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Questo articolo fa parte di FINZIONI – il mensile culturale di Domani che puoi scaricare e leggere a questo link.
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Bruno, il ciclista sotto casa mia, era uno di quelli che le bici le riparava.
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Il negozietto del signor Bruno ospitava un allegro viavai di clienti, così cospicuo da risultare sorprendente in una città come la mia.
Sotto casa mia c’era un ciclista.
Col termine “ciclista” qui in Italia s’intende, il più delle volte, un individuo che va in bici. Ciclista è, però, anche chi le bici le ripara.
Si dice sempre ciclista.
Bruno, il ciclista sotto casa mia, era uno di quelli che le bici le riparava. Poi sicuramente le pedalava anche, ci mancherebbe altro. Forse è proprio per questo che i riparatori di bici tendono a essere chiamati ciclisti anch’essi come i pedalatori. Perché se le ripari, alla fine, gira che ti rigira, è molto probabile che poi un paio di corsette te le fai. Magari senza esagerare, ecco.
Il negozietto del signor Bruno ospitava un allegro viavai di clienti, così cospicuo da risultare sorprendente in una città come la mia. Roma non è Amsterdam, le biciclette sono poche, le piste ciclabili vengono scambiate per posti auto e i ciclisti (quelli pedalanti) vengono disprezzati dagli automobilisti che spesso li uccidono apposta.
Col termine “automobilista”, sempre qui in Italia, si intende solo chi guida una o più automobili. Diversa la prassi rispetto al termine “ciclista”.
Non viene chiamato “automobilista” colui che le automobili le ripara (meccanico) né tantomeno chi le vende (Mauro Veloccia, un tizio che vendeva auto). Eppure in auto ci andranno sicuramente. Vai a capire perché.
La clientela di Bruno era fatta di clienti abituali, occasionali e amici che andavano lì ogni tanto per scambiare un paio di chiacchiere col proprietario. Egli era un maschio bianco etero di settant’anni, testa spigolosa, ampia fronte, capelli grigi lunghi e radi, gli occhi erano due fessure, il volto pieno di rughe e forse anche il corpo, anche se delle rughe del corpo non si parla mai. Aveva sempre un’espressione seccata, come se stesse costantemente assistendo a qualcosa che non andava come avrebbe voluto. Sulle pareti del suo negozio c’erano vecchissimi poster del Giro d’Italia, una sua foto da giovane assieme al ciclista Alfredo Binda (autore dell’autobiografia di Alfredo Binda) e tantissime foto autografate da altrettante maglie rosa.
Bruno il ciclista, come molti suoi clienti abituali, era un romano antico. Semmai questo testo dovesse essere tradotto per il mercato anglofono, ci sarebbe bisogno di una spiegazione. Per gli inglesi l’aggettivo va sempre davanti al nome. Ma Bruno era un romano antico e non un antico romano.
Gli antichi romani erano Ottaviano, Caio Sempronio Gracco eccetera. I romani antichi invece sono i personaggi come Bruno. Signori over 70 nati a Roma (e romani da almeno tre generazioni) che non vedono l’ora di poterti bonariamente ricordare, con una scontatissima e non richiesta massima in dialetto capitolino, quanto loro ne sappiano più di te. Sempre.
Dieci anni fa scesi da Bruno per fargli controllare le gomme di una vecchia mountain bike. Ricordavo che al momento dell’acquisto mi avevano detto che per gonfiarla bisognava capovolgerla con le ruote verso l’alto. Forte di questa competenza acquisita anni prima, per fare buona figura con Bruno, esordii dicendo: «Allora per controllare le gomme bisogna che prima ribaltiamo la bicicletta, no?»
Pronunciai quelle parole con quella padronanza di chi vuole intendere: «Vai tranquillo, Bruno! Parlo la tua lingua! Sentiti pure a tuo agio!»
Ma l’uomo sbuffò sarcastico e minimizzò la mia iniziativa dicendo, col suo fare da romano antico: «Ma che te aribbarti? Nun c’è mica bisogno, nun c’è bisogno... Ce lo sai come se dice a Roma? Se dice: “Ma che stai a fà… ’A sbagarajàda?”»
Quando qualcuno dice «Ce lo sai come se dice a Roma?», il 99,9 per cento delle volte segue una frase che nessuno a Roma dice mai, assolutamente mai. Quella volta Bruno non rientrò nello 0,1 per cento: il termine che aveva usato a fine frase mi risultò del tutto incomprensibile. Non avevo idea di cosa volesse dire “sbagarajàda”, ma chiederglielo mi avrebbe messo nella posizione del giovane che si è perso gli anni belli di una Roma che non c’è più. Una Roma in cui dire termini come “sbagarajàda” era normalissimo.
Restai dubbioso, ma ero quasi certo che Bruno avesse voluto ostentare la classica saggezza popolare dei romani antichi. E per farlo aveva scelto di sfoderare una parola figlia dei tempi andati di questa bella città nostra. Ma, non disponendo d’un termine adatto alla situazione, se n’era inventato uno di sana pianta: “Sbagarajàda”.
Gonfiate le ruote della bici, lo ringraziai e insistetti per dargli almeno cinque euro per il disturbo.
Negli anni a seguire, con una cadenza piuttosto costante, continuai a chiedermi cosa cavolo avesse detto il ciclista quella volta. Avrei potuto googlarlo su Bing, ma la questione era che io non ricordavo proprio il termine.
Lo confesso, “sbagarajàda” me lo sono inventato adesso, solo per agevolarmi nel racconto. Il termine romano antico usato da Bruno era un altro, ugualmente dialettale, similmente sguaiato e identicamente ignoto.
Che mi aveva detto quella volta Bruno?
Com’è che si diceva a Roma quando ribaltavi una bici? Era un modo di dire attinente al mondo delle bici o relativo al concetto di ribaltare qualcosa?
Si sa, la curiosità è femmina e io non riuscivo a togliermi dalla testa questo dilemma. Decisi così, qualche tempo dopo (forse qualche anno dopo), di tornare da Bruno il ciclista sempre per lo stesso motivo, ma stavolta puramente pretestuoso: farmi gonfiare le ruote della bici. Come nel primo episodio, anche quella volta mi presentai chiedendo se ci fosse bisogno di ribaltare la bici. Bruno mi rispose semplicemente di no, che non c’era bisogno. Nessun riferimento a quella parola strana.
Mesi dopo, sempre più tormentato dal dubbio, feci la stessa cosa.
«Salve, sono qui per dare una gonfiatina alle ruote della bici; che faccio? La giro io stesso o fa lei?»
Bruno rispose con tono solenne: «Ma che bisogno c’è de giralla? Guarda che le ròte se gonfiano facili pure senza che ’a giri…»
Iniziò a pompare e io, disperatamente, cercai di dirottare la conversazione.
«Vero» ribattei, «ha proprio ragione, non serve a nulla ribaltare la bici. Com’è che se dice a Roma?»
«Che nun serve a ’n cazzo» rispose Bruno, mentre controllava la pressione della ruota davanti. «Ho quasi fatto, eh!»
«Grazie mille, davvero. Piuttosto, mi chiedevo... Che avrebbe detto il buon Trilussa di fronte alla mia sciocca richiesta? Come avrebbe risposto il Belli, Gioacchino e non Paolo, se si fosse trovato al suo posto? Eh?»
Avevo la fronte sudata, digrignavo i denti e avvertivo lievi crampi al muscolo sternocleidomastoideo. I miei tentativi di estorcergli quell’arcana espressione dialettale si stavano facendo sempre più scoperti.
«No, dico… Se fossimo stati nella Roma papalina, quella di Mastro Titta, di Rugantino e del Marchese del Grillo, mi corregga se sbaglio, di certo lei non avrebbe lasciato correre una leggerezza come la mia di poco fa, giusto?»
Bruno mi guardò interdetto e ignorò la mia domanda. Del resto, aveva finito di sistemare le ruote della mia mountain bike, niente più lo obbligava a darmi retta.
«Ecco qua» mi disse. «Te l’ho gonfiata, però occhio che ’ste rote so’ vecchie, ’e dovresti cambia’!»
«Grazie!!!» esclamai io. «Allora un giorno di questi vengo a comprare delle gomme nuove... Servirà ribaltare la bicicletta a quel punto? No?»
«Nun ho capito... perché?»
«Dicevo... Una volta prese le gomme nuove, ribalteremo la bici? No? Sarà utile prenderla, girarla e metterla con il sellino che tocca a terra e con le ruote verso il soffitto! O verso il cielo! La facciamo roteare? La ribaltiamo? La capovolgiamo? Com’è che se dice a Roma quanno che aribbarti quarcosa?»
In quel momento vidi far capolino dal retrobottega la signora Marianna, moglie di Bruno. Scura in volto e con fare severo si avvicinò verso di me. Mi squadrò con uno sguardo acre.
«Mio marito le ha gonfiato le ruote della bicicletta. Adesso vada via» mi attaccò, trattenendo a fatica le lacrime. «Ho capito di cosa è in cerca lei. È già venuto qui altre volte...»
Marianna cinse il marito indifeso in un abbraccio materno.
«Sono sette anni che Bruno soffre di una rarissima malattia che gli ha fatto dimenticare tutti i termini di una romanità arcaica e verace che non c’è più».
Guardai dapprima gli occhi lucidi della donna, poi tornai con lo sguardo su Bruno. Posai la solita banconota da cinque euro per il disturbo sul tavolo in rovere che usavano come cassa e mi incamminai umiliato verso l’uscita con la mia bicicletta. Un attimo prima di montare sul sellino, mi voltai.
«Signora» le chiesi a mezza voce, «posso chiederle che malattia ha suo marito?»
Nell’opprimente silenzio dell’officina, Marianna levò un dito al cielo e, con la voce spezzata, mi disse:
«I tempi moderni…»
da Era meglio il libro, Rizzoli Lizard
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