- Sembra facile ridere delle tesi del ministro Giuseppe Valditara sulla caduta dell’impero romano: colpa dell’incapacità di gestire l’immigrazione delle popolazioni barbariche.
- Ma questo crudo parallelo tra l’età antica è i problemi dell’attualità è tutto meno che un caso isolato. Una corrente di storici prestigiosi e influenti ha diffuso questa tesi. Anche sui giornali italiani da anni se ne scrive sempre più spesso.
- Nel caso specifico è una tesi non molto solida, come tutte le idee monocausale, ma in realtà rivela un problema più generale. L’uso politico della storia ci porta a semplificare un discorso complesso per definizione. E più si torna indietro nel tempo, più il problema è grave.
Sembra facile ridere delle tesi del ministro Giuseppe Valditara sulla caduta dell’impero romano. Valditara, professore di diritto romano e intellettuale da sempre vicino a Lega e An, ha scritto due libri sul tema: uno dal tono più accademico, L’impero romano e l’immigrazione: una questione attuale, e una versione ridotta a pamphlet, pubblicata dal quotidiano il Giornale: L’impero romano distrutto dagli immigrati. Sepolto da critiche e sberleffi appena nominato, Valditara ha fatto una rapida marcia indietro. I suoi libri, ha assicurato, riconoscono il valore storico delle migrazioni a patto che vengano governate e non subite. E butta la responsabilità sul direttore del Giornale per aver scelto un titolo troppo commerciale, pensato solo per stuzzicare i lettori.
Una tesi in ascesa
È solo una ritirata tattica, un sintomo delle difficoltà del governo Meloni, stretto tra il desiderio di mostrarsi rispettabile e la necessità di segnare punti sul terreno identitario. La storia antica, mai come ora, è un terreno fertile per questo tipo di semina. C’è una crescente tendenza a tirare in ballo l’antichità in questioni politiche contemporanee. Negli Stati Uniti il mondo classico viene tirato in ballo per questioni razziali. La destra difende l’idea di un mondo antico bianco come i marmi del Partenone e impazzisce quando gli storici ricordano che le statue greche e romane erano dipinte. La sinistra attacca l’idea stessa dell’insegnamento dei classici, accusandola di essere la pietra angolare sui è stata costruita l’idea della superiorità dei bianchi.
In Europa, è invece l’eterna questione della caduta dell’impero romano a dividere gli animi. Se oggi Valditara viene deriso per le sue tesi basta una rapida ricerca negli archivi dei giornali per trovare un crescente numero di articoli in cui la fine di Roma viene associata ai moderni fenomeni migratori. Non è un fenomeno solo Italia. Le culture che si considerano in qualche modo “eredi di Roma” hanno una tentazione irresistibile a proiettare sulla caduta dell’impero le loro ansie e speranze.
Si tratta di un tema che Michael Kulikowski, professore di storia romana alla Penn State University, conosce bene. Autore anche lui di un libro sulla caduta dell’impero, The tragedy of the Empire, non ancora tradotto in italiano, nel 2012 iniziava la lezione da cui avrebbe tratto il suo libro, intitolata “Il suicidio accidentale dell’impero”, con una rassegna di tutte le “cadute di Roma” che generazioni di europei e americani hanno creato a loro immagine: dagli storici che a cavallo del novecento attribuivano la colpa al mescolarsi delle razze, a quelli degli anni Settanta, che all’albore dell’ambientalismo accusavano l’avvelenamento per il piombo presente nelle tubature degli acquedotti romani.
«Negli ultimi decenni è l’esperienza delle migrazioni in Europa a influenzare le ricostruzioni – dice oggi – In parte come reazione alla tesi della continuità, diffusa negli anni Novanta, che vedeva una sintesi quasi pacifica tra cultura romana e quella dei germani, si tornata ad affermarsi l’idea che la caduta dell’impero romano non sia stata una fatto positivo, ma sia stata violenta e brutale e causata dagli stranieri».
Due libri, in particolare, hanno contribuito a questa associazione. Pubblicati entrambi nel 2005 da due importanti storici britannici, Bryan Ward-Perkins e Peter Heather, sono documentati bestseller tra le cui righe, però, non si può far a meno di intravedere un parallelo evidente tra la «violenza degli immigrati goti» e questioni di scottante attualità, come l’arrivo nel Regno Unito di centinaia di migliaia di migranti provenienti da paesi dell’Europa dell’est come la Polonia, entrata nell’Unione proprio l’anno precedente.
È complicato
Sono questi i testi a cui si è ispirato Valditara e che in questi giorni citano i suoi difensori. La tesi, in sostanza, è che Roma non è andata incontro a un graduale processo di decadenza. Sopravvissuto al periodo della cosiddetta anarchia militare
, l’impero nel Quarto secolo era sano e forte come non lo era da tempo. Sarebbe stato l’errore di aprire le frontiere per accogliere un gruppo di barbari goti particolarmente numeroso, e l’incapacità di gestirlo, che avrebbe portato alla fine di Roma.Kulikowski non è convinto da questa tesi. «L’implicazione sembra essere che se i romani avessero visto cosa stava per accadere allora si sarebbero opposti più duramente e li avrebbero cacciati. Ma, io credo, la storia non funziona così». Da generazioni, Roma accoglieva ed integrava grandi gruppi di popolazioni provenienti da fuori dai confini e all’epoca non c’era ragione di pensare che sarebbe andata diversamente.
Il contributo originale di Kulikowski su questa vicenda si focalizza sullo studio delle biografie dell’élite imperiale e sull’analisi del ruolo che gli scontri interni e le rivalità tra gruppi di potere hanno avuto nell’impedire all’Impero di fare ciò che era riuscito a fare benissimo per secoli. «Le istituzioni finiscono prosciugate della loro energia se le attacchi abbastanza a lungo – dice – Come potremmo scoprire presto anche noi americani».
Se è vero, quindi, che nel Quarto secolo dentro l’impero c’era molta gente che non era nata nei suoi confini, è altrettanto vero che la questione è probabilmente un po’ più complicata della semplice risposta: l’impero è caduto perché non ha saputo gestire i migranti. È questo il problema con le tesi di Valditara e più in generale con ogni tentativo di usare la storia nel nostro presente. «Il discorso politico deve essere per forza semplice e la storia è complicata. E più lontano si va nel tempo e più da vicino la si guarda, più complicata diventa. Non è questione di spingere un argomento piuttosto che un altro, ma di accettare che le cose sono complicate». E quel che vale per duemila anni fa, in un certo senso, vale anche per oggi.
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