Il museo delle Belle Arti di Budapest ospita prima degli Usa un’esposizione dedicata ai mostri sacri del fotogiornalismo. Sono tutti accomunati dal destino di espatriati in fuga dalle persecuzioni. «La macchina è lo strumento dei vagabondi»
C’è un elemento “leggermente fuori fuoco” nell’Ungheria del premier sovranista Viktor Orbán, che non da oggi fortifica le frontiere e respinge i migranti, rifiutando inoltre le quote obbligatorie per l’accoglienza formulate dall’Unione europea di cui pure è presidente di turno nel semestre in corso.
Slightly Out of Focus è il titolo dell’autobiografia di Robert Capa - all’anagrafe Endre o André Friedman, il grande fotografo nato a Budapest nel 1913 e naturalizzato americano -, pubblicata a New York nel 1947 e tradotta in Italia per i tipi di Contrasto. La “sfocatura” ha una sua involontaria evidenza nel Museo delle Belle Arti che si affaccia sull’immensa Piazza degli Eroi della capitale ungherese. Vediamo perché.
Siamo nel luogo simbolo concepito nel 1886 per celebrare i mille anni di storia magiara da re Stefano fino alle soglie del Novecento quando la piazza avrebbe incorniciato le pompose sfilate prima del regno fascista e quindi del regime comunista. Poco lontano, dove sorgeva la statua di Stalin abbattuta dai manifestanti nell’autunno 1956, oggi c’è il monumento all’insurrezione antisovietica repressa nel sangue dai carri armati di Mosca.
Nel Museo fino al 25 agosto è allestita la mostra Kertész, Moholy-Nagy, Capa… Hungarian Photographers in America (1914-1989), curata da Peter Baki, Robert Gurbo e Alex Nyerges, in collaborazione con il Virginia Museum of Fine Arts di Richmond che a sua volta la ospiterà dal 5 ottobre.
Ad aprire il percorso espositivo è giusto una citazione di Robert Capa: «Qual è il segreto per diventare un grande fotografo? Non basta avere talento, bisogna anche essere ungheresi». Legittimo orgoglio patriottico per il Paese che ha dato i natali ad alcuni dei più importanti autori del XX secolo, intrecciando le loro storie di testimoni del tempo con le avanguardie artistiche e linguaggi diversi, dal design della Bauhaus berlinese al cinema hollywoodiano.
Gli esuli del fotogiornalismo
Il primato fa il paio con l’invenzione del fotogiornalismo che dobbiamo al trittico di grandi che dà il titolo alla mostra, ma anche a numerosi altri che vi ritroviamo allineati. Basti pensare a Martin Munkácsi la cui istantanea dei tre ragazzi che corrono tra le onde del Lago Tanganica (1931) folgorò il giovane Henri Cartier-Bresson durante un viaggio in Africa e ne segnò il destino: «È stata quella foto a dar fuoco alle polveri, a farmi venir voglia di guardare la realtà attraverso l'obiettivo».
Oppure guardiamo le immagini di André de Dienes, tra i primi a scattare una serie di pose dell’aspirante modella Norma Jean Baker, la futura Marilyn Monroe, che gli apparve «nelle sembianze di un angelo», pagata duecento dollari a seduta fotografica.
Ecco, costoro sono parimenti figli della diaspora. Qui è il punto “leggermente fuori fuoco”: sono tutti emigrati o esuli a Parigi, Berlino, Zurigo, e poi a New York, Chicago, Los Angeles. Ungheresi in fuga dal nazifascismo e dall’antisemitismo che incombevano sull’Europa come racconta l’immortale Casablanca (1942) del premio Oscar Michael Curtiz, alias Mihali Kertész Kaminer, anch’egli magiaro approdato nella Mecca del cinema come William Fox, Adolph Zukor, Peter Lorre...
Rispetto al totalitarismo di società autarchiche o chiuse, la fotografia è la più aperta delle arti, è per definizione una pratica en plen air e libertaria. «La macchina fotografica era uno strumento portatile dei vagabondi» teorizza lo storico Nissan N. Perez nel suo libro Displaced Visions: Emigré Photographers of the 20th Century. Secondo Arthur Koestler, lo scrittore britannico nato a Budapest di Buio a Mezzogiorno, l’eccellenza ungherese nella fotografia è dovuta invece alla «solitudine di una lingua indecifrabile», donde la necessità di esprimersi con il linguaggio universale delle immagini.
Fotografare da vicino
Lo stesso Robert Capa, ricorda Nyerges, affabulava le sue avventure in un bizzarro dialetto franco-anglo-ungherese, che gli amici avevano denominato ironicamente “Capanese”, e rivendicava la scelta di diventare un fotografo perché era la cosa più prossima al giornalismo senza la necessità di imparare bene un’altra lingua. «Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete andati abbastanza vicino», scrive Capa, entrato nella leggenda grazie al “miliziano colpito a morte” durante la guerra di Spagna nel 1936 (in mostra a Budapest), lo scatto più controverso dell’intera storia della fotografia: messa in scena o “colpo di fortuna”?
Lui racconterà di aver colto quel momento con la Leica tenuta sulla testa, senza inquadrare, nel fuoco nemico dei franchisti. Una vita di amori e di guerre,
Blood and Champagne , come s’intitola il libro che Alex Kershaw ha dedicato a Robert Capa, il quale muore in Indocina nel 1954 saltando su una mina.In queste settimane gli rende omaggio anche una retrospettiva nel Museo diocesano di Milano curata da Gabriel Bauret (fino al 13 ottobre), dove ritroviamo un’altra sua celebre fotografia. Troina o forse Sperlinga, in provincia di Enna, 4 o 5 agosto 1943: un soldato americano, un gigante yankee, si accovaccia per raccogliere le indicazioni di un siciliano che punta il bastone verso l’orizzonte, fuori campo. Il militare e lo straccione, due mondi.
Capa, partito dal Sudafrica, si era fatto paracadutare in Sicilia dove il 10 luglio sono sbarcati gli anglo-americani e viene raggiunto ad Agrigento dalla notizia dell’assunzione a Life, la popolare rivista illustrata cui sta inviando le istantanee belliche italiane (tra l’altro nella Valle dei Templi incontra un giovanissimo Andrea Camilleri ignaro di chi abbia di fronte).
Né si può dimenticare il ruolo del suo fratello minore, Cornell Capa (Kornel Friedman), che lavorerà a lungo per l’agenzia Magnum per poi fondare nel 1974 l’International Center of Photography di New York. Di Cornell Capa nell’esposizione di Budapest colpisce un’immagine della campagna elettorale di John Fitzgerald Kennedy nel 1960: una selva di braccia protese dal basso verso il sorridente JFK, un sentore di futuro fiducioso e mite. Uno scatto lontanissimo da quello divenuto subito iconico del premio Pulitzer Evan Vucci della Associated Press (a proposito, Joseph Pulitzer era ungherese!), che quest’estate ha riportato in auge il dibattito sul fotogiornalismo: la reazione a pugno chiuso di Donald Trump accanto alla bandiera a stelle e strisce poco dopo aver subito l’attentato in Pennsylvania. Già, «le immagini sono lì, basta catturarle» e non basta un telefonino.
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