuto e imparato una volta per sempre.
Goliarda Sapienza è stata al centro di un mondo schiacciato dall’ideologia che lei ha contrastato e forse sconfitto con l’intelligenza dell’ironia, un fatalismo da cultura antica, uno sguardo indulgente e umanitario. Questo non significa che non fosse tagliente, dura, arrabbiata. La penna era il suo strumento: Guttuso «grande cinico con radici ferree nel cinismo siciliano»; il poeta turco Hikmet, «eri un grande gigante Nazim, dagli occhi pervinca e la criniera bianco-rossiccia, ricca di curve d’acciaio»; Moravia, alla festa per i suoi settant’anni: «Aveva chiaramente paura, una paura stupita e dolce propria della sua età: non avrà mai un giorno di più dei quattordici che si tengono sempre»; Pietro Nenni, vecchio: «Di mia madre si ricordava più di quello che voleva ammettere, e lo capisco: non voleva parlare male alla figlia di quella che è stata la sua nemica»; «Vittorio De Sica mi disse: “Se non ti conquisti “il sentimentalismo”, cara Goliarda, puoi rischiare di desiderare di morire”».
Dietro al sorriso della scrittrice nei suoi tardi ritratti c’è la traduzione carnale di una leggenda tutta personale: l’arte della gioia è l’assoluzione laica della vita, quale che sia la ferita che ti ha inferto.
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