Nonostante il minor consumo medio, non c’è evidenza del fatto che tra i giovani siano cambiati gli atteggiamenti di binge drinking, cioè dell’assunzione di alcol in grandi quantità, del suo abuso. Un viaggio nella mixology anni Novanta che non esiste più
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
L'Angelo Azzurro è morto, viva l’Angelo Azzurro. Cocktail nato prima della mixology, oggi resta un lontano ricordo di notti magiche a ritmo di techno e shot fluorescenti. Un mix sgargiante di Gin, Triple Sec e Blu Curaçao che esemplificava i drink più gettonati dell’epoca: forti, variopinti, ma per nulla bilanciati. Basti pensare che due dei tre liquori al suo interno sono a base di arancia. Simbolo decadente di un’epoca lontana, ha lasciato dietro di sé una società diversa, molti dubbi e poche certezze. Una di queste è che i giovani di oggi bevono meno. O, per meglio dire, hanno cambiato il proprio stile di consumo dell’alcol.
La riduzione del consumo
Secondo lo studio di un consorzio guidato dall’università di Sheffield, Regno Unito, pubblicato ad aprile 2022, il consumo di alcol tra i giovani sta diminuendo nella maggior parte dei paesi ad alto reddito, che comprendono quasi tutti i paesi europei. Nel 2002 in Italia quasi il 40 per cento degli adolescenti dichiarava di assumere alcol almeno una volta a settimana. Già nel 2014 la percentuale non raggiungeva il 25 per cento.
«Se è vero che i giovani oggi bevono meno, è anche vero che non sono una categoria omogenea», precisa Francesca Setiffi, professoressa di Sociologia all’università di Padova e membro del consiglio scientifico Processi e Istituzioni Culturali (Pic). A essersi assottigliata è infatti la fascia di “consumatori medi”, coloro che assumono alcol non più di una o due volte a settimana e che ultimamente hanno rivolto la propria attenzione verso prodotti a bassa gradazione o alcol free.
Per capire le dinamiche di questo cambiamento è necessario fare riferimento alla distinzione antropologica che divideva l’Europa in due: da una parte, i paesi caratterizzati da una cultura cosiddetta “bagnata”, tipica della zona del Mediterraneo, in cui l’assunzione di alcol era totalmente normalizzata, con un consumo regolare e accettato in diverse occasioni sociali e celebrative, quindi con consumi medi maggiori ma riducendo la tendenza all’abuso.
Dall’altra, la cultura “asciutta”, diffusa perlopiù nelle aree nordeuropee, cioè una società in cui l’assunzione di alcolici non caratterizza le occasioni pubbliche, come pranzi e cene, e non ha un ruolo celebrativo, ma è relegata a contesti più “rarefatti”, personali, traducendosi più facilmente in abuso nonostante il minor consumo medio.
Proprio l’implosione di questa distinzione potrebbe aver influito sul cambiamento dei consumi tra i giovani. «La netta divisione tra cultura asciutta e cultura bagnata ha cessato di esistere almeno dieci anni fa e i fattori che l’hanno modificata sono molto legati ai giovani», spiega la professoressa Setiffi. Innanzitutto, l’industria pubblicitaria ha dato impulso all’omologazione dei consumi. Poi, la globalizzazione, che ha come conseguenza anche l’aumento del turismo giovanile, ha sgretolato le distanze geografiche e culturali.
«Le persone viaggiano di più, si informano in maniera diversificata e costituiscono nuovi stili del bere», continua Setiffi. La dicotomia tra cultura asciutta e cultura bagnata, dunque, è stata sostituita da una forma ibridata delle due, che porta tutti i giovani occidentali ad assumere stili di consumo simili.
Questione generazionale
Per di più, l’imposizione di un diverso modo di consumo, che si oppone a quello delle generazioni precedenti è un fenomeno che caratterizza i giovani di qualunque epoca. «Le modalità di consumo dell’alcol sono spesso un mezzo attraverso cui le nuove generazioni si differenziano rispetto alle precedenti», dice Setiffi, «nel passaggio intergenerazionale tutta la cultura cambia, quindi anche le pratiche di consumo che di questa cultura sono intrise». In questo processo il cibo e i social network hanno giocato un ruolo fondamentale. «La pandemia ha fatto esplodere ancora di più una mediatizzazione del cibo, una sua spettacolarizzazione iniziata già anni fa, con l’avvento dei cooking show», dice Setiffi. Questa “bulimia di contenuti”, il proverbiale “foodporn”, ha riguardato anche il mondo degli alcolici, che al cibo si accostano e talvolta si mescolano.
«C’è questa idea di consumo vicario: siamo esposti a una serie di immagini un po’ come la pornografia, ma non partecipiamo a ciò che succede in quelle immagini», spiega la professoressa. Lo conferma Luca Villanova, trainer Aibes e bar and event manager: «Quando le persone vengono bombardate da concetti e input si stancano e i contenuti perdono valore». Anche per questo motivo mentre pubblicità e contenuti online proponevano una mixology molto elaborata, di qualità, ma con prodotti dalla gradazione alcolica piuttosto alta, i ragazzi tendevano a cercare qualcosa di diverso.
A qualcuno piace no alcol
«Se parliamo dei giovani, oggi c’è una divisione in due abbastanza netta tra chi tende a non bere alcol o preferisce drink a bassa gradazione, che sono la maggioranza dei casi» spiega Villanova, «e chi, invece, vuole spaccarsi con un solo drink». Secondo il bar manager, la moda e le tendenze giocano il ruolo più importante. «Per esempio, oggi c’è la moda di uscire con una ragazza per la prima volta senza bere alcol». In effetti, spopolano su TikTok gli hashtag #partysober di chi racconta la sua serata di sobrietà in discoteca, o di chi consiglia il modo migliore per affrontarla divertendosi (fare un pisolino o bere un caffè prima di uscire, mangiare cibo sano per sentirsi al meglio…).
Sono lontani i tempi in cui per un virgin mojito bastava togliere il rum. Sempre più superalcolici propongono la loro versione zero, un’offerta che risponde a una domanda in continua crescita, quella dei Nolos, i no alcol o low alcol beverages. Sorseggiare un gin tonic a base di un gin alcol free è ormai diventata una pratica comune, che si affianca alle birre zero e ai vini dealcolati. «I cocktail no alcol saranno sempre più richiesti», dice Villanova.
Mixology anni 2000
In questo panorama frammentato è importante non perdere d’occhio un altro aspetto: nonostante il minor consumo medio, non c’è evidenza del fatto che tra i giovani siano cambiati gli atteggiamenti di binge drinking, cioè dell’assunzione di alcol in grandi quantità, del suo abuso. Proprio in questa fascia di consumatori a rischio, Villanova osserva una sorta di ritorno alla mixology del passato, sempre che “mixology” si possa chiamare. «Tutti gli esperti del settore quello degli anni Novanta-Duemila lo hanno chiamato il periodo nero della miscelazione», racconta il barman, «non c’era qualità, si buttava dentro un drink qualunque cosa, l’importante è che fosse dolce e molto alcolico». E sarebbero proprio le caratteristiche che spingono alcuni, ancora oggi, a ordinare un Angelo Azzurro. «I ragazzi vanno su internet e trovano questi drink di cui non sapevano niente ed è il loro modo per ubriacarsi con pochi soldi a disposizione».
Se ci si avvicina al bancone di un locale, ancora oggi, dunque, può capitare di sentire nomi di cocktail che, dice il barman: «Pensavo di aver smesso di usare». Accanto all’Angelo Azzurro, il B52, uno shottino a base di calua, Bayle’s con il Grand Marnier bruciato alla fiamma, o il celebre Quattro Bianchi: gin, vodka, rum bianco e tequila.
Il ruolo dei professionisti
Non è possibile prevedere se il modo di approcciarsi all’alcol dei futuri giovani cambierà ancora. È probabile che negli anni resterà la tendenza a opporsi alla generazione precedente per quanto riguarda i consumi ed è facile aspettarsi che la sempre più diffusa interconnessione del mondo porterà a una crescente ibridazione tra gli usi.
Se l’Angelo Azzurro è morto, se ne farà un altro, magari low alcol, o semplicemente più bilanciato, dai colori più tenui e dal sapore più naturale. Intercettare le tendenze e guidare i clienti è responsabilità dei professionisti del mondo della mixology. Conclude Villanova: «Molto dipende da noi che facciamo questo lavoro dietro il banco, è importante riuscire a dare ai ragazzi alternative valide e di qualità».
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