- Tre minuti di filmato, girati il 4 agosto del 1938 in Polonia da una coppia di ebrei americani in visita nel loro paesino d’origine, sono al centro della pellicola della regista olandese Bianca Stigter Three minutes – A lenghtening
- Difficile da definire, più un esperimento di cinema della memoria che un documentario classico, Three minutes cerca di ricostruire l’identità delle persone immortalate nello shtetl di Nasielsk
- Con l’invasione nazista, l’anno dopo la visita dei Kurtz, duemila ebrei sarebbero stati deportati dalla cittadina nei campi di concentramento: solo cento di loro sono tornati a casa
Nel 1938 due coppie di marito e moglie, i Kurtz e i Molina, industriali tessili ebrei americani, emigrati a Brooklyn dalla Polonia nel 1890 per sfuggire ai ricorrenti pogrom, erano abbastanza “sistemati” da permettersi il Grand Tour allora di moda: il viaggio in Europa alla riscoperta delle proprie radici.
Nel loro caso, erano un puntino sulla carta geografica, uno dei tanti shtetl polacchi, 50 chilometri a nord di Varsavia, poche migliaia di abitanti: Nasielsk, dove gli ebrei si erano conquistati, fin dal 1700 una forma di autonomia amministrativa, una delle più belle sinagoghe della Polonia e una fama di artigiani, conciatori di pelle, commercianti e industriali tessili.
Pellicola ritrovata
David Kurtz, in vista del viaggio aveva comprato iPhone dell’epoca: una cinepresa amatoriale Brownie Kodak con pellicola a colori di 16 mm, con la quale documentarono, al ritorno, quello che a avevano visto a Parigi, ad Amsterdam, a Londra, a Vienna, a Berlino, sulle Alpi. In ultimo, ci sono tre minuti e 30 secondi girati a Nasielks; come si saprà molti decenni dopo, le riprese avvennero in una luminosa giornata di sole, il 4 agosto 1938.
Settanta anni dopo il loro nipote Glenn Kurtz, storico e scrittore, si prese la briga di guardare tra gli effetti personali dei nonni, nella loro casa di Palm Beach, in Florida. E trovò il film, in fondo a un baule, in un’ammaccata custodia di zinco: il caldo e l’umidità della Florida lo avevano reso una specie di massa gelatinosa, ma qualcosa poteva ancora essere recuperato. Così riemersero quei tre minuti e 30 secondi finali.
Momenti fatali
Immagini mute, naturalmente, se non per il ronzio del motore, ma così “fatali”, a rivederli adesso, se si pensa a quanti avvenimenti storici avvennero ai tempi di quel viaggio.
I Kurtz e i Molina fecero in tempo, prima di tornare in America, di venire a conoscenza della firma del trattato di Monaco, settembre 1938: Hitler era stato ammansito, non ci sarebbe stata guerra in Europa; e in particolare la Germania aveva giurato che non avrebbe invaso la Polonia; e invece, Hitler aveva già in mente la sorte dei tre milioni di ebrei polacchi, li avrebbe sterminati tutti.
L’8 novembre del 1938 ci fu la Notte dei cristalli, una specie di test per saggiare come il mondo avrebbe reagito, e anche quella, il “mondo libero” gliela la fece passare. Nell’agosto del 1939, avvenne il criminale accordo tra Hitler e Stalin: si sarebbero divisi la Polonia. L’1 settembre, forti di un milione e mezzo di soldati, i nazisti invasero dando origine alla seconda guerra mondiale. Il 4 settembre 1939 le truppe tedesche entrarono a Nasielsk ed entro dicembre 1939 la deportazione di duemila ebrei della cittadina era completata. Si pensa che solo cento siano sopravvissuti all’Olocausto.
Un film indefinibile
Three minutes – a lenghtening (Tre minuti – un allungamento) è uscito in questi giorni nei cinema di alcune città americane, preceduto da commenti entusiasti dei festival ai quali è stato segnalato, ma non si sa come definirlo: la versione più facile, sarebbe un “documentario sull’Olocausto”, uno “studio sulla vita quotidiana di un mondo scomparso”, ma ambedue le definizioni gli farebbero torto.
Three minutes è, davvero, difficile da definire, forse perché è uno dei primi esperimenti al cinema di poesia della memoria, il tentativo di far tornare in vita persone irrimediabilmente morte e dimenticate, forse perché cerca di rappacificare sommersi, salvati, indifferenti, distratti. Se fosse stato un documentario canonico avrebbe fornito notizie, contesti, testimonianze, scoperte, ma questo film non lo fa, anzi evita tutti questi ostacoli per alzarsi verso una forma di meditazione.
E come lo fa? “Allungando” quei tre minuti fino ai 77 minuti del film, costringendo gli spettatori a rivedere ingranditi volti sfocati, alberi di cui non si sa il nome, un’indecifrabile insegna di una drogheria, zoommando per otto minuti sul terriccio della piazza del mercato in cui avvenne la deportazione fino a farlo diventare un fluido scuro primordiale, il fango in cui immersi i deportati che entra dentro di noi.
Con gli zii d’America
Va bene, direte voi. Ma, in realtà, cosa si vede? Null’altro che una giornata allegra. Arrivano gli “zii d’America”, su una grossa berlina nera (forse una Buick), Kurtz gira e i Molina appaiono ridenti, soddisfatti, con dei begli abiti e bei cappelli mentre si recano in un ristorante. Bambini si affollano davanti alle finestre, che hanno tendaggi orientali.
Poi ci sono varie panoramiche, dove i protagonisti sono i bambini, decine e decine: si affollano davanti alla cinepresa, ridono, si spingono, fanno le boccacce, le madri li rincorrono, le bambine sono intraprendenti, cercano di mettersi in prima fila, resistono a chi le vuole mandare via; i bambini entrano e escono correndo dalla sinagoga, gli adulti li lasciano fare, è un giorno di festa. Tutti i bambini indossano un berretto, la maggior parte è quello reso famoso dal Monello di Charlie Chaplin, ma alcuni ne hanno uno di pelle nera, segno di distinzione economica; ma oggi è permesso mescolarsi.
Le donne indossano dei vestiti che si immaginano di seta o cotone, con file di grandi bottoni, anche perché a Nasielks c’era una grande fabbrica di bottoni, proprietà delle famiglie Mayer e Fillar, che riforniva le case di moda di Berlino ed esportava a New York. Alcune di loro, sul vestito hanno un fiocco, o un pizzo o una sottile cintura di colore rosso, per vezzo.
Compare l’insegna di una drogheria, ma non si riesce a capire a chi sia appartenuta. Su un battente del grande portone della sinagoga è scolpito in legno il leone della tribù di Giuda, a fare da guardia due religiosi con le lunghe barbe bianche. Compaiono due adulti, sembrano operai, forse della fabbrica dei bottoni; c’è un ragazzino, che sa di essere bello, con una camicia bianca con le maniche arrotolate sulle braccia; nessuno dei ragazzi, e neanche degli adulti, porta gli occhiali.
Passano due uccelli in volo; gli alberi, che a prima vista sembrano delle masse nere, dopo il restauro si scopre essere stati dei tigli. Ma la cosa che più colpisce è l’atmosfera di festa sulla faccia di tutti: è arrivato uno dei nostri dall’America! Andiamo a vederlo! Oggi la scuola finisce prima!
E dunque, il film si allunga, indugia, trattiene, scava («l’ho visto almeno cinquemila volte», ha detto la regista, «e ogni volta ho visto qualcosa di nuovo») limita al massimo le notizie. Lo spettatore sa che tutti questi ragazzi nel giro di un anno saranno portati alla morte, cerca nei loro sguardi se c’è qualche premonizione, qualche segno. Chissà, forse quel bambino che appare scoordinato nei gesti, forse è lui l’Eletto che ha visto tutto e che dà l’allarme, come nel film Train de vie. Forse è nel fatalismo dei guardiani della sinagoga, gli unici che hanno uno sguardo perplesso, come nelle oggi famose fotografie degli shtetl di Roman Vishniac, scattate negli anni Trenta e rimaste sconosciute fino agli anni Ottanta.
Cercare testimoni
Il film è unico, nella sua originalità e segnerà un discrimine nella concezione del documentario. L’ha voluto è diretto la regista olandese Bianca Stigter ed è coprodotto dal marito Steve McQueen, premio Oscar per la regia nel 2013 con 12 years slave. Praticamente tutte le regole del genere sono abbandonate: non ci sono interviste a storici o sopravvissuti, non ci sono immagini di Nasielsk oggi, non c’è retorica. Persino uno scoop è tenuto a bada.
Si tratta di questo: delle lunghissime ricerche di testimoni protagonisti di quel momento e di quel filmato, condotte con l’aiuto dell’Holocaust Museum di Washington, solo una ha avuto successo. Il signor Maurice Chandler, novantenne, tuttora vivente in Florida, si è riconosciuto in uno dei ragazzi che si affollano davanti alla cinepresa. Si è rivisto nelle guance paffute, tipiche della sua famiglia, ma soprattutto dal berretto nero con fregi in seta. È riuscito anche a fare il nome di cinque o sei suoi compagni di scuola, ma non più di questo.
Però, poi, raccontando della deportazione, ha lasciato cadere il ricordo di un episodio clamoroso. Gli ebrei erano imprigionati dentro la sinagoga, ma a Nasielsk sveva trovato rifugio presso gli ebrei un soldato “anti Hitler”, disertore. Il ragazzo Maurice andò a trovarlo e gli chiese se poteva liberare la sua fidanzatina. Quello gli disse che non poteva farlo, ma gli suggerì uno stratagemma. Gli avrebbe dato la sua uniforme e il suo berretto e, col favore delle tenebre, lui stesso si sarebbe presentato alla sinagoga esigendo la liberazione di Olga, per immediate esigenze di guerra. E così successe, Maurice se la portò via vestito da soldato tedesco. (Nel film tutto questo è condensato nella voce fuori campo di Maurice, per non più di venti secondi).
La regista non moraleggia, non prega, sceglie di non indagare sui confini tra il bene e il male. Preferisce parlare della forza delle immagini («una panoramica della Brownie Kodak vale cento racconti», diceva una pubblicità che sicuramente David Kurtz avrà visto, programmando le sue vacanze in Europa). E il suo omaggio ai ragazzi di quello sconosciuto shtetl risulta ingagantito dalla riproposizione ossessiva di quel 16 mm sfrangiato. Ha prolungato la loro vita, fino ad oggi.
Three minutes, a lenghtening, diretto da Bianca Stigter. Voce narrante Helena Bonham Carter, tratto dal libro Three minutes in Poland di Glenn Kurtz.
In attesa che il film arrivi nelle sale italiane o nei circuiti streaming, il filmato originale di David Krutz si può vedere sul sito dello United States Holocaust Memorial Museum.
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