Qualche giorno fa c’è stata a Roma un’altra proiezione di un documentario bellissimo sull’educazione e l’infanzia, che meriterebbe una distribuzione con lunghe teniture nei cinema. L’ha realizzato la regista romana Giulia Amati, e si chiama Kristos, l’ultimo bambino.
La storia è semplicissima: Kristos è un bambino di 11 anni che frequenta l’ultimo anno di una scuola elementare greca, in una piccolissima isola del Dodecaneso, e corre il rischio concreto, tra difficoltà logistiche e pressioni famigliari, di non continuare gli studi. Per andare alle scuole medie dovrebbe trasferirsi in un’altra isola più grande, in una realtà urbana più complessa, una volta preso il diploma di sesta. L’alternativa alla scuola è fare il pastore; come il padre, i fratelli e le generazioni che li hanno preceduti. Cosa sceglierà? Lasciare l’isola per fare le medie o restare?

Ma se ci si limita a guardare il film di Giulia Amati per voler conoscere il destino di Kristos se ne perde però la maggior parte del valore. La bellezza di questo ultimo anno di scuola elementare di Kristos si rivela proprio nella capacità di portare alla luce la spaccatura profonda di uno scontro culturale che solo il tema educativo è in grado di restituire in tutta la sua complessità.

Educazione e scuola a confronto

La storia di Kristos non è quindi solo la storia di una scelta difficile, ma è anche la rappresentazione del rapporto tra educazione e scuola, soprattutto quando lo raccontiamo nel contesto di una dialettica culturale forte, drammatica.

Kristos fa esperienza tutti i giorni di cosa voglia dire crescere, prendersi cura di altre creature, essere responsabili: porta le capre al pascolo, le nutre, è inserito nell’economia famigliare, è fiero di parteciparvi attivamente. La sua è un’educazione non formale, fortemente legata alla natura, taciturna e riflessiva, profondamente empatica.

Dall’altra parte c’è la scuola, ossia quella conquista democratica che nella storia del mondo ha messo e mette fine al lavoro minorile: la scuola fatta di lavagne, banchi, voti, promozioni – uguale su tutto il pianeta. Anche se quella di Kristos è una scuola anomala: lui è solo, con la maestra che insegna italiano, matematica e scienze; per inglese si collegano con un’altra maestra che sta al di là dello schermo.

Tante scene ci raccontano il confronto costante tra l’insegnamento scolastico e l’esperienza quotidiana di Kristos: un giorno fa lezione sulle frazioni proprie, improprie, apparenti; un altro giorno cerca di capire come dividere nelle bottiglie il latte da dare alla capra.

E anche quelli che a scuola si chiamano “compiti di realtà” (fare le frittelle a scuola) impallidiscono di fronte a un apprendimento più autentico (contare i sacchi di patate o le casse d’acqua scaricate dal camion).

Così la prima domanda che ci lascia il documentario è se sia davvero possibile, e – in definitiva – giusto questo gerarchizzare le forme di educazione? Davvero una ha più valore dell’altra?

Il valore dell’esperienza

Mentre seguiamo un anno di scuola di Kristos, quasi in ogni immagine ci viene rimandata continuamente questa domanda sull’essenza profonda dell’educazione, illuminata nel dissidio che si viene a creare quando un modello culturale (la scuola pubblica, l’obbligo scolastico a 15/16 anni, il divieto del lavoro minorile, lo studio dell’inglese, la tecnologia applicata alla didattica…) si scontra con un altro (la cura per gli animali, la comunione profonda con la natura, le tradizioni famigliari…) a cui tenta di sostituirsi.

E così per la maestra, seppure ami molto Kristos e cerchi di valorizzare la sua esperienza e la sua conoscenza – anche imparando da lui i nomi e le proprietà delle piante («è molto importante che tu abbia tutte queste conoscenze. Ti invidio. (…) Ne sai molto di più della tua maestra, rispetto a certi argomenti», dice lei nata e cresciuta in città) – arriva un momento in cui ha comunque bisogno di trovare un modo di rendere legittima quella conoscenza, di nobilitarla: «Potresti studiare botanica o agronomia».
È l’idea che una cultura, una conoscenza, per essere accettabile debba essere legittimata da un percorso di studi, da un diploma.

Ecco un dramma più acuto della scelta che deve affrontare Kristos.

È un conflitto certo non nuovo, anche se pensiamo alla scuola italiana: quello che contrappone l’edificio della cultura scolastica di stampo gentiliano (e classista) della scuola media alla cultura contadina.
Era per esempio già nelle riflessioni di don Lorenzo Milani; lui l’aveva provato a risolvere costruendo una scuola aperta al mondo a Barbiana, tra le colline del Mugello: un modello a cui viene spesso da pensare guardando Kristos.

L’arena di un conflitto

Comunità educante è un termine oramai imprescindibile nella riflessione e nella progettazione educativa e sociale.
L’idea essenziale della comunità educante è che lo sviluppo di un progetto all’interno di un territorio non sia più esclusivamente compito dell’istituzione, politica o educativa, o di un eventuale finanziatore che decide le linee di investimento e detta le priorità, o ancora dell’ente che lo realizza mettendo in campo le competenze professionali.

Si dovrebbe arrivare a costruire tutti insieme progetti e traiettorie di sviluppo.

Così la storia di Kristos non è solo la sua storia. La sua educazione, il suo futuro, la possibilità di emanciparsi, è un tema per tutta la comunità dell’isola, che infatti ne discute e si divide tra la paura che se tutti se ne andranno non resterà nessuno e la consapevolezza che la vita del pastore sull’isola, forse, è una vita che comporta troppe rinunce per un bambino o per un ragazzo.

Il film di Giulia Amati è un doppio romanzo di formazione. Kristos e i suoi fratelli sono il simbolo di una comunità che si interroga sul proprio futuro.

E quando poi Kristos parte per il suo primo giorno di scuola media la comunità piccola e sparuta dell’isola è lì a salutarlo e abbracciarlo, ripetendogli che l’isola sarà sempre lì per lui. Continueranno a volergli bene anche da lontano, e al tempo stesso guarderanno a sé stessi alla luce delle scelte dell’ultimo bambino.

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