La fotografa statunitense, il cui lavoro è stato per lungo tempo sconosciuto, ha viaggiato per il nord America lavorando come bambinaia, documentando con la sua Rolleiflex ciò che incontrava e scattando immagini di grande intimità
- Quando lasciò New York, nel luglio del 1955, Vivian non era più invisibile. Tagliando i ponti con la famiglia e avvicinandosi alla fotografia era riuscita a costruirsi un personaggio che a distanza di sessant’anni è ancora impresso nella memoria di chi l’ha conosciuta.
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Durante la sua permanenza in Canada, Vivian scattò altre immagini di grande intimità. La fisicità tipica delle bambine si riflette in un toccante ritratto di due amichette così vicine tra loro da sfiorarsi con la pancia, la fronte, gli occhi e i piccoli nasi.
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Nei momenti liberi Vivian riuscì a trovare il modo di incastrare un tour di Hollywood, qualche gita in giornata e i suoi soliti vagabondaggi fotografici. Considerato il suo interesse per i film e i divi del cinema, una volta a Los Angeles, cercò qualche buona occasione per fotografarne qualcuno.
Vivian Maier è stata una fotografa statunitense, esponente della street photography. Nata a New York il 1 febbraio 1926 ha passato la sua giovinezza in Francia. Nel 1951 è tornata negli Stati Uniti, dove ha lavorato per quarant’anni come bambinaia, dedicandosi alla fotografia nel tempo libero. Ha documentato per mezzo secolo le città di Chicago e di New York, e non solo. Ha viaggiato per il nord America, scattando più di 100mila negativi, rimasti sconosciuti fino al 2007, quando furono scoperti da John Maloof, il figlio di un rigattiere di Chicago.
«Los Angeles è un posto noioso. Non è una città, ma un paesotto di bifolchi», Vivian, a una vicina
Quando lasciò New York, nel luglio del 1955, Vivian non era più invisibile. Tagliando i ponti con la famiglia e avvicinandosi alla fotografia era riuscita a costruirsi un personaggio che a distanza di sessant’anni è ancora impresso nella memoria di chi l’ha conosciuta.
Adesso voleva partire per ritagliarsi una vita completamente diversa. Nel suo viaggio verso ovest attraversò in treno il Canada per visitare alcuni santuari del Québec. La prima tappa fu il Saint Joseph’s Oratory di Montréal, dove i pellegrini dovevano salire novantanove gradini di legno sulle ginocchia in segno di devozione. Da lì Vivian si spostò nella città di Québec per visitare la basilica di Sainte-Anne-de-Beaupré, un luogo in cui si recavano i malati gravi nella speranza di guarire e poter abbandonare stampelle e carrozzine.
Vivian fotografò ogni singola statua di bronzo della Via crucis ma un solo essere umano, un bambino dall’aspetto modesto e dalla pelle lattiginosa che ben si adatta all’ambiente circostante. Il ragazzino risalta al centro dell’immagine, mentre le linee della recinzione di fronte, dell’edificio alle sue spalle e della ringhiera laterale formano insieme un effetto quasi tridimensionale. Una ciocca di capelli biondi aggiunge una scintilla di vita alla sua presenza statuaria.
Il cattolicesimo era molto radicato nella formazione di Vivian, nei cui scatti abbondano chiese e suore, queste ultime particolarmente interessanti a livello visivo per il potenziale grafico e simmetrico dei loro abiti bianchi e neri. Vivian le immortalava sempre in modo ironico, impegnate in attività decisamente poco religiose come fare compere, partire per una crociera, prendere il sole, andare al cinema e ridacchiare in compagnia. Un gruppetto di sorelle con i loro copricapi biforcuti sembra un branco di oche pronte a spiccare il volo. Più avanti Vivian avrebbe ripudiato la religione, in particolare il cattolicesimo, sostenendo la libertà di praticare il controllo delle nascite e l’aborto.
Dal Canada agli Usa
Durante la sua permanenza in Canada, Vivian scattò altre immagini di grande intimità. La fisicità tipica delle bambine si riflette in un toccante ritratto di due amichette così vicine tra loro da sfiorarsi con la pancia, la fronte, gli occhi e i piccoli nasi – le teste come due metà di un cuore. È un’immagine dolce ed estremamente commovente.
In una rappresentazione più astratta, una coppia di pini incornicia un tramonto sull’oceano formando uno scenario così romantico che non si può fare a meno di chiedersi cosa stesse accadendo in quel maggiolino della Volkswagen un po’ sbilenco. Esistono molti esempi che dimostrano la serenità di Vivian nel raccontare l’intimità e il contatto fisico di altre persone, gesti che non riusciva a tollerare per se stessa.
Arrivata a Los Angeles nel mese di luglio, aprì un conto in banca e prese una stanza al Southland Hotel, frequentato da «donne non sposate di una certa età e lavoratori di vario tipo». La grande inaugurazione di Disneyland ad Anaheim coincise con l’arrivo di Vivian nella California meridionale. Attratta come sempre dal nuovo e dalle sensazioni forti, fu tra i primi a visitare il parco. Nonostante la sua propensione per le rappresentazioni realistiche, Vivian si lasciò suggestionare dagli attori travestiti da nativi americani e li fotografò come se fossero autentici. Mentre gli scatti dalla West Coast sono quasi tutti in bianco e nero, per il regno della fantasia ci voleva il colore.
Istanti fugaci
Per due mesi Vivian si occupò di una bambina dai capelli biondi di nome Diana, la cui famiglia simboleggiava il vero sogno californiano: la carriera, il country club, i prati verde smeraldo e il sole tutto l’anno. La madre, Charlotte Martin, aveva tante cose in comune con Vivian, tra cui l’altezza e la corporatura possente. Entrambe provenivano da famiglie povere, erano molto intelligenti e nutrivano un profondo interesse per i reietti.
Dalle fotografie di Vivian, sembra siano stati dei giorni felici. Charlotte aveva un marito affettuoso, un uomo di successo, e Diana, che all’epoca era stata appena adottata, ci conferma che fu il periodo più bello della vita di sua madre. Le immagini di quell’estate trasudano un fascino e un’armonia familiare che presto sarebbero svaniti. Sembra impossibile, ma tra la madre e la figlia, che Vivian ritrasse in tutto il loro splendore, i rapporti si sarebbero interrotti prima ancora che Diana diventasse adulta.
Negli anni sessanta la famiglia si trasferì a Washington perché il signor Martin potesse lavorare nell’amministrazione Kennedy, per poi tornare in California dopo l’omicidio del presidente. Le pressioni di un’epoca che esigeva la perfezione da tutte le donne fecero precipitare Charlotte in una spirale di dipendenza, distruggendo l’unità familiare. Il finale inatteso di questa storia ci ricorda che le fotografie sono solo istanti fugaci fermati nel tempo.
Per usare le parole di Susan Sontag: «Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona. Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo».
Nei momenti liberi Vivian riuscì a trovare il modo di incastrare un tour di Hollywood, qualche gita in giornata e i suoi soliti vagabondaggi fotografici. Considerato il suo interesse per i film e i divi del cinema, è ovvio che una volta a Los Angeles cercasse qualche buona occasione per fotografarne qualcuno, soprattutto dopo tutti quei servizi a Stuyvesant Town che ricordavano i book delle attrici.
Spinta dalla passione per la fotografia in tutte le sue forme, in California Vivian comprò una seconda Rolleiflex, un nuovo modello automatico che aveva il vantaggio di poter bloccare tempo di esposizione e apertura del diaframma. Quando ad agosto terminò il suo impiego come bambinaia per i Martin, i contatti che aveva sperato di trovare nell’ambito professionale non si erano ancora concretizzati. Qualche tempo dopo avrebbe detto a un vicino che l’industria cinematografica era del tutto impenetrabile: «Se non sei dentro, non esisti».
Si prese un mese per girare la California meridionale e tornare a trovare gli amici del Champsaur da cui era già stata nel 1953. La grande famiglia degli Eyraud la accolse sotto il suo tetto e condivise album, visite al cimitero e un po’ di compagnia tra connazionali.
Poi andò a trovare un’altra amica, Margarite Heijjas, un’infermiera ungherese che aveva conosciuto in Central Park, poi trasferitasi a Pasadena. Ogni volta che si vedevano, Vivian scattava una foto a quest’amica dal viso pallidissimo, che col passare del tempo diventò sempre più eterea. In varie occasioni la fedele Margarite le “prestò” dei soldi che Vivian si impegnò a restituire, ma non ci sono prove che l’abbia fatto davvero.
In viaggio
Nell’ottobre del 1955 i membri del famoso Mary Kaye Trio compaiono senza un motivo apparente tra i soggetti di Vivian. Il terzetto jazz era composto da Frank Ross, Norman Kaye e Mary Kaye, una chitarrista così famosa che la Fender le dedicò una Stratocaster. I tre erano all’apice della popolarità e si erano appena aggiudicati un ingaggio stagionale a Las Vegas, diventando gli artisti più pagati della loro epoca.
Si esibivano tutte le sere in un locale sulla Las Vegas Strip per sei mesi l’anno, senza mai smettere di pubblicare album che finivano in vetta alle classifiche – e di sfornare figli, grazie ai numerosi matrimoni. Avevano bisogno di una tata per il tour alle porte e caso volle che assunsero proprio Vivian. Suo fratello, il chitarrista, sarebbe senza dubbio morto d’invidia.
Kandee, una delle bambine più grandi, ricorda che Vivian le insegnò a contare in francese tra San Francisco, lo chalet di montagna dove trascorsero il Ringraziamento e il tour che attraversò tutto il Midwest. La fotografia più straordinaria di quei due mesi insieme ritrae l’intero clan disposto in perfetta formazione intorno a un bizzarro scivolo a spirale che somiglia a un gigantesco cavatappi.
Durante i sei mesi che passò sulla costa occidentale, Vivian Maier riuscì a ritagliarsi una vita emozionante. Girò in lungo e in largo per un vasto territorio, riallacciò i rapporti con dei vecchi amici, partecipò all’inaugurazione di Disneyland e andò in tour con la «first lady del rock and roll».
Dopo l’ultimo concerto del Trio nel dicembre del 1955, a Chicago, Vivian rispose a un annuncio di lavoro sul giornale cittadino. Secondo John Maloof, quando la sua potenziale datrice di lavoro Nancy Gensburg la incontrò per il colloquio, Vivian non le diede alcuna referenza a parte dirle che aveva lavorato per una decina di famiglie. Chiuso il capitolo che riguardava la sua vita a New York e la sua famiglia, Vivian non avrebbe mai più rivelato le sue vere origini, nemmeno se c’era di mezzo il lavoro.
Avron Gensburg era un imprenditore di successo che gestiva una fabbrica di flipper a conduzione familiare. Sua moglie Nancy, una scultrice della Georgia, trovò la candidata schietta e interessante, e a quanto pare la assunse quel giorno stesso. Vivian si trasferì nella casa di Highland Park nel gennaio del 1956 e ci restò per undici anni, la situazione più stabile e più duratura in cui si sarebbe mai trovata. In questo caso, e per quasi tutti i suoi impieghi successivi, Vivian si imbatté in una persona con un background creativo che non si fece scoraggiare dal suo aspetto atipico, apprezzando invece le qualità più particolari.
In futuro tornò nel nord-est del paese soltanto tre volte: la prima per risolvere alcune questioni in sospeso e le altre due per fare tappa verso altre destinazioni. Ma nonostante questo taglio netto con la città che per trent’anni era stata il suo porto sicuro, Vivian restò per sempre un’ammiratrice della Grande Mela, continuando a definirla il posto più bello del mondo. Il regalo più grande che potesse lasciare a New York è proprio il suo meticoloso e straordinario lavoro di documentazione della vita in città durante gli anni cinquanta.
Questo è un estratto del libro “Vita di Vivian Maier” di Ann Marks edito da Utet e tradotto da Chiara Baffa.
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