Sulla copertina di Songs of a Lost World, il nuovo album dei Cure, c’è un’opera dell’artista sloveno Janez Pirnat. “Bagattelle” è una scultura in pietra che ritrae un volto misterioso e primitivo. Nell’artwork disegnato da Andy Vella per il disco dei Cure, il volto scolpito da Pirnat fluttua nella nera oscurità portando con sé qualcosa di arcano e affascinante. È una copertina perfetta per far sognare sulle note delle canzoni dei Cure.

Songs of a Lost World è il primo album dei Cure dopo 16 anni: il gruppo non pubblicava un disco da 4:13 Dream del 2008. Uscito il primo di novembre, nel giro di una settimana Songs of a Lost World ha già superato le 50.000 copie vendute ed è arrivato al primo posto nel Regno Unito. C’era grande attesa intorno a questo lavoro, e non solo da parte del nutrito sottobosco di fan dei Cure.

Il clima del disco

Il lancio dell’album è stato accompagnato da sessioni in studio per la BBC Radio e uno speciale concerto di tre ore al Troxy di Londra trasmesso in diretta streaming. I Cure hanno suonato per intero il nuovo album, e continuato il set con classici di repertorio: pezzi memorabili e difficili da dimenticare come Picture of You o Just Like Heaven. Il gruppo non si è risparmiato un intenso bis, ha suonato ancora brani storici, Lullaby e Boys Don’t Cry, per un totale di trentuno canzoni.

Robert Smith canta ancora con l’energia di un ragazzo, la sua voce non è stata scalfita dal tempo, i suoi capelli sono nuvole soffici, il trucco sul volto, la chitarra tra le mani, e una patina di tristezza che avvolge il palco mentre le canzoni scorrono come potenti elegie, le chitarre feriscono, i suoni incantano, e i Cure danno tutto quello che c’è da dare. Fermare il tempo è un piccolo miracolo e forse i Cure conoscono un antidoto.

Robert Smith oggi ha 65 anni, vive ritirato insieme alla moglie Mary Poole, la compagna di una vita incontrata alla scuola di teatro e con cui ha deciso di non avere figli. A Mary sono dedicati alcuni dei brani d’amore più diretti dei Cure. Lovesong è il regalo di nozze di Robert Smith, un anello che non si smarrisce nel bosco. Un regalo fuori dal comune.

In fondo, eccetto che per il cognome, il signor Smith non ha granché di comune o anonimo. Nel corso degli anni Smith è rimasto fedele a sé stesso, alla sua stravaganza, e al suono-mondo dei Cure. Gotico, romantico, post-punk, eccentrico e soffice. Una canzone dei Cure si riconosce in pochi secondi. E così succede anche con le nuove canzoni: si riconsegnano subito a quella generazione di suoni che è il mondo dei Cure.

I pezzi

La prima canzone del nuovo album, Alone, somiglia all’inizio di una discesa al collasso della civiltà, un lungo strumentale che pare non cominciare mai, e infine comincia. Smith canta come sulle ceneri di un’apocalisse. This is the end of every song that we sing, è una citazione del poeta inglese Ernest Dowson – perfetta e letale come introduzione a un album che vuole sprigionare solitudine, decadenza, nostalgia. L’album è anche una riflessione sulla mortalità dell’essere umano – non un disco sulla morte, ha precisato Smith.

Smith ha raccontato che il nuovo disco ha trovato la sua chiave e il momento di sblocco attraverso la canzone di apertura, Alone, e grazie alle parole tratte dalla poesia Dregs di Ernest Dowson.

Robert Smith è un onnivoro di versi e musica. Tra i suoi ispiratori nel corso dei decenni ci sono stati Nick Drake, Jimi Hendrix, Siouxsie, Sylvia Plath, Albert Camus, Penelope Farmer – cantautori, chitarristi, scrittrici e scrittori, hanno sfamato la curiosità del frontman dei Cure che con le sue canzoni è riuscito a ispirare una sottocultura dark da cui ancora oggi vengono fuori giovani band che si formano sotto l’ala protettrice di un suono dal fascino inesauribile e l’estetica scura.

Se Nick Drake ha ispirato in Robert Smith l’arte della scordatura di chitarra e il sussurro da cantautore in disparte, suonare con Siouxsie and the Banshees ha dato a Smith una chiarezza gotica, un ritorno alla folgorazione giovanile di letture come Charlotte Sometimes, che hanno aperto le porte al fantastico. Si è composto così un lungo notturno, un’agitazione che si è ficcata sottopelle sotto forma di suoni e tenebrosa malinconia.

Una zona di fedeltà

Songs of a Lost World scorre come un susseguirsi di canzoni rinvenute da un mondo forse un po’ perduto ma mai estinto. I Cure sono quelli che sanno ancora cantare versi così taglienti: «Every time you kiss me, I could cry». Non hanno paura di penetrare nella parte fragile dell’io, di mettere il cuore a nudo, di esporsi alle intemperie. A Fragile Thing replica una musica senza tempo.

In And Nothing Is Forever c’è un canto accasciato a un letto di morte per una promessa disperata, in Endsong un lungo strumentale e visionario viaggio epico ci accompagna a guardare la luna in una notte degli anni Settanta. Sono canzoni che stanno benissimo nel canzoniere dei Cure, un disco che scorre entro una zona di fedeltà da cui il gruppo non ha voluto allontanarsi.

I Cure hanno mantenuto un’integrità e una visione, sono tra gli outsider che non hanno perduto il gusto di andare controcorrente. Robert Smith promette di non alzare i prezzi dei biglietti dei concerti in controtendenza ai tempi, e non ha paura di parlare di truffa a proposito della pratica dei prezzi dinamici (che ha attanagliato anche la vendita dei biglietti per la reunion degli Oasis).

Dopotutto queste otto canzoni non assecondano affatto il ritmo veloce e isterico del nostro tempo: sono lunghe tracce fantasma dentro cui dondolarsi lentamente. Che grave atto di teppismo hanno fatto i Cure al nostro tempo. Canzoni da un altro mondo, per ogni generazione disintegrata.

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