The Substance costringe a riflettere sull’ossessione della perfezione del corpo da perseguire a ogni costo e ogni età. Un body horror che ha fatto scalpore a Cannes raccontando il tarlo che può trasformare ogni donna in nemica di sé
Si può scrivere la parola ‘”culo”? Sarà brutale ma gli eufemismi tradirebbero la sostanza di quanto segue. Il culo dunque, come sineddoche del corpo femminile, è - simbolicamente e di fatto - il centro di gravità permanente delle dominanti fantasie maschili sulla donna e degli standard ferocemente imposti dalla civiltà dell’immagine. Il teorema del culo sodo è anche la spia rossa dell’età-limite oltre la quale lo show business rottama le sue icone di bellezza.
Il lato B impera, in primissimi piani stretti, nel body horror estremo che ha fatto scalpore all’ultimo festival di Cannes, è stato premiato per la sceneggiatura ed esce in sala da noi il 30 ottobre con I Wonder Pictures. L’uscita sarà preceduta il 25 ottobre da anteprime speciali in sale selezionate. Qui il posteriore tonico però è una rappresentazione ossessiva rovesciata di segno: in chiave di empowerment femminile è l’emblema di una survoltata, visionaria, denuncia che sfrutta il genere gore fino allo spasimo.
In cartellone alla Festa del cinema di Roma, nella sezione Best of 2024, The Substance, secondo lungometraggio Usa della francese Coralie Fargeat dopo Revenge, è l’antitesi del feel good movie, ma non è scansabile. Costringe a riflettere sulla tossicità dell’eterna giovinezza da perseguire a ogni costo.
La spettacolarizzazione sessualizzata di questo diktat è un tarlo che può trasformare ogni donna nella peggiore nemica di sé stessa. Jekyll e Hyde, Frankenstein, Il ritratto di Dorian Gray, Eva contro Eva: c’è un ricco bagaglio di cinema e letteratura dietro The Substance, ma Fargeat lavora sui nuovi parametri di Instagram e TikTok.
Una intrepida Demi Moore e il suo “doppio” Margaret Qualley – ormai lanciatissima figlia di Andy McDowell – prestano carne, sangue e viscerale partecipazione alla vicenda. Al ripugnante sguardo maschile provvede Dennis Quaid, con una laidezza amplificata da un grandangolo deformante: uno dei tanti virtuosismi di regia del film.
La trama
Hai mai sognato una versione migliore di te? Tu, meglio, in ogni senso. Solo più giovane, più bella, una versione perfetta. Devi provare questo prodotto rivoluzionario. Si chiama The Substance. Ti cambia la vita.
Può resistere a questo richiamo Elisabeth Sparkle (Demi Moore), diva del fitness tv con tanto di stella sulla Walk of Fame, titolare di uno show da ascolti record, Sparkle your life? Al giro di boa dei cinquanta, il regalo di compleanno del suo Network è un cinico benservito. Che oltretutto scopre per caso, origliando una telefonata del produttore Dennis Quaid: «Trovami qualcosa di nuovo. We need her young, we need her hot, we need her now!». Un siluramento-lampo – perché «non siamo un ente di beneficenza» – perfidamente confermato nel pranzo d’addio dalle mandibole macinanti cibo del villain.
Per lo shock la sventurata Elisabeth ha un incidente d’auto, e all’uscita dall’ospedale si trova in tasca un misterioso messaggio pubblicitario che innesca la trappola. C’è un kit da ritirare, con un percorso fantascientifico. Contiene siringhe, fiale e tassative istruzioni per l’uso: devi alternare la vecchia e la nuova te stessa a cadenza settimanale, senza eccezioni. Perché «tu sei una sola, sei la matrice».
Iniettato in vena, l’elisir – basato sulla divisione cellulare, come suggerisce lo sdoppiamento di un tuorlo d’uovo, tra le tante metafore culinarie del film, che è sconsigliabile per stimolare l’appetito – dilania, letteralmente il corpo di Elisabeth. Dalla voragine che le squarcia la schiena spunta un viscido Alien: è Sue (Margaret Qualley), il suo alter ego fresco, giovane, tonico e appetitoso.
Considerando che la “matrice” è una Demi Moore tutt’altro che da buttar via anche in nudo integrale, la dissennatezza dell’addiction risulta particolarmente indigesta. I rumori, con la loro amplificazione da fumetto, sono più splatter delle immagini.
Rattoppato alla buona col filo grosso da tappezziere, il corpo di Elisabeth resterà sul pavimento del bagno, involucro senza vita alimentato via iniezioni genere epidurale. Non resta che celebrare il passaggio di testimone.
Nel casting per l’erede del zumba-show Sue sbaraglia la concorrenza a mani basse, in un diluvio di maschilismo tossico. Il bravo Quaid ignora perfino il nome della sua assistente personale: è solo una donna. E scatta l’apparato promozionale per quello che diventerà il Pump it up with Sue, coreografia aerobica di culetti freschi a favore di camera.
La vita spartita a settimane alterne funziona bene solo all’inizio. È troppo forte la tentazione del nuovo Io di pensionare senza appello l’Io in scadenza, anche se è quello che provvede a ritirare i ricambi del magico kit. È in agguato una deriva di vampirizzazione di sé, il parassita che divora l’insetto primario, un delirante omicidio-suicidio. Come il ritratto di Dorian Gray, il vecchio corpo decade, si piaga e si deforma, con effetto uguale e contrario, ad ogni istante rubato dalla precaria bellezza del parassita.
C’è una voglia livida che appare sul polso, a segnalare una setta in espansione e i suoi adepti, perché – inutile ricordarlo – è un contagio sociale. E dal posteriore statuario di Sue, in piena diretta tv, sbucano bozzi allarmanti. Forse è solo uno scherzo dell’immaginazione però, perché gli ascolti sono alle stelle e il boss – sempre lui, quello per cui «le belle ragazze devono sorridere sempre» – la promuove regina del prossimo show di Capodanno, 50 milioni di spettatori in diretta.
L’epilogo
Quello che suggerisce la regista, coi suoi colori saturi da chewing gum e i mirabolanti effetti prostetici di Pierre-Olivier Persin, è che possiamo fermarci, tornare indietro, restare noi stesse, rifiutando il ricatto massmediologico che ci assedia. Ma è l’opzione estrema che il "sistema” offre, una fiala significativamente chiamata Termination, e che Demi Moore rifiuta: «Perché odio me stessa: lei è l’unica parte piacevole di me». Inutile l’avvertenza-chiave: «Remember, you are one». In un delirio splatter di sangue e viscere in libera uscita, Sue compie lo strappo definitivo e sfracella i resti decrepiti del suo “doppio” nemico.
L’armageddon finale è un crescendo orrorifico e un trasparente ammonimento ideologico, perfino umoristico, se stai al gioco. Perché mentre squillano le fanfare del Capodanno sulle note di Così parlò Zarathustra dal tripudio di tulle della star prescelta cadono denti, unghie e orecchie sanguinolente.
È l’unità che si ricompone a casaccio, organi bocche e teste alla rinfusa in un agglomerato di carne e pelle, il Mostro Elisashue, una Elephant Woman all’ennesima potenza senza la tenerezza di Lynch. Nella loro grossolana misoginia, i selezionatori del casting avevano commentato le pecche di una candidata: «Peccato che non abbia le tette in faccia, al posto di quel naso». Era profetico. Ma tutta l’essenza del film è condensata nella sequenza iniziale, un corto-lampo di folgorante efficacia.
Sulla stella della Walk of Fame appena deposta e cementata passano il tempo, le stagioni, il fisiologico deterioramento e l’oblio di chi la calpesta insozzandola. La Fama è come la giovinezza, a rincorrerla non vale il prezzo che paghi.
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