- È lodevole il fatto che già a venticinque anni l’autore di questo romanzo abbia capito che esista una sola maniera per risolvere il problema essenziale di abbandonare il proprio corpo per migrare in altre realtà: bisogna trasformarsi.
- La faina, per come la conoscevamo prima di aver letto il romanzo con cui Zannoni si è aggiudicato il Premio Campiello, era un animale principalmente solitario e ben poco incline alla socialità.
- I miei stupidi intenti è una storia semplice in cui mi pare di intravedere quanto dolce eppure severa sia stata la libertà di scrittura del suo giovane autore. Un romanzo che si distacca dall’uomo senza allontanarsene.
È lodevole il fatto che già a venticinque anni l’autore di questo romanzo abbia capito che esista una sola maniera per risolvere il problema essenziale di abbandonare il proprio corpo per migrare in altre realtà: bisogna trasformarsi, tutte le volte che si può e senza perdere mai l’occasione, in qualcos’altro di completamente diverso da sé stessi. E nel suo libro d’esordio – I miei stupidi intenti, pubblicato da Sellerio – Bernardo Zannoni ha deciso di trasformarsi in una faina.
Forse gli altri animali non hanno sufficiente fantasia per immaginarsi uomini, ma gli uomini ne hanno persino d’avanzo per immaginare di essere uno qualunque degli altri animali. Lo scrittore, poi, ha un così buon ascendente sulla realtà che questa può modificarsi secondo le sue volontà e perciò non soltanto vagheggia di vivere come farebbe una faina ma può addirittura creare il piccolo mondo in cui farla zampettare dal giorno della sua nascita a quello della sua morte.
La faina, per come la conoscevamo prima di I miei stupidi intenti, era un mammifero onnivoro della famiglia dei mustelidi: mezzo metro di corpo, a cui si aggiungono i venticinque centimetri della coda, per un peso di un paio di chilogrammi. Aveva le orecchie arrotondate e bordate di bianco e il suo pelo corto e folto, a eccezione del muso, della fronte e delle guance che abitualmente erano più chiare, era marroncino. La faina, almeno per come la conoscevamo prima di leggere il romanzo d’esordio di Bernardo Zannoni, era una bestia notturna: durante il giorno se ne stava rifugiata in ruderi, fienili o pietraie, mentre dopo il tramonto o più spesso a notte fonda usciva dal suo rifugio per andare a caccia. La faina, per come la conoscevamo prima di aver letto il romanzo con cui Zannoni si è aggiudicato il Premio Campiello, era un animale principalmente solitario e ben poco incline alla socialità.
Una faina meditabonda
Archy, la faina che ha concepito Zannoni, ha tre fratelli e una madre che li educa dicendo «Chi li crescerà?», «Non mettetevi nei guai», e soprattutto dicendo loro «Zitti!». Sin da piccolo è insicuro, sensibile, assai meno forte del fratello maggiore, traballante e a ogni passo può perdere l’equilibrio. Non è un indeciso, però, è un sentimentale.
È a tal punto romantico, Archy, da confondere la primavera, la stagione degli accoppiamenti, con l’amore e così si innamora perdutamente della sorella. Le propone di scappare, di andarsene lontano. Come troveranno da mangiare, visto che ancora non sono in grado di procurarsi da sé il cibo? Nelle fantasie di Archy non c’è bisogno di alimentarsi, c’è soltanto una grande fuga nel bosco.
Si tratta di un raro esemplare faina meditabonda, contemplativa e di fatti alla prima imprudenza della sua vita – una scalata di un albero per raggiungere un uovo – diventa zoppo. Già era nato inadeguato e inadatto alle crudeltà del mondo, adesso è pure zoppo.
La madre allora lo consegna a una volpe. Solomon vive in una casa dall’odore dolciastro, con una stanza grande e buia, piena di sacchi di cibo. La madre fa il prezzo per il figlio: una gallina e mezza. Solomon accetta. La mezza gliela darà dopo un mese, se quel figlio guastato dimostrerà di lavorare bene.
I primi tempi la vecchia volpe dà ad Archy un sacco di tela e gli dice di riempirlo con i semi del grano, gli fa tagliare l’erba a valle e la legna per la cucina, gli spiega le sue mansioni una volta soltanto e si arrabbia se sbaglia o se dà l’impressione di essere stanco.
Intanto le stagioni scorrono. L’autunno con le prime piogge, gli odori pungenti, il ruscello ingrossato e le chiome rosseggianti. D’inverno la neve. In primavera si caccia e si mangia come in nessun’altra stagione, in nessun altro momento dell’anno c’è la stessa abbondanza di risorse. D’estate ci si riposa dagli accoppiamenti primaverili e si fanno le scorte per le ristrettezze autunnali.
Archy diventa grande quando capisce che nei giorni più dolorosi che ci sono in una vita non arrivano le locuste, né la terra è squassata da terremoti o dal cielo fiocca sangue: il sole solitamente è pallido mentre la propria esistenza va a rotoli. E questo è ciò che impara dalla vita. E dalla morte? Dalla morte Archy forse imparerà che «quell’attimo più buio è un percorso solitario, nei meandri di sé stessi, dove ogni cosa sparisce, e si tenta di riacciuffarla».
L’usuraio
Solomon è un usuraio che ha clienti che vengono da tutto il bosco. Al posto dei soldi dà galline, e in cambio esige semi di grano. È crudele, come i suoi interessi, impone scadenze rigide e condizioni spietate, a ogni accordo non gli sfugge un ritardo e non si fa mai pagare un seme in meno di quanto non gli spetti. Segna tutto su un pezzo di legno con un bastoncino sottile che intinge in una ciotola di colore rosso.
All’inizio Solomon adoperava il suo stesso sangue, ma quando si accorse di essere dimagrito troppo e così in fretta, iniziò a usare il sangue dei polli, o meglio ancora le ciliegie schiacciate miste a bava di lumaca. Com’è possibile, però, che una volpe sappia scrivere?
Vagolando per il bosco, un giorno di molti anni prima Solomon aveva visto un uomo impiccato al ramo di un albero e qualcosa gli era improvvisamente caduto in testa. Aveva così scoperto la Bibbia e da allora ne era rimasto affascinato. In quello stesso periodo aveva conosciuto una cagna. I figli dei suoi padroni stavano imparando a leggere e a scrivere. Solomon, allora, portava alla cagna quel che di ghiotto trovava nel bosco e lei, per ricambiare, gli faceva assistere da vicino a quelle lezioni. Finché Salomon aveva imparato a leggere la Bibbia. E da lì imparò a scrivere. E anni dopo avrebbe insegnato ad Archy a fare altrettanto.
Il miracolo dell’immaginazione
I miei stupidi intenti è una storia semplice in cui mi pare di intravedere quanto dolce eppure severa sia stata la libertà di scrittura del suo giovane autore. E l’aggettivo “giovane”, in questo caso rarissimo della storia recente italiana, è usato con esattezza. Zannoni risulta infatti venticinquenne nel risvolto del libro e oggi di anni ne ha ventisette.
Gli scrittori sentono centinaia di voci attorno a loro, e alcune di queste sono voci di altri animali. Un romanzo come questo – che si distacca dall’uomo senza allontanarsene – è la dimostrazione che oltre al miracolo della vita biologica esiste anche l’altrettanto sorprendente e stravagante miracolo dell’immaginazione e che il secondo miracolo è innanzitutto opera degli scrittori.
In un racconto dello scrittore J. Rodolfo Wilcok, intitolato La lettrice, la protagonista è una grossa gallina, talmente grossa che nell’andirivieni tra una stanza e l’altra, ha sfondato più di una porta dell’appartamento cittadino in cui vive. Unica nel suo genere, si tratta di una gallina intellettuale e legge tutto il giorno i manoscritti che l’editore le spedisce a quel suo indirizzo. Da quando una cataratta ha reso quasi cieco il sinistro, vede soltanto dall’occhio destro. Eppure non ha mai sbagliato un giudizio.
Ha abitudini miti, la gallina intellettuale, lavora fino alle sei di sera e la mattina di buonora si appollaia nella sala da pranzo a leggere. Se il libro non le piace, lo mangiucchia. Così che per l’editore è semplice capire quali siano, invece, i romanzi che meritano di essere pubblicati: quelli, la gallina li lascia intatti, sparsi per tutto l’appartamento. Si direbbe che, seppure con sembianze pennute, quel fortunato editore avesse finalmente trovato il più talentuoso consulente che la storia dei libri ricordi.
È stato dunque fortunato, il romanzo di Bernardo Zannoni, a non passare sotto gli occhi di quella lettrice. Soprattutto adesso che l’autore è diventato il più giovane ad aggiudicarsi il Premio Campiello, farebbe bene l’editore Sellerio a tirare un sospiro di sollievo per non avere tra i propri consulenti editoriali quella prodigiosa gallina che comprensibilmente, in ricordo delle sanguinarie scorribande delle faine nei pollai, al momento se consigliarne o meno la pubblicazione, avrebbe fatto valere più la rivalità di specie che un onesto giudizio letterario sull’opera.
Il libro “I miei stupidi intenti” di Bernardo Zannoni – vincitore del Premio Campiello 2022, Premio Bagutta Opera Prima 2022 e Premio Salerno Letteratura 2022 – è edito da Sellerio (2021, pp. 252, euro 16).
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