Nella mia memoria della prima volta rimane poco: un sacco nero. Ma torniamo indietro, di qualche mese. Io e mia sorella dormiamo nella stessa stanza. Abbiamo sempre dormito fino alla sua malattia. Due letti gemelli, circondati da muri coperti di cuori. Avevamo l’ardire di disegnare cuori, presto spudoratezza: su tavoli, ascensori, panchine, tronchi di alberi, noi incidevamo cuori. Sarebbe bastato seguire i cuori per trovarci, o per capire che eravamo passate di lì.

Fantasticavamo su una nostra possibile scomparsa – disperse, sequestrate. Finché non arrivò il giorno in cui lei sparì davvero.

Mia sorella è morta a quindici anni. Cosa si è persa?

Sicura che presto sarei morta anch’io, volevo vivere quello che non aveva vissuto lei. Avere più esperienze possibili, accumulare ricordi e poi, appagata, morire. Da qui la perdita della verginità in età precoce.

Precoce di sicuro per mia madre alla quale in un’esibizione di maturità un giorno dichiaro: ho scopato.

– Non sei come tua sorella, – dice. La santa. La morta.

Questa vitalità mi ha portata di letto in letto, di uomo in uomo. Se dovessi tracciare una linea. Se dovessi tracciare la linea della mia giovinezza sarebbe a zig-zag, una lunga piroetta dai quindici anni a oggi. Ho scopato. Di molti non ricordo neppure i nomi, di alcuni qualche frammento, un busto rachitico, un cazzo piccolo come nel caso del primo ragazzo (ma lo avrei capito in seguito, con la pratica).

Ho trattenuto in prevalenza dettagli di squallore. Elementi che proiettano un’immagine di disagio non solo per l’adolescenza, ma per la mia intera vita sessuale. La bruttezza intorno rispecchiava ciò che restava di me dopo la morte di mia sorella.

Il coniglio

Oltre al cazzo sottodimensionato del primo maschio ricordo la brandina su cui eravamo distesi, la chiazza di umido sul soffitto. Il sacco nero in un angolo. Salendo le scale, mi aveva spiegato che erano in fase di trasloco, purtroppo non potevano più permettersi quella casa, in centro, si sarebbero spostati sulla Tiburtina. Quindi mi aveva parlato del coniglio, la sorella aveva questo coniglio nano che lasciava libero per casa, come se fosse un gatto, lo trattava come un gatto, capisci? Insomma io non dovevo spaventarmi se mi ritrovavo la bestia tra i piedi. Per il futuro lui aveva sperato che, andando in una casa piccola, i genitori avrebbero costretto la sorella a dare via l’animale, invece no, la notizia era di ieri.

Concentrata sul peso che stavo per togliermi, gradino dopo gradino non ascoltavo. Il tempo di spogliarci, e sarei stata libera. Entro sera sarei diventata una ragazza matura, una che si era goduta la vita, quanta vita. Una ragazza pronta a morire.

Eccomi dunque nella stanza, sulla brandina. Ecco il tizio sopra di me. Questo ragazzo impetuoso, goffo, questo sedicenne inesperto. Ecco noi, nella reciproca imperizia e mancanza d’amore, noi, che dopo tanto insistere, ci incastriamo.

– Sentirai dolore, – avvisa lui. – Farà malissimo…

Molto male, eh?

Annuisco.

In verità non sento niente, se non pizzicorio, solletico, leggero fastidio, sensazione di qualcosa che punge, puntura di insetto.

Lui spinge, respira, geme, grava su di me – quanto pesa, è del resto questo il prezzo dell’emancipazione. Mi emancipo, vivo, vivo (la sera, a casa, disegnerò sul diario un piccolo cazzo, cosa che mi ritroverò spesso a fare, sui tavoli, sui muri, se mai un giorno dovessi sparire, seguite la scia di cazzi). È allora che il mio sguardo si ferma sul sacco.

Tutta la mia attenzione si concentra sul sacco nero che a un certo punto, col tizio che continua ad agitarsi, si muove. Il contenuto vibra, o così mi pare. Là dentro c’è qualcosa di vivo. Qualcosa di piccolo, piccolissimo, giace seppellito sul fondo del sacco, e nottetempo nel buio – della notte, della coscienza, dell’infanzia, del lutto – sarà portato via e abbandonato lungo una strada, in una discarica,

in un luogo remoto e freddissimo.

E no, non posso permetterlo – il mio unico pensiero nella fase finale dell’amplesso non reciproco – io devo salvare il coniglio, perché è il coniglio, ne sono certa. Me lo immagino bianco.

Così, appena il ragazzo si stacca da me, mi rivesto, prendo il sacco. Mi precipito giù per le scale, esco in strada. Qualunque cosa tu sia, chiunque tu sia nell’abisso di questo sacco, sei salvo.

Fine della mia prima volta.

Autodeterminazione

Ogni esperienza è sopravvalutata quando allude ad altro e nel mio caso ogni esperienza sessuale ha sempre significato altro, insieme a tutta la mia giovinezza.

Viceversa eventi inaspettati hanno contribuito alla mia formazione di donna, quelli vissuti per ciò che erano davvero, e non in luogo di gesti lasciati in sospeso da terzi e portati a compimento da me – quante volte abbracciando mia madre ho pensato che fosse anche da parte di mia sorella? E la laurea? Non ho forse creduto che valesse per due? La mia adolescenza è stata un susseguirsi di azioni di gruppo.

Fino a quando non ho deciso di liberarmi delle ombre, e allora, solo allora, il vissuto è stato significativo. Esplode il desiderio di autodeterminazione, insieme al bisogno di dare avvio a una sequenza di atti per cui gli altri possano dire: è stata lei.

Da qui comincio a essere me. La linea a zig-zag si raddrizza, divento donna. Non la prima volta di sesso, ma questa.

Estate, casa della mia amica Giulia. Predisposizione della scena migliore: tra cuscini a forma di cuore, con indosso una camicia da notte bianca che faccia pensare a un abito da sposa – oggi muore la sposa bambina. Stringo a me la sorella di Giulia attirata nella mia stanza: ti regalo un pupazzo.

Stringo a me la bambina di sei anni, sebbene lei si divincoli, e non ne voglia sapere di stare ferma.

– Ora dormiamo, – dico. – Non piangere, – dico a lei che non sta piangendo. – Chiudi gli occhi, così.

E insieme cadremo nel sonno. Cadiamo. Solo che lei si risveglierà, e io no. Perché, intrufolatami nel bagno padronale, ho cercato e trovato l’armadietto dei medicinali. E inginocchiata, disperata, me stessa, finalmente me, ho mandato giù una pasticca dietro l’altra. Ecco cosa succederà stanotte. Io morirò, con questa bambina a farmi compagnia.

La prima volta che tento il suicidio. (Rivalutiamo i tentati suicidi, non archiviamoli come atti di esibizionismo, modi per attirare l’attenzione, perché se davvero voleva morire. Contiamoli, mettiamoli in ordine: tutti insieme non fanno forse una morte?)

Il mio primo tentato suicidio a cui seguiranno altri. Poi sfondano la porta, trascinano via la bambina, chiamano i miei perché vengano a riprendermi – nel frattempo non muoio (nonostante nella memoria le pasticche siano state decine, interi flaconi, dovevano essere meno, cinque, sei aspirine?)

Tutti mi guardano con sospetto, pensando che abbia fatto qualcosa alla bambina quando non le ho fatto niente, mai avrei potuto. Giuro sulla testa di mia sorella.

Eppure con gli anni, il sesso, gli uomini, i lutti, in tutta coscienza – invenzione o realtà: a quante bambine ho fatto del male? Bambine nei letti, conigli nei sacchi. Bambine, conigli.

Seguite la scia di cazzi per arrivare a me.


Il racconto è un estratto da Aragoste, champagne, pic nic e altre cose sopravvalutate, a cura di Arnaldo Greco (Einaudi Stile libero 2023, pp. 176, euro 15). 

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