- Sembra quasi un paradosso: la tragedia greca è un genere letterario tutto maschile – autori, pubblico, attori sono uomini – e tuttavia è capace di gettare uno sguardo profondo sull’universo femminile.
- La varietà delle figure femminili sta nel fatto che generalmente non possiedono uno statuto eroico; non devono quindi piegarsi alle leggi dell’onore e del coraggio. Ma coraggiose sono, eccome, a modo loro: in primo luogo hanno il coraggio delle passioni.
- Da Medea ad Antigone o Clitemnestra: se la tragedia è lo spazio in cui il conflitto è innescato dalla violazione di un limite, la donna ne è spesso il centro perché rappresenta il potenziale sovvertimento di un ordine.
Sembra quasi un paradosso: la tragedia greca è un genere letterario tutto maschile – autori, pubblico, attori sono uomini – e tuttavia è capace di gettare uno sguardo profondo sull’universo femminile. Potremmo dire che le eroine tragiche (dal punto di vista artistico, ma anche da quello antropologico) sono ai nostri occhi più interessanti degli eroi tragici.
Sono diverse, e si potrebbe dire più colorate, sorprendenti; il regno degli istinti, cioè quello che fa della tragedia il teatro delle passioni, è nella maggior parte dei casi una caratteristica delle eroine, più che degli eroi. Nelle Trachinie di Sofocle, la dolce Deianira, sposa molte volte tradita di Eracle, capisce di non essere più amata.
Un tempo Eracle ha ucciso per lei, ma poi si è fatto sempre più distaccato, seguendo il suo destino di eroe. La gloria è quello che interessa a Eracle, ed è lo scopo della vita di un eroe; alla sua donna tocca aspettare in disparte: «Tra un’impresa e l’altra veniva da me qualche giorno, come un contadino va nel suo campo lontano solo per seminare e per mietere». A Deianira la gloria di Eracle interessa poco, vuole lui.
E quando vede Eracle che dopo l’ultima lissima Iole, prigioniera di guerra, guarda se stessa e trova che gli anni l’hanno appassita: «La sua bellezza cresce, la mia invece sfiorisce». E allora tenta di riconquistarlo con una pozione magica, di cui impregna un mantello che gli fa offrire in dono.
Ma quello che ha riposto da tanti anni in uno scrigno non è un filtro d’amore, bensì un terribile veleno, tratto dal sangue del centauro Nesso, ucciso da Eracle per avere tentato di stuprare Deianira.
«Quando Eracle non ti amerà più, – le aveva detto il mostro morendo, trafitto da una freccia dell’eroe, – ungi col mio sangue una veste e offrila a Eracle, tornerà ad amarti».
Così un morto uccide i vivi: Eracle spira tra mille tormenti maledicendo la moglie, mentre Deianira, quando lo sa, si suicida disperata.
Possedute dalla follia
Per Eracle (quello delle Trachinie, almeno) la sua sposa è poco più che un accidente in una vita eroica, per lei invece lo sposo è stato il centro. Non si capiscono, non possono capirsi: appartengono a due universi differenti. Gelosia, inganno, conflitto, morte: un intrico di emozioni e tutte nel cuore di una donna.
La varietà delle figure femminili sta nel fatto che generalmente non possiedono uno statuto eroico; non devono quindi piegarsi alle leggi dell’onore e del coraggio. Ma coraggiose sono, eccome, a modo loro: in primo luogo hanno il coraggio delle passioni.
In generale le donne tragiche si collocano al di fuori dell’ordine della pólis (ad Atene, come sappiamo, non possiedono diritti politici) e talvolta addirittura lo sovvertono. Il caso estremo è quello delle Baccanti che lasciano le case, spinte dal loro Dioniso che le rende folli, e fondano una specie di anticittà sul monte Citerone: sono libere, danzano, allattano cuccioli di animali, celebrano riti sanguinosi.
Hanno abbandonato la città e i loro uomini e sono tornate indietro nell’evoluzione dell’umanità, tuffandosi nel grande abbraccio della natura. Qui l’antitesi antropologica è netta: la civiltà con le sue istituzioni è stata creata dagli uomini, le donne sono vicine alla natura e alle sue forze, sono capaci di liberarle appena abbandonano le regole e si lasciano possedere dalla follia.
Penteo, il re, non si capacita di questo: vede solo sovversione e immoralità, e questo lo porterà alla rovina.
Civilizzate o primitive
Accade talvolta anche che l’autore tragico dia chiaramente voce alla protesta delle donne verso una società che le opprime. «Tra tutti gli esseri che hanno cuore e ragione noi donne siamo le più sventurate, – dice Medea nella tragedia di Euripide. – Dobbiamo comprarci un padrone del nostro corpo (versando la dote) e in quel momento ci attende un grande rischio: sarà buono o cattivo? Non lo sappiamo. Separarsi è disonorevole; dobbiamo stare in casa, mentre lui può uscire e fare quello che vuole».
Ma Medea viene da un mondo straniero, le usanze del matrimonio greco non le conosce, e il suo uomo se l’è scelto lei. Lo scontro tragico tra uomini e donne va visto non solo come un dramma privato dei sentimenti, ma alla luce dei conflitti antropologici del sistema politico di Atene, che si riverbera nella tragedia: quello tra città e clan famigliare; quello tra cultura e natura; quello tra ragione e istinto.
La mite Alcesti, che, nell’omonima tragedia, muore in luogo del marito, rappresenta il lato che potremmo dire «civilizzato» della donna, vale a dire quello che la vede integrata all’interno del gruppo famigliare, come l’omerica Penelope nell’Odissea; molte altre, come Fedra o Medea, mostrano il versante opposto, quello «primitivo», in cui la donna esprime senza alcun freno la forza delle sue passioni, arrivando a uccidere e distruggere.
Distruggere
In generale si potrebbe dire che anche quando una donna vive all’interno della città, tende a sovvertirne gli orizzonti. Antigone nega leggi ingiuste, distaccandosi dalla sorella Ismene che obietta: «Siamo donne, deboli, che possiamo fare?». Clitemnestra assassina lo sposo, che è anche re, e lo fa col pugnale, faccia a faccia. Senza parlare delle Erinni che perseguitano Oreste e vogliono vendicare il sangue della madre assassinata dal figlio. Ci vorranno due dèi uniti per bloccarle!
Non accade del resto che nella mitologia greca i mostri siano al femminile? Arpie, Erinni, Gorgoni, e persino quei mostri seducenti che sono le sirene. La rovina di un uomo per mano femminile è uno dei temi fondamentali del dramma attico: lo si incontra all’incirca in una tragedia su tre.
Perché una donna può distruggere sia amando sia odiando; e il campionario dei modi con cui può annientare un uomo sulla scena è dunque assai vario. Alcune volte avviene a mano armata, ma comunque attraverso un inganno: nella trilogia delle Danaidi di Eschilo, di cui resta solo il primo dramma (le Supplici), 49 sorelle pugnalano i 49 cugini nella prima notte di un matrimonio a cui erano state costrette a forza; nell’Orestea di Eschilo Clitemnestra uccide prima il marito e poi perseguita in forma di fantasma il figlio Oreste (il quale, certo, qualcosa ha sulla coscienza, avendola uccisa per vendicare il padre).
Una madre fa a pezzi il figlio nelle Baccanti, mentre Ecuba, nella tragedia che porta il suo nome, strappa gli occhi all’infame Polimestore, che ha ucciso suo figlio Polidoro: è prigioniera, la stanno portando via da Troia, ma non è domata, come un animale ferito trova l’energia crudele di vendicarlo, e lo fa con l’astuzia, ingannando l’infame che ha tradito.
Altre ancora trascinano alla rovina con la calunnia, come fa Fedra con Ippolito.
Oltre i limiti
Quante volte un eroe tragico non comprende l’universo emotivo femminile e ciò lo conduce alla catastrofe? Accade a Creonte nell’Antigone, che non coglie l’oscuro istinto di morte dell’eroina, e il suo legame inscindibile con la propria famiglia; accade a Teseo nell’Ippolito, che non capisce le passioni della moglie Fedra, e la sua volontà di vendicarsi dell’uomo che l’ha respinta; persino il sapiente Minosse (nei frammentari Cretesi di Euripide) fa la parte di un ottuso burattino, davanti all’oscura energia sessuale di sua moglie Pasifae, che ha generato il Minotauro tradendolo con un animale.
Se la tragedia è lo spazio in cui il conflitto è innescato dalla violazione di un limite, la donna ne è spesso il centro perché rappresenta il potenziale sovvertimento di un ordine.
Un’altra antitesi fondamentale che separa uomini e donne è quella tra la sfera dell’«interno» e dell’«esterno». Nel dramma attico, come abbiamo già detto, non esistono scene d’interno: il solo luogo in cui il dráma può essere rappresentato è lo spazio pubblico, vale a dire quello regolato dalle leggi della comunità maschile.
Lo spazio della donna è invece il «dentro» (che per converso è un «fuori» nella prospettiva degli spettatori, dato che si trova oltre la portata della loro vista). Delitti e morti avvengono in casa, ossia nel luogo tendenzialmente occupato dalla donna: e la casa è anche lo spazio in cui, lontana dagli occhi di tutti, una donna può uccidersi, come un tempo aveva in casa partorito.
Così fanno Giocasta e Deianira, sopra il letto nuziale. La polarità interno/esterno è molto profonda nell’immaginario mitico relativo alla donna: il prototipo si può trovare nella Pandora delle Opere e i giorni di Esiodo: uno «splendido male», bella come una dea, fuori, ma con «cuore di cane e mente ingannatrice», dentro.
Un immaginario diverso
È del resto quasi sorprendente come la tragedia greca faccia del corpo femminile un tabù: delle eroine tragiche ben poco si dice, per quello che riguarda il «fuori», ben poco si parla della loro avvenenza.
Nelle Troiane compare la splendida Elena, nel pieno delle sue arti seduttive: ma del suo corpo, dei suoi occhi per cui si è combattuta una guerra, non si parla; tutto questo l’Elena delle Troiane lo tiene celato dentro esibendo fuori un altro aspetto di sé, la crudele astuzia seduttiva.
Pur essendo a volte assassine a mano armata, lo strumento per eccellenza con cui le eroine tragiche compiono il loro lavoro è l’inganno, la metis; e il mezzo che traduce l’inganno in delitto è il veleno. «Bisogna che tu, – dice il pedagogo a Creusa nello Ione euripideo esortandola al delitto, – compia un’azione tipicamente femminile: devi uccidere tuo marito o pugnalandolo o con qualche tranello o col veleno, e insieme a lui suo figlio».
La tragedia greca è fatta anche di uomini e donne che sono ugualmente vittime e colpevoli: ma spesso accade che a muovere i fili siano donne; donne che hanno sempre qualche cosa di speciale. Perché dunque, questo genere cosí maschile dà tanto rilievo all’universo femminile? È l’inevitabile domanda che ci si pone.
Nel mito epico, dove alcune donne occupano un ruolo centrale nel racconto – Elena e Penelope, appunto –, la loro voce è meno forte: al centro della scena sta comunque l’eroe. Il mito tragico invece dilata il loro ruolo. Forse perché i poeti tragici, come del resto i romanzieri dell’Ottocento europeo, si muovono all’esplorazione di un territorio ignoto, una terra misteriosa, dove le donne, con i loro istinti e le loro passioni non controllabili, costituiscono un orizzonte capace di offrire a un artista la possibilità di rinnovare il suo immaginario.
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