L’Archivio e la Biblioteca apostolica rappresentano insieme ai musei il vero tesoro del Vaticano. Sono due istituzioni antichissime, che conservano documenti importanti per i ricercatori e un eterno fascino per i romanzieri
La crescita inarrestabile della documentazione archivistica e delle acquisizioni librarie sono tra le principali preoccupazioni che da decenni assillano i responsabili di archivi e biblioteche. Anche in Vaticano, tanto è vero che il 12 novembre un brevissimo documento pontificio ha ufficialmente disposto per la prima volta che parte dell’Archivio e della Biblioteca – che si affacciano sul cortile cinquecentesco del Belvedere – siano trasferiti fuori del minuscolo stato.
Futura destinazione di documenti e libri sarà la zona extraterritoriale lateranense, in parte dell’edificio del Seminario romano – diventato troppo grande per il rarefarsi delle vocazioni – e nelle sue adiacenze. Dove si dovrà scavare, resti archeologici permettendo. Un precedente in anni recenti c’è stato, con un parziale trasferimento non fortunato. Alcuni fondi librari della biblioteca poco utilizzati, trasferiti nei sotterranei di un edificio su via della Conciliazione, sono stati infatti danneggiati per un allagamento e hanno richiesto lunghi e impegnativi restauri.
In ogni caso la quasi totalità dei depositi resta in Vaticano, da secoli sede storica delle due istituzioni che ne rappresentano, con i musei, il tesoro culturale, tra i maggiori al mondo. I musei sono tra i più visitati – alcuni critici dicono sfruttati – e sono una buona fonte di reddito, mentre archivio e biblioteca sono frequentati da ricercatori soprattutto europei e americani. Di un improbabile «permesso di accesso illimitato» ai fondi vaticani aperti gode Cal Donovan, brillante docente di Harvard, e anzi l’archivio e la biblioteca di Oltretevere sono lo sfondo, ricostruito con cura, della trama del romanzo Il debito (Editrice Nord) di Glenn Cooper e di molti altri libri simili, compresi quelli di Dan Brown.
Una storia romanzesca
Del resto il fascino della biblioteca e degli archivi vaticani è più che fondato. Le due istituzioni hanno una storia lunghissima – e per l’appunto romanzesca – che inizia proprio in Laterano, in quello scrinium nominato dal chirografo del 12 novembre. Ma parziale sarà il ritorno di (relativamente poche) carte e libri nei pressi della cattedrale di Roma, che già verso la fine del medioevo aveva perso il confronto con il Vaticano e con San Pietro, innanzi tutto per la prevedibile preferenza riservata dai pellegrini alla basilica innalzata sulla tomba del primo degli apostoli.
Delle origini, che per le due istituzioni risalgono ai primi tempi della chiesa romana (almeno alla seconda metà del IV secolo, se non prima) si hanno poche notizie. Queste via via si fanno più frequenti e illuminano a tratti una storia per nulla tranquilla – trasferimenti, incendi, distruzioni – che, se mostra un certo collegamento tra archivi e biblioteca, li diversifica a partire dal medioevo.
La storia degli archivi vaticani vanta comunque la più antica e ininterrotta continuità di documentazione, a partire cioè dal pontificato di Innocenzo III, cioè dal 1198. Vi sono però lacune dovute alle perdite di documenti, come quelle causate dal trasferimento voluto da Napoleone, solo in parte compensate dai recuperi successivi alla sconfitta dell’imperatore.
Nasce invece nel 1612 con la denominazione di Archivio segreto vaticano (nel 2019 mutata in Archivio apostolico vaticano) l’istituzione moderna, che conserva molti milioni di carte disposte su scaffalature che danno le vertigini. Ben ottantacinque chilometri lineari sviluppano quelle sistemate in locali ricavati sotto il cortile della Pigna per volere di Paolo VI.
La biblioteca
Più antica formalmente è la biblioteca. Nel 1475 Sisto IV (il papa a cui si deve anche l’avvio della decorazione della cappella Sistina) dota di sede – in quattro aule del palazzo papale – e di rendite l’istituzione, in seguito denominata Biblioteca apostolica vaticana e preceduta nel corso di oltre un millennio da altre raccolte librarie papali. Il primo catalogo sopravvissuto è del 1295, sotto Bonifacio VIII. Un decennio più tardi il papato si trasferisce in Francia, sulle rive del Rodano, e del settantennio avignonese si conservano numerosi manoscritti, cataloghi e documenti.
Il vero fondatore della Vaticana è il più autentico dei papi umanisti, Niccolò V, che investe somme enormi per la ricerca, l’acquisto e la trascrizione di codici. Alla sua morte nel 1455 i manoscritti sono più che quadruplicati e la biblioteca papale è la maggiore in Europa. «Questo pazzo vedi in che egli ha consumato la roba della chiesa di Dio?» commenta il suo successore Callisto III, il primo dei papi Borgia, che dispone tuttavia di far catalogare l’ormai preziosa raccolta.
Nell’età moderna la crescita continua e la Vaticana si arricchisce di biblioteche importanti. Tra il 1622 e il 1689 sono acquisite la biblioteca Palatina di Heidelberg, le raccolte dei duchi d’Urbino e i codici della regina Cristina di Svezia, poi nei secoli successivi altri fondi importanti che fanno dell’attuale Biblioteca apostolica vaticana una delle più importanti raccolte di manoscritti del mondo. Sono oggi circa 80mila tra latini, greci, arabi, copti, siriaci, armeni, etiopici, cinesi, coreani, giapponesi. Gli incunaboli – cioè i libri impressi tipograficamente entro il 31 dicembre 1499 – sono 8400, un milione e mezzo gli altri stampati, 150mila le fotografie, altrettante le monete e medaglie.
Prima dell’elezione in conclave si diceva che il cardinale Ratzinger, prefetto dell’antico Sant’Uffizio, aspirasse dopo l’agognato ritiro – più volte richiesto a Giovanni Paolo II ma senza risultato – alla carica di «archivista e bibliotecario di santa romana chiesa» in modo da passare tra i libri gli ultimi anni di vita. Ormai papa da cinque anni, nel 2010 osservava come la Vaticana non sia «una biblioteca teologica o prevalentemente religiosa», perché è rimasta sempre «fedele alle sue origini umanistiche». Un titolo di merito, secondo Benedetto XVI, «per l’apertura all’umano» che «serve la cultura», senza bisogno di aggettivi.
I codici biblici e i testi classici
Già al tempo di Niccolò V figurano nelle raccolte papali alcuni dei manoscritti in assoluto più importanti. Tra questi spicca il manoscritto Vaticano che risale al IV secolo e contiene tutta la Bibbia greca. Conservato per oltre un millennio a Costantinopoli, è con buona probabilità uno dei cinquanta codici biblici che Costantino commissionò – facendosi ovviamente carico di tutte le spese di trascrizione e di trasporto – al più grande intellettuale e biblista del suo tempo, Eusebio di Cesarea, per le chiese della nuova capitale dell’impero.
Il manoscritto, noto come codice B e dove sono state riconosciute ben trentotto mani di copisti diversi, arrivò in occidente con la delegazione inviata dal patriarca di Costantinopoli al concilio di Firenze. Qui nel 1439 fu proclamata l’unione delle chiese greca e latina, ma questa ebbe una durata brevissima. Il codice rimase però in Italia e qualche anno dopo venne donato al papa.
Oltre che antico, il testo biblico di questo manoscritto è molto affidabile, vicino a quello di un papiro dei vangeli anteriore di un secolo e mezzo, siglato P75, scoperto nel 1952 e pubblicato nel 1961. A studiare la questione fu il giovane Carlo Maria Martini, che confermò la vicinanza testuale del codice B – nel 1965 riprodotto in facsimile per volontà di Paolo VI (e poi integralmente) – al papiro egiziano e dunque la stabilità del testo già alla metà del II secolo. Il futuro arcivescovo di Milano non poteva però sapere che l’inestimabile papiro sarebbe entrato in Vaticana, donato nel 2007 a Benedetto XVI da un mecenate statunitense, Franz Hanna III.
Tra i testi classici impressionante è la serie dei codici con le opere di Virgilio conservati nella biblioteca papale: sono ben quattro – il Romano, il Vaticano, l’Augusteo e il Palatino – dei cinque più antichi; trascritti in lettere capitali e magnificamente illustrati, risalgono al V secolo. Più antico è il palinsesto vaticano con parti perdute del De republica di Cicerone scoperto nel 1820, in un codice riutilizzato per copiarvi nel VII secolo testi di sant’Agostino, dal futuro Angelo Mai, per questo cantato come l’«italo ardito» da Leopardi, che aspirava a entrare in Vaticana ma non fu mai assunto.
Un furto misterioso riguardò invece un preziosissimo manoscritto del Canzoniere del Petrarca, in parte autografo. Rubato il 26 novembre 1965 (con un libro del Tasso anch’esso autografo), la sera successiva venne ritrovato in un prato sulla Cassia in una scatola di latta e già il giorno dopo fu restituito alla Vaticana che offrì una mancia generosa: un milione, corrispondenti a quasi 12mila euro.
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